(di Paolo Calcagno) Hanno 18 anni e attendono di sostenere gli esami di maturità, il sospirato diploma di addio alla scuola: sono belli, luminosi, allegri, giustamente tesi per questa cruciale congiuntura della loro esistenza, ma sono fiduciosi. Poi, arriva la domanda che mette a nudo i limiti della loro memoria, e non solo: “Chi era Enrico Berlinguer?”. “Un francese”, “Uno scrittore”, “Non lo so”, la camera filma, impietosa, e al montaggio vengono messe in fila le risposte che imbarazzano chi osserva. Non conoscere Enrico Berlinguer non vuol dire essere di destra, o di smemorata sinistra, o di giuliva acquiescenza apolitica: significa avere una relazione debole con il trascorso del nostro Paese, significa incapacità di comunicazione generazionale, significa ignorare il periodo più significativo (non per questo il migliore) delle trasformazioni sociali, culturali e politiche in Italia. E, giustamente, è a loro che Walter Veltroni ha voluto dedicare il suo film “Quando c’era Berlinguer”: “Ai diciottenni di oggi, alla loro difficoltà di legare i fili della memoria e alla loro energia e voglia di sognare e cambiare”.
Piazza San Giovanni, a Roma, è il punto di partenza e anche il finale del documentario di Veltroni, realizzato per Sky che lo manderà in onda, a giugno, su Sky Cinema HD e History Channel HD, dopo oltre due mesi di circolazione nelle sale. Fu, infatti, nella storica piazza romana che si tennero i funerali di Enrico Berlinguer, scomparso a causa di un ictus cerebrale, l’11 giugno 1984, all’età di 62 anni. Vibrante partecipazione emotiva, sventolii di bandiere rosse, oltre un milione di donne e uomini commossi fino alle lacrime, nutrita presenza di delegazioni straniere, applausi e cori, accompagnarono il passaggio del feretro del segretario del Partito comunista italiano, una scomparsa che lasciò il segno con la quale sono in molti a identificare la fine del Pci.
A trent’anni da quella scomparsa, Veltroni riannoda i fili della memoria per raccontarci la formazione e l’ascesa di Enrico Berlinguer, scandendo con i passaggi storici che li affiancarono i momenti cruciali del suo lavoro politico. Le immagini di repertorio e le testimonianze rievocano la nomina a segretario del Pci negli anni della “guerra fredda”, le tensioni con Mosca, il tracciato della “via italiana” al comunismo, distante e diversa da quella dei regimi totalitari, i successi elettorali che, alle “politiche” del ’76, culminarono con il più importante risultato mai ottenuto, il 34,4% (a soli 4,4 punti dalla Democrazia Cristiana), dal partito che era stato di Togliatti e che non aveva mai superato il 25%. Nel ’76, quindi, un italiano su tre votò Pci: “In quegli anni tutto sembrava possibile – commenta Veltroni -, vincere un referendum contro la Dc e la Chiesa, governare tante regioni e città, avvertire che tanti italiani non comunisti davano fiducia a quel partito per l’onestà e la competenza che Berlinguer comunicava”. I timori degli “alleati”, lo spettro di un bis italiano di quanto era avvenuto in Cile dopo il trionfo di Allende, le dichiarazioni favorevoli alla Nato, accompagnarono le decisioni di Berlinguer che consentirono al Paese di uscire da una pericolosa paralisi, evitando nuove elezioni e facendo largo a nuovi governi democristiani, non appoggiati, ma neanche osteggiati dal Pci.
