Venezia 80. “Povere creature!” conquista pubblico e critica, e vince il Leone d’Oro. Miglior regia, Garrone (“Io capitano”)

VENEZIA, sabato 9 settembre – Va a “Povere creature!” (“Poor Things”), del regista geco Yorgos Lanthimos, il Leone d’Oro come miglior film all’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia. La sua Bella, sorta di Frankenstein al femminile, giovane donna riportata in vita da uno scienziato e desiderosa di uguaglianza e di libertà, ha convinto tutti, pubblico e critica.
Leone d’Argento per la migliore regia a Matteo Garrone per “Io capitano”, storia di immigrati (v. foto), uno dei quali interpreti, Seydou Sarr, è stato anche insignito del Premio Mastroianni.
Coppa Volpi per il miglior attore a Peter Sarsgaard (“Memory”), e per la migliore attrice a Cailee Spaeny per “Priscilla”

ECCO TUTTI I VINCITORI

Leone d’oro per il miglior film. Povere creature! (Poor Things) di Yorgos Lanthimos.

Gran premio della giuria: Evil Does Not Exist di Ryūsuke Hamaguchi

Leone d’argento per la miglior regia: Matteo Garrone per “Io capitano”

Premio speciale della giuria: Green Border di Agnieszka Holland

Miglior sceneggiatura: Guillermo Calderón e Pablo Larraín per El Conde

Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile: Cailee Spaeny per Priscilla

Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile: Peter Sarsgaard per Memory di Michel Franco

Premio Marcello Mastroianni (attore emergente): Seydou Sarr per Io capitano

Miglior film della sezione Orizzonti: Explanation for Everything di Gábor Reisz

Miglior regia Orizzonti: Mika Gustafson per Paradiset brinner

Premio speciale della giuria Orizzonti: Una sterminata domenica di Alain Parroni

Miglior sceneggiatura della sezione Orizzonti: Enrico Maria Artale per El Paraiso

Miglior cortometraggio Orizzonti: A Short Trip di Erenik Beqiri

Premio Leone del futuro per la miglior opera prima Luigi De Laurentis: Love Is a Gun di Lee Hong-Chi

Miglior film Orizzonti Extra: Felicità di Micaela Ramazzotti

Concluso il Festival del cinema 76, tra defezioni e incursioni di attivisti contro il degrado ambientale. I Pardi e altri Premi

Maryna Vroda (Photo by Alessandro Levati/Getty Images)

Pardo d’oro al film iraniano “Mantagheye Bohrani” (Critical Zone)

Premio Speciale della Giuria al rumeno Radu Jude per “Non aspettarti troppo dalla fine del mondo”

Migliore regista l’ucraina Maryna Vroda con “Stepne”

