La frusta di “12 anni schiavo” lacera la carne e incide le coscienze: una ferita non ancora rimarginata

Chivetel Ejiofor e Michael Fassbender in una scena del film “12 anni schiavo”, di Steve Rodney McQueen

Chivetel Ejiofor e Michael Fassbender in una scena del film “12 anni schiavo”, di Steve Rodney McQueen

(di Paolo Calcagno) Il recente Bafta (l’Oscar britannico che, peraltro, ha premiato “La grande bellezza” quale miglior film straniero) lo ha eletto “film dell’anno” e ha assegnato il trofeo per “il miglior attore” al suo protagonista, Chiwetel Ejiofor. Un successo che si aggiunge al Golden Globe già vinto dal kolossal “12 anni schiavo” e che, probabilmente, anticipa l’ambito Oscar al quale il titolo di Steve McQueen punta con ben 9 nominations. Il film lo abbiamo visto al Festival Capri-Hollywood dello scorso dicembre e, dopo un periodo sufficiente a far sedimentare le impressioni più immediate, con l’aggiunta di opportune riflessioni, ci associamo al giudizio della giuria del Bafta 2014 rivolto a questa produzione spettacolare e intensa, sia per ciò che mostra con le sue straordinarie immagini, sia per ciò che impone nel profondo delle coscienze.
“12 anni schiavo”, del regista inglese di origine sudafricana Steve McQueen, è un film politico che sa soddisfare le esigenze del cinema di massa senza piegarsi a stucchevoli romanticismi, né a trattamenti piatti del forte tema razziale che ne è al centro. Non soltanto per la durezza delle sue scene, “12 anni schiavo”, davvero, è un pugno nello stomaco che lascia lo spettatore immobile, aggrappato a un fil di fiato: numerose le fughe dalle sale per il confronto con le sequenze più impressionanti e con l’incalzare del tema dello schiavismo che non lascia pace.
Tratto dall’autobiografia del protagonista, “12 anni schiavo” racconta la storia vera del violinista nero Solomon Northrup che, nel 1841, nonostante fosse un uomo libero, sposato e con due bambini, venne rapito, venduto, e deportato in una piantagione di cotone in Louisiana come schiavo, dove rimase fino al 1853. A quel tempo, le leggi degli Stati Uniti non erano uniformi, pertanto a Washington (dove avvenne il rapimento) la schiavitù era legale, mentre non lo era a New York, dove viveva Northrup. Responsabili degli infernali 12 anni di schiavitù del musicista di colore furono due bianchi, che con l’inganno di una ricca proposta di lavoro in un circo lo attirarono nella capitale, lo fecero ubriacare e lo derubarono dei documenti che provavano il suo status di uomo libero.
Steve Rodney McQueen, nero, 44 anni, è sicuramente un regista di talento: i suoi precedenti film “Shame” e “Hunger” sono due sonde calate nel buio dell’animo umano che esplorano il lato oscuro dell’uomo. Stavolta, però, non c’era spazio per intuizioni geniali e tormentate: la discriminazione razziale e lo schiavismo praticato odiosamente nel Sud degli Usa, fino all’abolizione imposta da Lincoln, sono temi largamente divulgati in passato che poco si prestano a originali modalità del racconto. Pertanto, sostenuto da attori eccellenti, quali il suo preferito Michael Fassbender (formidabile il suo ritratto di sadico e violento proprietario di schiavi), gli efficaci protagonisti neri Chiwetel Ejiofor e Liopita Nyong’o, i feroci aguzzini Paul Giamatti e Paul Dano, il paternalistico schiavista Benedict Cumberbatch, mentre è ininfluente il cameo del canadese abolizionista di Brad Pitt (determinante, invece, per la realizzazione del film la sua partecipazione come produttore), McQueen ha scelto di rappresentare crudamente la quotidianità dolente e intima della vita degli schiavi, mostrata spietatamente nella sua ripetitività, intrecciandola efficacemente a un barbarico concetto di proprietà e alle convenienze di una disumana economia. La strada tracciata dal regista è quella della violenza più realistica, alla maniera di Mel Gibson ne “La passione di Cristo”, indugiando ripetutamente sulle scene di tortura e mostrando da vicino le lacerazioni delle frustate e le sofferenze infernali incise nella carne di uomini, donne e ragazzi di origine africana. Lacerazioni che, secondo il regista (e non solo), non possono essere rimarginate con un frettoloso processo di rimozione (nonostante Obama presidente). Infatti, “12 anni schiavo” è un atto di accusa, tremendo e inappellabile, per quella vasta parte degli Stati Uniti, dal Texas alla Louisiana, dalla Georgia all’Alabama, che nell’epoca moderna si è macchiata di un crimine contro l’umanità fra i più gravi, appunto, lo schiavismo.
Ma sarebbe banale e odioso circoscrivere le valenze socio-politiche solamente al contesto storico narrato nel film. “12 anni schiavo” è anche un film attuale: il lutto che racconta è certamente quello provocato con le deportazioni di massa della gente africana nel nord dell’America e con la pratica dello schiavismo negli Stati Uniti, ma è un lutto che si estende fino ai giorni nostri. Anche al di qua dell’Oceano lo schiavismo è un’industria redditizia, con gli “invisibili” che sbarcano a Calais, Lampedusa, Patrasso, dove si perpetuano i drammi dei rifugiati, le tragedie del mare, i centri con sbarre e filo spinato dove vengono rinchiusi, e, per coloro che non vengono forzatamente rimpatriati, lo sfruttamento bestiale delle manovalanze nere, da Rosarno al nord-est d’Italia, fino all’Europa del nord.
“12 anni schiavo”, regia di Steve McQueen, con Chiwetel Ejiofor, Liopita Nyong’o, Michael Fassbender, Brad Pitt, Paul Giamatti, Paul Dano, Benedict Cumberbatch. Stati Uniti, 2013