In quel vuoto politico all’opposizione si infilò la vasta area sociale di contestazione attiva, nominalmente circoscritta con la definizione di “Movimento”. Un’area di giovani, donne, operai, “non garantiti”, che il documentario di Veltroni ignora riducendo soggetti ed eventi di contro-potere di quegli anni, al “tempo di sangue e di odio” del terrorismo “che culminò con rapimento di Aldo Moro”. Il 16 marzo 1978, a Roma, in via Fani, le Brigate Rosse rapirono il leader democristiano e uccisero cinque uomini della sua scorta, proprio il giorno in cui prendeva corpo il “compromesso storico” e si varava il primo governo che vedeva il Pci far parte della maggioranza. Il 9 maggio, Aldo Moro fu ucciso, dopo circa due mesi di messaggi, trattative (palesi e non), che videro Berlinguer schierato con “il partito della fermezza” per evitare la legittimazione politica delle Br, come conferma nel documentario la figlia Bianca Berlinguer. Un commosso Giorgio Napolitano, Monsignor Bettazzi, Pietro Ingrao, Eugenio Scalfari, Aldo Tortorella, Claudio Signorile, Arnaldo Forlani, Emanuele Macaluso, il caposcorta di Berlinguer Alberto Menichelli, il co-fondatore con Renato Curcio delle Br, Alberto Franceschini, e vari altri, rispondono alle domande di Veltroni, rievocano il tempo in cui Berlinguer fu protagonista, inviso sia agli americani, sia ai russi, mentre guidava il più grande Partito comunista d’Europa.
Il film di Veltroni ci mostra anche gli anni del ripiegamento politico del Pci, quelli della “questione morale” e della rivalità, spesso aspra, con Craxi. Il ricordo di Veltroni, certamente, efficace per la capacità informativa di rammendare gli strappi della memoria e, altrettanto certamente, utile a evidenziare la differenza enorme della buona grana della politica di trent’anni fa, se comparata alla cialtroneria e all’assenza di qualità che ci hanno afflitto negli ultimi vent’anni, tuttavia, non è un documento imparziale e vira, talvolta, fastidiosamente sull’enfasi della nostalgia. Oltre alle dimenticanze già citate, il documentario del fondatore del Pd ignora completamente il determinante contributo dei radicali (e il decisivo schieramento dei grandi organi d’informazione, a incominciare dal “Corriere della Sera”) nella vittoria del referendum sul divorzio e sposa senza fornire il briciolo di una prova la teoria del complotto anti-Pci.
Formalmente, ci sono apparse criticabili la scelta delle musiche (specialmente quelle, iper-enfatiche, che accompagnano i funerali del leader comunista), e l’indugio eccessivo sull’ultimo, sofferente, comizio di Berlinguer, a Padova, il 7 giugno, quando fu aggredito dall’ictus vigliacco che l’uccise. Alla vigilia delle “europee”, Enrico Berlinguer è sul palco e fatica terminare le frasi. Tatò, il suo segretario, lo strattona per indurlo a lasciar perdere, la gente lo applaude e grida “basta, basta” al suo caparbio tentativo di invitare la folla a esortare gli assenti al voto comunista, “casa per casa, famiglia per famiglia”.
Un regista esperto e di talento, come Lizzani, o Scola, o Pontecorvo, per citare alcuni cineasti che parteciparono alla veglia funebre, avrebbe saputo mostrare l’ “eroismo” di Berlinguer senza infierire su quelle penose immagini del dolore. E, onestamente, non ci sono piaciute nemmeno le immagini di un “tarantolato” Giorgio Gaber, scelte per il suo brano “Qualcuno era comunista”. Abbiamo avuto la fortuna di essere presenti a vari recital che comprendevano quel brano (spesso interpretato da Gaber nei “bis”), cantato e recitato quasi sempre con affettuosa malinconia.
Sebbene, anche lì non manchi un eccesso di concessione all’enfasi e alla retorica, tuttavia, per tante ragioni ci sentiamo di condividere la scelta delle parole conclusive dell’operaio Lorenzo Cherubini, a piazza San Giovanni, nel giugno del 1984: “Probabilmente, finisce quel Partito Comunista, finisce la parola “comunista”, perché la parola “comunista” è Berlinguer. È una parola che non mi ha mai fatto paura, la parola “comunista”, a me in Italia, perché la associo con quella correttezza, la associo con quella faccia, con quelle parole, con quella onestà. E, quindi, continua a essere nei miei ricordi una parola bella che muore con chi in qualche modo l’ha inventata”. In quei giorni, Lorenzo Cherubini aveva 18 anni.
