Babbo Natale “alla romana”. L’ultimo ruolo di Gigi Proietti in una favola garbata e triste. In coppia con Marco Giallini

(di Patrizia Pedrazzini) L’ultimo film di Gigi Proietti è una favola di Natale. Una favola buona, garbata e per cuori semplici, come si addice all’occasione. Ma anche una favola triste, velata di malinconia e di un pizzico di disincanto. E, perché no, pure un po’ ruffiana. Una favola “romana”.
Figlio di due sbandati, Ettore è un bambino solo, che ce l’ha a morte con Babbo Natale perché non gli porta mai regali (in realtà glieli porta, solo che i genitori glieli sottraggono prima dell’alba per andarli a vendere). Così, stufo, una volta promette a se stesso che, da grande, ci penserà lui a far sì che nessun bambino viva la sua stessa esperienza.
Un paio di decenni dopo lo ritroviamo all’uscita dal carcere: ha la faccia di Marco Giallini, e si è appena fatto sei anni per rapina. Senza un soldo, e affamato, va a batter cassa dai vecchi complici (che non ha mai denunciato), i quali per tutta risposta lo riempiono di botte. Ci prova allora con l’ex moglie (che nel frattempo si è messa con un altro), dalla quale ha avuto una bambina che a malapena ricorda: niente da fare, nemmeno la donna ne vuole sapere. Affranto, e sempre più affamato, si siede a terra, fra le mezze luci di una Roma che si avvia, un po’ mestamente, a festeggiare il Natale. Non sta chiedendo l’elemosina, tuttavia un anziano e distinto signore, passando, gli allunga un biglietto da cinquanta euro. Ettore si ripiglia all’istante: il vecchio deve essere ricco, perché non seguirlo a casa? Peccato che il vecchio non sia ricco, ma solo buono e generoso. Si chiama Nicola, ha 124 anni, la faccia di Gigi Proietti, ed è…
Con “Io sono Babbo Natale” il regista romano Edoardo Falcone firma una commedia leggera e amabile, la classica storia inverosimile a metà fra realtà e fantasia che tante pellicole ha regalato al cinema. Ma anche, tuttavia, una commedia priva di magia, di quel senso del miracolo fondamentale per alzare gli occhi verso il cielo ed entrare nel sogno. Che c’è di strano, allora, se Babbo Natale, indossato il costume bianco e rosso d’ordinanza e allacciato il cinturone, sfreccia sul Cupolone e intorno alla Tour Eiffel a bordo di una specie di macchina (rossa) a metà fra una di slitta a reazione (le renne fanno parte del passato…) e una bat-mobile, per distribuire regali a tutti? E che dire del desiderio, sempre di Babbo Natale, di andare in pensione, magari in Portogallo, dove “si pagano poche tasse”?Siparietti di varia romanità, battute trasteverine che strappano sorrisi (sempre un po’ amari), ma, alla fine, il film si regge solo ed esclusivamente sui due protagonisti. Misurato e dal passo lento, Proietti regala classe come il suo personaggio i doni di Natale. Il suo è un Babbo Natale anziano e stanco, che ne ha viste tante e che custodisce, dentro, il desiderio e insieme il dispiacere di doversene, magari presto, andare. Ma se il viso porta i segni della vecchiaia, gli occhi lanciano lampi di vita, e sarà anche buono, tollerante e comprensivo, ma le ingiustizie e la cattiveria no, quelle non le accetta e non è disposto a perdonarle.
Ovvio che il mattatore sia lui, tuttavia Giallini non gli è da meno: contenuto, credibile, con la battuta romanesca sempre in tasca ma mai sopra le righe, dà vita a un malavitoso tanto sgangherato quanto dal cuore buono (in fondo anche lui è stato un bambino, no?), sorta di moderno Pinocchio destinato a capire che solo regalando generosità e bontà disinteressate, senza aspettarsi o volere niente in cambio, si diventa uomini. O forse qualcosa di più.
Buoni sentimenti. E buoni propositi. Per un Babbo Natale da Avengers, capace di diventare superveloce e invisibile. Ma attenzione: “I superpoteri non bastano. Quello che conta è trasformarsi”.
E alla fine, come recitano i titoli di coda: “a Gigi”.