Patriottica melassa con George Clooney e soci a caccia dei tesori d’arte rubati dai nazisti

George Clooney e Matt Damon in una scena del film "Monuments Men”

George Clooney e Matt Damon in una scena del film “Monuments Men”

(di Paolo Calcagno) George Clooney guida sullo schermo “La più grande caccia al tesoro della Storia”, come annuncia il titolo del romanzo-verità di Robert Edsel, “Monuments Men”, di cui l’omonimo film dell’ex fidanzato di Elisabetta Canalis è l’adattamento cinematografico. Clooney, ricordando assai Yul Brinner ne “I Magnifici Sette”, forma un gruppo di intrepidi combattenti al servizio di una nobile causa, convincendo esperti, storici e critici d’arte, verso la fine della Seconda guerra mondiale, a indossare la divisa dell’esercito degli Stati Uniti per girare in Europa a caccia dei tesori artistici trafugati dai nazisti e per proteggere i grandi capolavori della Storia al fine di impedire la cancellazione di oltre mille anni di cultura umana. All’inizio, le martellate dei militari tedeschi che inchiodano le casse con i preziosi tesori, quali l’Agnello Mistico di Jan van Eyck, di cui era stata privata la cattedrale di San Bavone (a Gand), scovato dai “Monuments Men” nella miniera di sale di Altaussee assieme alla Madonna di Bruges di Michelangelo e L’astronomo di Vermeer, sono l’allarmante indicazione con cui il regista Clooney ci avverte che l’ordine di Hitler di incenerirli in vista della caduta del Reich è prossimo all’esecuzione e che occorre fare in fretta per portare a termine la missione quasi impossibile di recuperare i Raffaello, Rembrandt, Rodin, Renoir, Picasso, eccetera, per restituirli a chiese, musei e proprietari privati (per la maggior parte ebrei), come caldeggiava persino il Presidente Roosevelt, forse con la coscienza a pezzi per aver fatto bombardare “involontariamente” “L’ultima Cena” di Leonardo” durante gli attacchi aerei su Milano.
Gigioneggiando alla maniera di Clark Gable, il protagonista George Clooney mette insieme la sua squadra di eroici studiosi d’arte, interpretata da una “rosa” di premi Oscar composta da Matt Demon, Bill Murray, John Goodman, Bob Balaban, Jean Dujardin, Cate Blanchett. Il cast stellare e la partecipazione fuori concorso al Festival di Berlino ha accentuato l’attesa per questo film che ha goduto di una promozione tambureggiante, in linea con le modalità dell’industria hollywoodiana. Purtroppo, sul lenzuolo bianco il risultato non è altrettanto squillante. Come già accennato, Clooney si è orientato verso un racconto d’altri tempi in cui, però, mancano gli elementi esaltanti che scandiscano le emozioni della catarsi dei protagonisti, della contagiosa trasformazione purificatoria dei personaggi, delle immagini che stupiscano e incantino nello scontro bellico e morale con il nemico.
Il simpatico George, che come attore ha lasciato il segno in titoli quali “Syriana”, “Michael Clyton”, “Tra le nuvole”, raccogliendo ben quattro Golden Globe e un Oscar, mentre da regista e produttore (premio Oscar per “Argo”) ha sondato l’insolito nel grande ventre del cinismo e del disagio umano con film come “Confessioni di una mente pericolosa”, “Good night and good luk”, “Le idi di marzo”, stavolta non è andato oltre le buone intenzioni di portare in immagini un’interessante pagina storica sconosciuta ai più. A parte Cate Blanchett, che incide sempre con le sue performances e che anche qui si conferma con un’interpretazione raffinata e dolente della direttrice parigina della galleria nazionale “Jeu de Paume” (ambigua nel doppio gioco con gli invasori nazisti e inizialmente scettica sulle buone intenzioni dei “Monuments Men”), il cast d’alto profilo soccorre poco il tasso emotivo del film se non in melassate scene di commozioni, familiari e di gruppo, che ce li mostrano pervasi da un fastidioso sentimento patriottico, in contrapposizione con i volti vili e ringhiosi (rappresentati in stile fumetto) dei nazisti.
Comica e irritante a riguardo, la sequenza dedicata alla rivalità con l’esercito russo (banalmente dipinto come animato da intenzioni predatorie) e al trionfo della bandiera statunitense, esposta all’ingresso della miniera di sale di Altausee, che manda in imbambolata depressione il comandante delle truppe sovietiche. Le scene di guerra, inoltre, sono fra le più scontate e irrilevanti della storia del cinema. Ma è evidente che la sceneggiatura è il punto più debole di questo racconto che non stupisce e, perfino, annoia.
“Monuments Men”, regia di George Clooney, con George Clooney, Matt Damon, Bill Murray, John Goodman, Jean Dujardin, Cate Blanchett. USA 2013.