“Quando c’era Berlinguer”, regia di Walter Veltroni. Italia, 2013
Berlinguer, l’artefice del comunismo da non dimenticare, e Veltroni tenta di riannodarne i fili
Il minimalismo “all’italiana” di una scombinata famiglia che si rincorre nel cuore di Roma
(di Paolo Calcagno) Lo sfaccendato, l’iperansiosa, la bohémien, il timido. Sono questi gli “antieroi” della piacevole commedia “Noi 4”, secondo film dopo il sorprendente “Scialla” del regista e sceneggiatore Francesco Bruni. Dopo la lunga sbornia per i festeggiamenti dei tanti trofei internazionali, culminati con il premio Oscar, di un film ampio e complesso quale “La Grande Bellezza” di Sorrentino, la stagione del Cinema italiano riavvolge il nastro ritornando a operine ben realizzate che non possono aspirare al mercato estero e che ci propongono in salsa di commedia il piccolo quotidiano della gente comune.
Anche in questo caso siamo a Roma, ben lontana dalla rappresentazione solenne e stordente dell’immensità della città eterna osservata da Jep Gambardella. Qui, ci viene mostrata la Roma afosa d’inizio estate, soffocata da un traffico caotico, percorso a ostacoli da oro olimpico per chi è costretto a spostarsi nelle vie del centro.
Il tempo del racconto è quello dell’intera giornata di un’ordinaria, quanto scombinata, famiglia che ha come traguardo gli esami orali di terza media del piccolo e timido Giacomo (interpretato con ammirevole efficacia dall’esordiente Francesco Bracci Testasecca, amico di famiglia del regista Bruni), a sua volta annichilito dall’impresa di utilizzare l’ultima occasione dell’anno per dichiarare il suo amore a una cinesina, sua compagna di scuola. Lara, la mamma russa che vive da anni in Italia ed è separata dal consorte, è un ingegnere, responsabile dei collegamenti stradali della capitale e, perciò, perennemente ostaggio dei ritrovamenti archeologici. Il personaggio, cui dà temperamento e ansie la bravissima Ksenia Rappoport (attrice cechoviana portata in Italia da Tornatore, quale straordinaria protagonista di “La Sconosciuta”), è quello di una donna molto protettiva verso i figli e profondamente responsabilizzata verso la sua professione, che si sdoppia con affanno nel suo duplice ruolo. Rughe e seni afflosciati segnalano la sua sfiorita femminilità contribuendo ad accrescere il suo quotidiano rammarico, già duramente afflitto dai contrasti con la figlia maggiore Emma (interpretata con personalità da Lucrezia Guidone, attrice di estrazione ronconiana), “tifosa” del padre. La ragazza sogna il palcoscenico, con i compagni di scena “occupa” il Teatro Valle e ha una relazione con un regista straniero che non corrisponde le sue ambizioni esclusive.
Infine, c’è Ettore, marito di Lara e papà di Emma e Giacomo, brillantemente rappresentato da Fabrizio Gifuni, interprete dai rigorosi percorsi teatrali e apprezzato recentemente anche sullo schermo in “Il Capitale Umano”, di Virzì. Disegnatore senza lavoro, squattrinato e superficiale, inseparabile dalla sua Honda 400 Four, Ettore è un simpatico fan-cazzista ultraquarantenne che esterna fedeltà ai suoi sogni d’artista ma che fatica a schiodarsi dal divano dell’amico del quale è permanentemente ospite. Inaffidabile agli occhi di Giacomo, Ettore conferma la sua indole distratta quando s’impegna a sostituire Lara per qualche ora e a seguire il figlio fino all’appuntamento degli esami, che è stato spostato a causa dell’assenza di un professore. Per quanto disordinato, però, l’uomo si fa accettare per la sua schiettezza e l’infinita buona fede. Non si spaccia per quello che non è, sdrammatizza alla sua maniera gli affanni della quotidianità e, in qualche modo, fra mille inutili capriole, riesce sempre, o quasi, ad esserci. Ed è proprio questo a renderlo prezioso nei sentimenti della figlia Emma e, in fondo, anche in quelli di Lara, sebbene la sanguigna russa non gli lesini quotidiani rimproveri.