“Beast”. C’è un maniaco, sull’isola, che uccide le ragazze. E c’è Moll, che forse ama proprio lui. Ma chi è il Lupo Cattivo?

(di Patrizia Pedrazzini) – A una ventina di chilometri al largo delle coste francesi, nella Manica, c’è l’isola di Jersey, la più grande delle Isole cosiddette Anglo-Normanne. Atmosfere nordiche, maree, baie sabbiose e aspre scogliere, venti freddi e silenzio. Qui, tra il 1960 e il ’71, seminò il terrore Edward Paisnel, la “Bestia di Jersey”, stupratore seriale uso a entrare nelle case di notte dove, con una maschera di lattice sul volto e bracciali chiodati ai polsi, aggrediva donne e bambini.
Una brutta storia, dalla quale ha tratto molto liberamente spunto, per il proprio esordio sul grande schermo, il quarantenne regista britannico Michael Pearce. Che però, con “Beast” (“Bestia”, appunto), dà corpo – messi da parte fin da subito i fatti di cronaca – a un ben riuscito, e ricercato, mix di thriller, storia d’amore, horror psicologico e melodramma familiare. Nel quale l’eterno conflitto fra il Bene e il Male, il senso di colpa e la paura, i tormenti dell’anima e la voglia di vita, e di libertà, si mescolano in un mistero tanto fitto quanto, apparentemente, insolubile. Chi è veramente il Lupo Cattivo?
La storia è quella di Moll, giovane donna dai capelli rossi, cupa, caparbia e selvaggia come l’isola nella quale vive, vessata (ma se ne scoprirà il motivo) da una madre algida, austera e tirannica e costretta a sottostare alle rigide regole di un piccolo mondo conservatore e bigotto. Spirito libero e ribelle, la ragazza incontra una sera Pascal, ombroso e solitario, affascinante, tormentato e misterioso come lei. E il mondo le si apre improvvisamente davanti: finalmente si sente capita e accettata, e finalmente riesce a liberarsi dalle catene che la legano alla famiglia. Il passo verso l’amore è brevissimo. Solo che quella stessa notte una ragazza, la quarta in poco tempo, viene uccisa da un ignoto maniaco. Solo che i sospetti dell’intera comunità si concentrano sul giovane. Solo che lei lo difende, al punto di testimoniare il falso. Solo che anche Moll ha qualche scheletro nell’armadio…
Suggestioni, tensione, misteri e segreti si alternano a momenti di serenità e di speranza, quasi sprazzi di luce, ma sempre in perfetto equilibrio fra loro, e soprattutto senza mai eccedere in un senso o nell’altro. La stessa isola di Jersey, che potrebbe qui facilmente essere rappresentata come un luogo tetro e opprimente, è invece fotografata in tutta la sua limpida bellezza, in contrasto con il “buio” della storia dolorosa che accoglie.
Nei panni di Moll, la rossa irlandese Jessie Buckley è bravissima, perfetta fino a produrre una sorta di tutt’uno fra il proprio aspetto fisico e quello della natura che le sta attorno. Ma nemmeno il sudafricano, attore e cantante, Johnnie Flynn, scherza. Azzeccatissimo nel ruolo dell’impenetrabile e potenzialmente pericoloso Pascal, il viso scarno, i capelli biondi spettinati, l’aria trasandata e sporca, eppure attraente e sempre, fino alla fine, incarnazione del dubbio: è lui il maniaco, o non c’entra davvero niente?
Per chi ama le atmosfere inquiete e i grovigli interiori. E detesta le certezze.