LOCARNO (CH), sabato 12 agosto ► (di Marisa Marzelli) – Tra ospiti che non sono arrivati per via dello sciopero di sceneggiatori e attori in America (la defezione più significativa quella di Cate Blanckett in veste di produttore esecutivo del film di chiusura Shayda della regista iraniana Noora Niasari) e un’incursione sul palco della Piazza di due attivisti di ActNow per protestare contro il degrado dell’ambiente e il surriscaldamento, proprio mentre avveniva la premiazione, per il suo film Voyage au pôle Sud del biologo e documentarista francese Luc Jacquet, si è conclusa la 76. Edizione del Locarno Film Festival.
Il Palmarès, reso noto nel pomeriggio, ha assegnato all’unanimità il Pardo d’oro al film iraniano Mantagheye Bohrani (Critical Zone) del regista Ali Ahmadzadeh, un lavoro girato in clandestinità nelle strade di Teheran. L’autore era assente perché gli è stato vietato di lasciare il Paese. Le autorità sembra gli abbiano anche fatto pressione perché ritirasse l’opera dal Festival, sostenendo che ha girato senza i dovuti permessi. Il Pardo d’oro è stato ritirato dal produttore, il quale ringraziando ha sottolineato come il premio sia importante perché ispira e dà forza anche ad altri cineasti iraniani le cui voci sono state censurate. Il film, ha continuato il produttore, rappresenta anche la rabbia degli iraniani e “voi (sottinteso persone occidentali) siate arrabbiati perché l’Iran è ancora sotto questo regime”. Standing ovation dei presenti.
Anche gli altri principali premi del Concorso ufficiale sono stati assegnati dalla giuria (presieduta dall’attore francese Lambert Wilson) rispettando criteri, in una forma o nell’altra, politici. Il Premio Speciale della Giuria è andato al rumeno Radu Jude per Non aspettarti troppo dalla fine del mondo, un film con vari temi, compresa la gig economy. Invece come migliore regista è stata premiata l’ucraina Maryna Vroda con Stepne. La cineasta, ritirando il trofeo, ha voluto ricordare i molti suoi amici attualmente al fronte ed altri morti durante la guerra; ha pure lanciato un grido di soccorso chiedendo “aiutateci a non scomparire”.
Stando sulla carta al programma, tra i 17 titoli del Concorso ufficiale la giuria avrebbe potuto avere un occhio di riguardo per i tre registi in gara più famosi a livello internazionale (il filippino Lav Diaz, il rumeno Radu Jude, il francese Quentin Dupieux) oppure orientarsi verso cineasti più giovani o sperimentali, soprattutto in considerazione del fatto che Locarno è famosa per le nuove scoperte. La scelta è stata invece orientata verso le urgenze politiche che angustiano il mondo in questo momento. Comunque c’è stato molto margine per premiare anche nuove realtà, basti pensare che prima di assegnare i Pardi principali sono sfilati per 45 minuti sul palco i vincitori di riconoscimenti assegnati nelle numerose sezioni collaterali.
Un’edizione del Festival di Locarno, quella conclusasi il 12 agosto, nell’insieme apprezzata e caratterizzata dal ritorno consistente del pubblico, anche quello più giovane – si calcola almeno il 10% di spettatori in più –.
Apprezzati pure i film della sera in Piazza Grande, tutti di una qualità che va da ottima ad accettabile, compresa una vera scoperta. Si tratta del film serbo Guardiani della formula (che sarà mostrato nei prossimi giorni anche al Festival di Sarajevo) su un fatto storico avvenuto durante la Guerra Fredda e sconosciuto ai più: nella Jugoslavia di Tito un gruppo di scienziati impegnati in un esperimento nucleare (si cercava di mettere a punto una bomba atomica nazionale?) rimase contaminato e fu trasportato segretamente in un ospedale parigino dove un medico stava lavorando al primo trapianto di midollo. Si salvarono quasi tutti ma il lavoro dei servizi segreti fu tale che non se ne seppe niente.
Prossima edizione del Festival di Locarno dal 7 al 17 agosto 2024 ma senza il presidente Marco Solari, che dopo 23 anni lascia. Gli succederà la mecenate di fama internazionale Maja Hoffmann.

Alla prima di Locarno: forfait di Riz Ahmed. E non sarà l’unico, per solidarietà con lo sciopero degli attori americani