Eschilo in Oklahoma: gli odiosi segreti della grande famiglia di Meryl Streep

Meryl Streep e Julia Roberts in una scena de “I Segreti di Osage County”, di John Wells

Meryl Streep e Julia Roberts in una scena de “I Segreti di Osage County”, di John Wells

(di Paolo Calcagno) Metti una sera a cena: Meryl Streep con Julia Roberts, Margo Martindale, Ewan McGregor, Dermot Mulroney, Julianne Nicholson, Juliette Lewis, Abigail Breslin, Benedict Cumberbatch, Chris Cooper. È il cast stellare, ricco di premi Oscar, de “I segreti di Osage County”, diretto da John Wells nella scena madre del film, la cena che riunisce l’intera famiglia Weston nella casa di origine, nel Midwest, in seguito al suicidio del capofamiglia. La scomparsa del personaggio interpretato da Sam Shepard è la circostanza che riunisce nella casa la vedova Meryl Streep, le tre figlie, Julia Roberts, Juliette Lewis, Julianne Nicholson, la sorella della dispotica matriarca, Margò Martindale, e i relativi mariti, ridotti al ruolo di ininfluenti accompagnatori, Chris Cooper ed Ewan McGregor, così come il fidanzato della Lewis, Dermot Mulroney.
Nel film, tratto dall’omonima pièce teatrale, scritta dal premio Pulitzer Tracy Letts e vincitrice di 5 Tony Awards (gli Oscar del Teatro), la riunione conviviale della grande famiglia è una sorta di resa dei conti, amara e surreale, di rancori e accuse rimasti in sospeso dal tempo in cui le figlie vivevano ancora con i genitori, intrecciando rapporti non facili e, persino, difficilissimi nei confronti della madre. Una dura amarezza stampata sul volto, persino imbruttita, Julia Roberts tiene testa alla prepotente bravura di Meryl Streep nel progressivo sfilacciamento della formale pace familiare, via via che i segreti più bui saltano fuori, precipitati dal crollo delle ipocrisie su cui poggiava una finta convivenza di comodo. Fra accuse spietate e rivelazioni crudeli, in un ambiente dove tutti abbaiano contro tutti, assistiamo alla demolizione irrimediabile dell’armonia della famiglia.
Prende, così, forma uno scenario da Eschilo in Oklahoma, dove ogni sofferenza genera altre sofferenze, fino a investire tutti i membri di quella famiglia di Osage County, immergendoli in un bagno di dolore da tragedia greca che non risparmia niente e nessuno.
Irresistibilmente istrionica fin dalle prime scene del film, Meryl Streep con il nevrotico e perfido ritratto della matriarca ci regala un’altra perla recitativa che l’ha già condotta alla diciottesima nomination e che potrebbe farle conquistare il quarto Oscar della sua carriera. Ma è tutto il cast a offrire una prova superlativa nello sfascio dei sentimenti e della ragione dei vari personaggi del film. In particolare, spicca l’interpretazione di Julia Roberts in un ruolo che l’ha già portata in lizza per l’Oscar (sarebbe il secondo dopo quello ricevuto nel 2000 per “Erin brockovich – Forte come la verità”) alla migliore attrice non protagonista. Un ruolo che potrebbe segnare una svolta nella sua carriera: dopo essere stata per oltre vent’anni la “fidanzata d’America”, probabilmente, Julia Roberts ha sentito il bisogno di cambiare registro per la sua raggiunta maturità, anagrafica e artistica. Vederla con le rughe, qualche capello bianco, truccata perché sembri bruttina e appesantita grazie a dei cuscini sui fianchi, per tanti, forse, sarà uno shock. Ma ora l’incantevole e mitica protagonista di “Pretty Woman” sa di aver dimostrato di essere pronta anche per ruoli che non puntino esclusivamente sul suo abbagliante fascino.