I “4” si cercano e s’incrociano, a coppie sempre diverse, in vari punti del centro di Roma, alternando litigi a coccole. Miracolosamente accorrono, in un modo o nell’altro, riunendosi, all’esame di Giacomo che il ragazzo supererà senza problemi. Lara si lascia convincere e si unisce agli altri 3 in un’allegra gita al lago per un euforico bagno di festeggiamento. L’incandescente e tormentata giornata, complice l’occhiolino alla statuetta ritrovata di un Lare (per gli antichi romani, lo spirito protettore del focolare domestico), si conclude nel migliore dei modi per la famiglia dei nostri “antieroi” capitolini: ci scappa anche un bollente ritorno dei sensi tra Ettore e Lara.
“Noi 4” è un film tenero che ha il merito di bagnarsi nelle acque sicure della commedia senza incagliarsi nelle “secche” vischiose del doppio senso o delle volgarità a brutto muso, che caratterizzano varie produzioni di casa nostra, da Zalone in giù. Certo, il racconto di Bruni si limita a ciò che mostra, non offre seconde e terze letture, non svela aspetti soggiacenti di ciò che palesa la quotidianità, come accadeva un tempo a Woody Allen, a Eric Rohmer, o a Ettore Scola e Mario Monicelli, per restare dalle nostre parti. Manca l’approfondimento critico, tuttavia l’opera “seconda” di Bruni rimane una gradevole narrazione di minimalismo “all’italiana”.
“Noi 4”, regia di Francesco Bruni, con Ksenia Rappoport, Fabrizio Gifuni, Lucrezia Guidone, Francesco Bracci Testasecca. Italia, 2013
Si può essere sedotti da una voce artificiale? Sì, se dietro c’è un’ispirata Scarlett Johansson
(di Paolo Calcagno) Spike Jonze conferma con “Her” le sue qualità particolari di regista e di sceneggiatore dotato di straordinaria sensibilità e di non comune fantasia, già messe in mostra in film originali e piacevoli, quali “Essere John Malkovich” e “Il ladro di orchidee”. Jonze ama analizzare e rappresentare in immagini le personalità dei suoi personaggi mostrando le loro reazioni, come persone quasi sempre franate in crisi progressive, inghiottite dalle sabbie mobili del disagio, perse nel tunnel oscuro della depressione. Sono condizioni dell’ esistenza universali e, perciò, riconoscibili dal pubblico, anche se Jonze le esaspera con tocchi di magistrale originalità per sbalordirci con avvincenti e divertenti racconti cinematografici. Stavolta, Spike Jonze affronta il tema dell’illusione (con conseguente e puntuale delusione) amorosa, della ricerca dell’altro, in particolare del fascino dell’eterno feminino, dell’esaltazione che ci pervade nel successo di certe incontri, conquiste, relazioni, e dello smarrimento in cui anneghiamo quando siamo costretti a subire dolorose separazioni.
L’idea incredibile di Jonze è quella di far innamorare di un essere artificiale un giovane colto e sensibile di una futuribile e alienante Los Angeles. Il protagonista è Joaquin Phoenix, attore di origine latino-americana, superconcentrato nelle sue interpretazioni quanto permaloso e irritabile verso l’esterno che vorrebbe in permanente obbligo di devozione, se non di adorazione. Ciò fa di Phoenix un tipo non del tutto simpatico, al quale più che la mano si avrebbe la tentazione di stringere la gola, per quanto apprezzabile sia il suo talento, già messo in mostra agli inizi con il torbido ragazzino in “Da Morire”, proseguito con la rappresentazione splendida del grande Johnny Cash in “Walk the Line”, fino alla nomination all’Oscar con “The Master”.