(di Marisa Marzelli) – Il 76° Festival di Locarno (2-12 agosto) non è ancora iniziato e già gli organizzatori sono alle prese con inedite difficoltà. Il continuato sciopero americano degli attori SAG-AFTRA ha colpito anche la manifestazione sulla sponda svizzera del Lago Maggiore. Infatti, l’attore inglese emergente e rapper Riz Ahmed, di origini pachistane, che già la sera inaugurale doveva ricevere l’Excellence Award, ha dato forfait in segno di solidarietà con gli scioperanti. E quindi non presenzierà alla prima mondiale sul grande schermo all’aperto di Piazza Grande del cortometraggio Dammi, in cui recita diretto dall’autore francese Yann Mounir Demange.
Lo sperimentale Dammi, che comunque sarà proiettato, è incentrato sui temi dell’emigrazione e dell’identità. Nel cast anche Isabelle Adjani, che sarà invece al Festival. E la defezione di Riz Ahmed (messosi in luce sia con film indipendenti che con produzioni ad alto budget con titoli quali The Road to Guantanamo di Winterbottom, Il fondamentalista riluttante di Mira Nair, Rogue One: A Star Wars Story, Venom e Lo sciacallo) non sarà l’unica: anche l’attore svedese Stellan Skarsgard, al quale il Festival ha tributato il Leopard Club Award, rinuncerà al premio in segno di solidarietà con lo sciopero, ma a Locarno sarà comunque presente in occasione della proiezione fuori concorso del suo nuovo film What Remains, senza però incontrare e dialogare con il pubblico.
Lo sciopero degli attori statunitensi riguarderà anche il film Theater Camp (Piazza Grande) di Nick Lieberman. Il regista ci sarà ma non la co-regista e attrice Molly Gordon ed altri interpreti.
Intanto il Festival fa sapere che sta lavorando per scongiurare l’assenza della diva Cate Blanchett invitata dell’ultima sera, in veste di produttrice esecutiva, per promuovere il titolo di chiusura Shayda, film d’esordio della regista iraniano-australiana Noora Niasari.
Per ora non sono annunciate altre defezioni, in ogni caso tutti i film in cartellone, con o senza i loro interpreti, verranno proiettati. In questo senso, il Festival è messo meglio della Mostra di Venezia, dove è stato necessario sostituire il titolo d’apertura Challengers di Luca Guadagnino perché, proprio a causa degli scioperi, la casa produttrice ha ritirato il film.
Mentre lo storico presidente Marco Solari, dopo oltre un ventennio, lascerà a fine Festival e verrà sostituito dalla mecenate Maja Hoffmann, fondatrice e presidente della Fondazione LUMA, uno dei maggiori progetti privati europei in ambito culturale (oltre che presidente dello Swiss Institute New York, della Fondation Vincent Van Gogh Arles e coinvolta in altri importanti progetti europei e statunitensi), il direttore artistico del Festival Giona Nazzaro, al terzo anno di mandato, ha confezionato un programma che in dieci giorni proporrà 214 film.
In Piazza Grande, capace di accogliere sino a 8.000 spettatori ogni sera, saranno proiettati 17 titoli, comprendenti da 9 prime mondiali a classici come il restaurato La Paloma di Daniel Schmid e La città delle donne di Fellini. Attesissimi in questa sezione due film provenienti dal Festival di Cannes: il vincitore della Palma d’oro Anatomie d’une chute e The Old Oak di Ken Loach, da anni beniamino del pubblico locarnese. Due i titoli italiani in programma: La bella estate di Laura Luchetti con Deva Cassel (figlia di Monica Bellucci e Vincent Cassel) e Non sono quello che sono – The Tragedy of Othello di W. Shakespeare, di e con Edoardo Leo.
Nei 17 titoli del Concorso internazionale spiccano dal surrealismo del filippino Lav Diaz con Verità essenziali del lago all’umorismo sarcastico del rumeno Radu Jude con Non aspettarti troppo dalla fine del mondo; dalla Teheran minacciosa della Zona critica di Ali Ahmadzadeh (secondo la stampa specializzata USA ci sarebbero state pressioni delle autorità iraniane per ritirare il film dal Festival) a Yannick del prolifico regista francese Quentin Dupieux.
Sono 8 su 15 le registe donne della sezione Cineasti del Presente, sezione riservata ad opere prime e seconde, mentre i Pardi di domani presentano cortometraggi internazionali, svizzeri e il Concorso Corti d’autore, per un totale di 40 opere. Fuori concorso, accanto all’ultimo film di Paul Vecchiali, le opere più recenti di Barbet Schroeder, Leonardo Di Costanzo e altri. Focus della Retrospettiva sul cinema messicano tra gli anni ’40 e ’60. A fare da corollario, altre sezioni, convegni, tavole rotonde.
Tra gli ospiti del Festival, l’attore francese Lambert Wilson è il presidente della giuria del Concorso internazionale; il regista statunitense Harmony Korine riceverà il Pardo d’onore e il regista Tsai Ming-liang il Lifetime Achievement. Premi anche al montatore italiano Pietro Scalia, al regista Luc Jacquet, alla produttrice Marianne Slot e a Renzo Rossellini.