“I Segreti di Osage County”, di John Wells, con Meryl Streep, Julia Roberts. Stati Uniti, 2013.

È senza denti il “Lupo” di Martin Scorsese e Di Caprio

Leonardo Di Caprio in una scena del film “The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese

Leonardo Di Caprio in una scena del film “The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese

(di Paolo Calcagno) Scorsese e Di Caprio, consapevolmente senza freni, hanno messo il loro immenso talento al servizio del racconto dell’eccesso senza qualità e senza fascino. Dura ben tre ore “The Wolf of Wall Street” (Il lupo di Wall Street), candidato a 5 Oscar: film, regia, attore protagonista (Leonardo Di Caprio), attore non protagonista (Jonah Hill), sceneggiatura non originale tratta dall’autobiografia di Jordan Belfort ad opera di Terence Winter (creatore di “The Sopranos” e “Boardwalk Empire”). E sono tutte dedicate alla descrizione dei baccanali moderni dell’alta finanza di New York negli anni ’80 e ’90, quando Wall Street aveva poche regole e l’improvvisato broker Jordan Belfort si guardava bene dall’osservarle, mosso da un’avidità ultracompulsa che era l’unica fonte d’ispirazione nella sua corrotta manipolazione della Borsa e nel criminale rastrellamento di milioni (di dollari) a palate, a spese dei suoi clienti cui rifilava titoli di nessun valore.
Mi chiamo Jordan Belfort. L’anno in cui ho compiuto 26 anni, ho guadagnato 49 milioni di dollari, cosa che mi ha fatto incazzare, perché ne mancavano solo tre e avrei ottenuto una media di un milione a settimana“, si presenta così il personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio nel “tasmania” cucito su misura e con al polso un Rolex “ordinario” da 12mila euro. Nel selvaggio West della finanza newyorchese Belfort fonda la società Stratton Oakmont, inventa il “pump and dump” (gonfia e sgonfia) con il suo squadrone di broker molto persuasivi, capaci di far salire le azioni a prezzi eccessivi e, subito dopo, farle crollare mandando in rovina gli investitori, si vanta dei bottini raccolti e s’impone all’attenzione dei media come un esempio di gangster moderno: la rivista Forbes lo definisce con evidente disprezzo “una sorta di Robin Hood che ruba ai ricchi per dare a se stesso”.
Ora, prima di finire scontatamente in carcere, lo scenario di truffe celebrate con festini quotidiani (anche, ma direi soprattutto, in ufficio) dove cocaina e crack vari venivano distribuiti a quintali e le orge animate da prostitute costosissime (naturalmente, scrupolosamente dichiarate in nota-spese) superavano ogni limite, non è che il nostro Jordan fosse un cow-boy romantico, a cavallo di torbide ambiguità per conquistare le “nuove frontiere” dell’esistenza. E per quanto Scorsese si sia sforzato di mostrare con riprese mirabolanti i sabba supercafonal di quel delinquente senza scrupoli e per quanto Di Caprio (presente in ogni sequenza del film) si arrampichi sugli specchi gigioneggiando a dismisura per donare il fascino della “simpatica canaglia” al personaggio, alla decima abbuffata orgiastica le battute divertenti della sceneggiatura di Winter (sono stati contati circa 600 “fuck”) non ci evitano l’assalto di una fastidiosa nausea e la triste perplessità di essere stati bidonati da un “lupo” che non morde, ricco di “peli” in barba ai risaputi “vizi”.
Attenzione, il nostro non è un giudizio di carattere moralistico nei confronti di un lestofante di piccolo cabotaggio esaltato come un “eroe” da commedia dark. Siamo ben consapevoli che i misfatti di Belfort si contano in un paio di centinaia di milioni di dollari: un’inezia se comparati alle rovine causate dalle grandi speculazioni dell’alta finanza, dai “junk bonds” alla “bolla” del Nasdaq della cosiddetta “new economy”, per non dimenticare il crollo miliardario dei “derivati” e dei mutui fino al terremoto della Banca Lehman, devastante per l’economia mondiale. Più che la difesa dei principi etici il rimprovero che indirizziamo a Scorsese e al suo alfiere Di Caprio è mosso dalla difesa del diritto a non essere annoiati e dalla sgradevole sorpresa di cogliere un grande regista chino a osservare compiaciuto, e certo anche divertito, dal buco della serratura il dramma dell’ascesa e della caduta dell’”edonismo reaganiano” e a raccontarcelo come se fosse “ubriaco” (e che Shakespeare ci perdoni).
“The Wolf of Wall Street”, regia di Martin Scorsese, con Leonardo Di Caprio, Jonah Hill, Matthew McConaughey. Stati Uniti, 2013.