In “Her” Phoenix è Theodore che si guadagna da vivere scrivendo per altri appassionate lettere sentimentali e che è irreparabilmente segnato dal divorzio dalla bella moglie. Le giornate di Theodore si colorano di buio e sono incorniciate in una solitudine pesta e dolente cui cerca invano di porre rimedio la sua migliore amica, la bravissima Amy Adams, attrice preferita di Jonze. L’incontro salvifico avviene in una delle visite da zombie di Theodore nel vuoto pneumatico dei centri commerciali. Il giovane senza troppa convinzione si consegna alle lusinghe pubblicitarie di un nuovo OS (sistema operativo) che promette facile e obbediente compagnia attraverso le “magie” di una voce artificiale interattiva di ultima generazione. La voce è quella di una seducente e spiritosa creatura invisibile che afferma di chiamarsi Samantha, animata da un’ispirata Scarlett Johansson (premiata alla Festa del Cinema di Roma per questa singolare performance), doppiata con efficacia nella versione italiana da Micaela Ramazzotti.
Jonze ha scelto di raccontare quello tra Theodore e la sua compagnia artificiale come un reale incontro tra due persone, dapprima impacciato da timidezze e incertezze, quindi reso più audace dagli impulsi della curiosità, poi stupito ed eccitato dalle scoperte stimolanti dell’altrui personalità, infine incantato dalle iniezioni di felicità di un inatteso, quanto mai troppo desiderato, “star bene”. Samantha si rivela ben altro che una servizievole compagnia sofisticatamente programmata: l’incontro con l’umano Theodore la contagia e la sprona verso la formazione di una personalità che la eleva ad “anima gemella” insostituibile e imprescindibile, in privato quanto in pubblico, per il fortunato “mortale” del film di Jonze.
Chi si azzardasse a ricordarci che non è questa la prima volta che un film narra l’amore tra una creatura umana e un replicante sarebbe da noi respinto a colpi di titoli e citazioni di pellicole “sci-fi”, e non, che vanno da “Alphaville”, di Godard, alla “Simone”, l’ologramma inventato da Al Pacino, passando per la replicante buona di “Blade Runner”, che aveva costretto Ridley Scott a un doppio finale, la mutante di “Les Immorteles”, che Enki Bilal aveva tratto da una graphic novel, il commovente personaggio digitale del film coreano ispirato all’androide di Philip K. Dick, fino al seducente clone di “The Island”, peraltro interpretato anch’esso da Scarlett Johansson. A differenza dei precedenti film, in “Her” la relazione tra il maschio con nervi e cuore e la femmina tutta pixel non è solo l’inciso o la conclusione di una “detective (o fantascientifica)-story, ma è “la storia”. Una “storia” che Jonze dedica alla sua impareggiabile maniera (non a caso, ha vinto l’Oscar per “la migliore sceneggiatura originale”) all’eterna ricerca dell’ideale condivisione sentimentale, la cui morale non può essere circoscritta riduttivamente da banali slogan, tipo “l’amore è solo una voce”.
“Her”, regia di Spike Jonze, con Joaquin Phoenix, Scarlett Johansson, Amy Adams. Stati Uniti 2013.
L’Oscar premia il vuoto a perdere di “La Grande Bellezza” d’un Sorrentino grottesco e spietato

Sabrina Ferilli e Toni Servillo in una scena del film “La Grande Bellezza”, di Paolo Sorrentino. Nell’altra foto, Toni Servillo: un’interpretazione semplicemente immensa
(di Paolo Calcagno) Da 25 anni, almeno, Cate Blanchett è la mia attrice preferita, l’unica per cui mi sia realmente emozionato, durante una sua apparizione verde-smeraldo al Napoli Film Festival. Eppure, per una serie di congiunture sfavorevoli non ho ancora visto la sua interpretazione (straordinaria, mi dicono) in “Blue Jasmine”, di Woody Allen. Pertanto, non avevo potuto prevederla trionfante agli Oscar e consideravo favorite Meryl Streep (“August Osage County”) e Judi Dench (“Philomena”) per il trofeo riservato alla “migliore attrice protagonista”. Naturalmente, sono più che lieto per la vittoria della bravissima attrice australiana (per me, insuperabile in “Elizabeth”) e felice di aver “bucato” il pronostico.
Per il resto, condivido pienamente tutte (o quasi) le scelte dell’”Academy” e, confesso, che tifavo per esse, a incominciare dall’Oscar per “il miglior film straniero”, vinto da quello straordinario apologo del declino e del disagio post-moderno che è “La Grande Bellezza”, di Paolo Sorrentino, vero maestro delle inquadrature e grande artista del racconto cinematografico.