Per tutte le informazioni:
www.locarnofestival.ch

“Emily”. Vita e passioni di una donna “strana”. Vittoriana e moderna insieme. Che scriverà “Cime tempestose”

(di Patrizia Pedrazzini) “Emily”, primo film della regista anglo-australiana Frances O’Connor, è il racconto della breve vita della scrittrice vittoriana Emily Brontë, morta di tubercolosi a trent’anni poco dopo aver dato alle stampe, nel 1847, un solo romanzo: “Cime tempestose” (che l’invidiosetta sorella Charlotte, destinata a firmare in seguito “Jane Eyre”, definisce “un libro pieno di gente egoista che pensa soltanto a se stessa”).
E diciamo subito che si tratta, pur con qualche limite, di un buon film. Magari lungo un quarto d’ora di troppo (dura due ore e dieci minuti), magari storicamente non sempre ineccepibile, romanzato com’è qua e là. Tuttavia delicato e forte quanto basta (e ci si aspetta), ottocentesco e “moderno” quanto serve per uscire dalla gabbia del mero esercizio stilistico e letterario.
D’altra parte la giovane Emily, figlia di un reverendo protestante severo e autoritario, segnata dalla morte prematura della madre, non è proprio il prototipo femminile dell’età vittoriana. Agli occhi dei suoi, è “strana”, ovvero ribelle, introversa, poco incline all’obbedienza, per niente interessata a un futuro da insegnante, uno dei pochi mestieri consentiti alle donne del tempo. Legatissima al fratello Branwell, pittore senza speranze, dedito all’alcol e all’oppio, si innamora del nuovo curato del paese, Weightman, lasciandosi andare a una relazione appassionata e segreta che sarà l’uomo stesso, improvvisamente, a interrompere.
Quello che ne consegue, sullo schermo, è il ritratto intimo, appassionato e sensuale, prima ancora che letterario, di una donna “diversa”, cui Emma MacKey (“Sex Education”) conferisce un carattere e, persino nei lineamenti, una modernità che estrapolano il film dal suo contesto vittoriano, facendone la storia, quasi senza tempo, di una figura femminile destinata a tutto tranne che all’oblio.
Anche a scapito, ed è qui il limite del film, di “Cime tempestose”. Accennato quasi frettolosamente alla fine, messo come da parte, non “spiegato” come ci si aspetterebbe e forse come dovrebbe. Certo, non mancano, nella storia, le atmosfere dell’Inghilterra di inizio Ottocento, l’isolamento rurale, le brughiere selvagge dello Yorkshire che faranno da sfondo all’infelice amore di Cathy e Heathcliff. Solo che ci si aspetta, per tutta la durata della pellicola, di riconoscere, nella vicenda privata di Emily, qualcosa che rimandi a quello che sarà il suo capolavoro. Qualcosa, per dirla meglio, di autobiografico. Magari nel carattere “folle” e anticonformista di Branwell, o nei comportamenti contraddittori di Weightman. Fatica inutile.
Forse una scelta. Forse mancanza di tempo e di spazio. Forse, semplicemente, saranno un amore travolgente e impossibile, una società chiusa e una famiglia che la vuole diversa da quella che è a liberare le capacità artistiche e creative di Emily. Che infatti scriverà “Cime tempestose” dopo la fine della storia con Weightman.
Ed è un peccato. Perché così “Emily” si riduce a una, seppur non trascurabile, storia di talento e sensibilità femminili costretti nei confini di una società perbenista e patriarcale. Il che non è poco. Ma non basta.