L’angoscia disperata di una tragedia che si ripete. Il loop temporale del coreano “A Day”. Colpa, vendetta e perdono

(di Patrizia Pedrazzini) Il loop temporale, altrimenti detto anello temporale, è un espediente narrativo nel quale il protagonista (o i protagonisti) di una vicenda si ritrova suo malgrado a ripetere, e a rivivere, una particolare esperienza, in una sorta di ciclo continuo che può andare avanti anche all’infinito. Nel cinema, viene utilizzato molto nei film di fantascienza, ma non solo. A titolo di esempio, uno per tutti rimane la commedia sentimentale “Ricomincio di capo”, del 1993, con Bill Murray, ma va benissimo anche “Palm Springs – Vivi come se non ci fosse un domani”, del 2020. Passando magari per “Edge of Tomorrow – Senza domani” del 2014, con Tom Cruise. E comunque l’elenco sarebbe cospicuo.
Ora, di questo tema che evidentemente fatica a passare di moda deve essersi recentemente innamorato anche il regista sudcoreano Cho-Sun-ho, che ne ha fatto il perno del proprio esordio cinematografico, “A Day”, realizzato peraltro nel 2017. Solo che lo ha fatto, un po’ per scelta un po’ perché la Corea non è Hollywood, “alla coreana”. Confezionando novanta minuti di angoscia disperata nei quali la medesima scena viene riproposta allo spettatore decine di volte, all’apparentemente vana ricerca di qualcosa, o di qualcuno, che riesca a modificare, anticipandolo, il corso del destino.
La storia. Kim è un cardiochirurgo di fama, dedito anima e corpo al proprio lavoro, disponibile, umano e generoso. Il che lo porta tuttavia, inevitabilmente, a trascurare la giovane figlia Eun-Jung, che infatti non perde occasione per rimproverarglielo. Di ritorno a Seul da un viaggio di lavoro, le promette di raggiungerla dopo la scuola per festeggiare insieme il compleanno di lei. Ma fa solo in tempo a incrociare, in macchina, il luogo di un incidente nel quale proprio la figlia, che stava attraversando la strada per andare all’appuntamento col padre, è stata investita, e uccisa, da un taxi. Kim riesce appena a realizzare quanto accaduto che immediatamente si risveglia, come da un incubo, di nuovo sull’aereo. E qui comincia l’incubo vero.
Come impedire la morte della bambina? L’uomo le prova tutte: correre più veloce in auto, telefonare alla figlia, bloccare il tassista, spostare il luogo dell’appuntamento, ma ogni volta la medesima scena si ripete, con il suo carico di dolore e di senso di impotenza. Niente da fare. Ma forse non è una questione di tempi, e nemmeno di luoghi. Forse c’entra il perché della tragedia. Già, perché proprio quel tassista, a quell’ora, a quell’incrocio? E, soprattutto, perché proprio Eun-Jung?
Tanta suspence e tensione drammatica abbastanza alle stelle, per il breve racconto di una giornata terribile che tuttavia, nella seconda parte del film, rischia, per il ritmo frenetico con il quale viene continuamente riproposta, di apparire confusa e disordinata, oltre che insopportabile. Ci penseranno i temi e le riflessioni etiche di sempre – la vita e la morte, il bene e il male, il peccato e l’espiazione, la colpa, la vendetta e il perdono – a rimettere in ordine tutto. E a dare un senso a un film che, come nella migliore tradizione coreana, utilizza un pretesto per condurre lo spettatore verso lidi, e anfratti dell’anima, lontani e spesso oscuri.

“Seperti” (Indonesia), Pardo d’oro, conclude il Locarno Film Festival. Migliore regia: “Zeros and Ones” di Abel Ferrara