Preciso subito che il precedente “quasi” riguarda la statuetta alla “migliore attrice non protagonista”, andata a Liopita Nyong’o, eccellentemente in parte in “12 Anni Schiavo”: tuttavia, la mia preferita era Julia Roberts, dolorosamente dura e ostile in “August Osage County”. Riassumendo brevemente, davo per scontata l’affermazione di “12 Anni Schiavo”, di Steve McQueen, nella categoria più importante, “miglior film”: un “filmone”, davvero, il cui alto valore è sottolineato dall’inedito obbligo di proiezione nelle scuole americane. Matthew McConaughey e Jared Leto, rispettivamente “miglior attore protagonista” e “non” in “Dallas Buyers Club”, di Jean-Marc Vallée, non avevano rivali, se qualità e impegno della recitazione sono ancora da considerare prevalenti su abilità e successo pre-costruito del personaggio. Infine, restando ai premi principali, mi fa particolarmente piacere per l’Oscar “alla miglior regia” conquistato (assieme ad altri 7, più tecnici) da “Gravity”, del messicano Alfonso Cuaròn, primo cineasta latino-americano premiato dall’ “Academy”. “Gravity”, ingiustamente sottovalutato fin dall’ultima Mostra di Venezia, è un vero dono che riempie e arricchisce il pubblico del grande schermo.
E veniamo all’Oscar, per noi, più atteso, che conclude il percorso di trofei tracciato con le conquiste del Golden Globe, European Film Award, Bafta britannico. 15 anni dopo “la Vita È Bella”, di Roberto Benigni, l’Oscar al “miglior film straniero” ritorna in Italia grazie a “la Grande Bellezza”, di Paolo Sorrentino, che continua a negare ogni riferimento con “La Dolce Vita”, di Federico Fellini. E, tuttavia, il grande regista riminese, Martin Scorsese, i Talking Heads” e Diego Armando Maradona sono stati citati quali “fonti di ispirazione” da Sorrentino, sul palco dei premiati, a Los Angeles: “Quattro campioni nella loro arte, che mi hanno molto insegnato, tutti, che cosa vuol dire fare un grande spettacolo, (cosa) che penso sia innanzitutto alla base dello spettacolo cinematografico”, ha dichiarato il regista napoletano. Sorrentino ha anche ricordato Napoli e Roma nelle sue citazioni e ringraziamenti: la città d’origine e quella in cui ha scelto di vivere, due capoluoghi di “La Grande Bellezza”, scandita nel tempo da monumenti, opere d’arte, tesori culturali, tradizioni popolari, immersi in incanti naturali senza uguali: una “Grande Bellezza” trascurata e tradita dallo svuotamento di valori e dal degrado culturale e sociale di chi la abita e di chi dovrebbe governarla e proteggerla.
Protagonista del film di Sorrentino è Jep Gambardella (cui dà rugosa malinconia un immenso Toni Servillo), giornalista dandy napoletano di 65 anni, autore di un solo romanzo scritto 40 anni prima, animatore e sovrano delle terrazze capitoline. Jep è un intellettuale pigro, un piacione compiaciuto, un fallito che si rifugia nel ruolo dello scettico-blu, brillante e detestabile fustigatore dei suoi compagni di cene e feste, modaioli vuoti e annoiati, desiderosi di apparire ad ogni costo, personaggi in fuga permanente dall’esigente autore della vita reale che si ubriacano del niente della dance-music, dei drink colorati, della cocaina che surroga le energie di cui non sono più capaci.
Sorrentino fa raccolta di incontri e ricordi e, raccontando in maniera grottesca e spietata i contrasti conosciuti (direttamente e non) di una Roma stordita e sonnambula, sviluppa la sua visione critica di certe categorie privilegiate della società del benessere, irrimediabilmente alle deriva verso le spiagge catramate dove l’esistenza si riduce a un miserabile vuoto a perdere.
“La Grande Bellezza”, regia di Paolo Sorrentino, con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli. Italia, 2013.