LOCARNO (CH), sabato 14 agosto ► (di Marisa Marzelli) Il 74.mo Locarno Film Festival, il primo sotto la direzione artistica di Giona Nazzaro, si è concluso con il Pardo d’oro assegnato al film indonesiano Seperti Dendam, Rindu Harus (La vendetta è mia, tutti gli altri pagano in contanti) su un combattente eccezionale ma impotente. Il regista Edwin si chiede: “Perché sprechiamo il tempo ossessionati dall’impotenza mentre attorno a noi dilaga la violenza? Occorre mettere un freno alla cultura machista”.
Premio speciale della giuria all’opera prima cinese Jiao ma tang hui, che rievoca 50 anni di arte, lotte e amori sullo sfondo della storia cinese nel XX secolo.
Pardo per la migliore regia ad Abel Ferrara per Zeros and Ones, con Ethan Hawke e Valero Mastandrea (coproduzione tra Germania, Regno unito e USA). Un soldato americano s’inoltra in un torbido mondo confinato all’ombra del Vaticano. Quasi inevitabile un riconoscimento al celebre regista americano, che ha accettato di presentare il suo film in concorso.
Migliori interpreti maschili Mohamed Mellari e Valero Escolar nel film spagnolo Sis dies corrents; migliore interprete femminile Anastasyia Krasovskaya per il film russo Gerda. Menzioni speciali a Soul of a Beast (Svizzera) e Espiritu Sagrado (Spagna, Francia, Turchia). Forse un Palmarès un po’ troppo parcellizzato per un concorso ufficiale comprendente in tutto 17 titoli. AI quale vanno aggiunti i riconoscimenti assegnati dalle giurie collaterali a opere presentate in altre sezioni. Anche per snellire la cerimonia dei premi, durante la serata finale in Piazza, si è deciso quest’anno di assegnare tutti i riconoscimenti nel pomeriggio, in una sala aperta al pubblico presente, in streaming e sul secondo canale televisivo RSI. Tutti i premi su:

www.locarnofestival.ch

Questa sera in Piazza Grande verrà invece proiettato il film di chiusura Respect, una biografia musicale sugli anni dell’ascesa della cantante Aretha Franklin.

Prossima edizione del Locarno Film Festival, quella del 75.mo, dal 3 al 13 agosto (virus permettendo).
Si può già considerare un buon risultato il fatto che tutto si è svolto in presenza, regolarmente, rispettando le misure di sicurezza.
Dopo l’edizione quasi completamente online del 2020, un rilancio in presenza era necessario, e così è stato. Certo, nell’insieme ne ha risentito la presenza dei festivalieri (più o meno dimezzate le entrate serali in Piazza Grande) e degli ospiti internazionali, ma il bilancio degli organizzatori è nell’insieme positivo. Destava qualche apprensione la scelta di passare alla digitalizzazione degli accrediti e alla prenotazione obbligatoria dei biglietti numerati per ogni proiezione, ma alla fine si sono trovati accettabili compromessi. Addirittura, le conferenze stampa si sono svolte in uno spazio inconsueto, i locali di una pinacoteca, dove mentre si attendeva l’arrivo della delegazione del film di turno si poteva approfittarne per ammirare una tela di Basqiat o di Roy Lichtenstein in mostra.
I film della sera in Piazza Grande hanno presentato un ampio ventaglio di temi, stili e generi, alcuni più che dignitosi, altri decisamente notevoli. Sebbene mancasse (fortunatamente) l’ossessione di mostrare solo i classici “film da festival”, spesso noiosi.
La difficoltà di spostamenti, soprattutto da altri continenti, ha un po’ ridotto le presenze di grandi ospiti internazionali. Ma non sono mancati grandi nomi: il regista John Landis, il quale ha ricevuto il Pardo d’onore 2021, con la moglie (famosa costumista, che ha tra l’altro inventato l’iconico vestiario di Indiana Jones: cappellaccio, giacca di pelle e frusta); le attrici Laetitia Casta e Kasia Smutniak; il maestro degli effetti visivi Phil Tippett, il famoso direttore della fotografia Dante Spinotti; la scenografa italo-svizzera Sonia Peng (già moglie di Rocco Papaleo), oltre ai registi di alcuni film presentati, tra gli altri il già citato Abel Ferrara e Gaspar Noé, che ha accompagnato il suo film molto apprezzato Vortex, con un inedito Dario Argento in veste d’attore, nel ruolo di un anziano critico cinematografico. Proprio al maestro italiano dell’horror è stato assegnato nella serata finale il premio alla carriera.