Svolta thriller, ma niente effetti di vernice rossa. Soltanto una grande tristezza. Nell’indifferenza tra giusto e ingiusto

(di Marisa Marzelli) Debutto registico fortunato quello della inglese Emerald Fennell. Presentato l’anno scorso al Sundance Festival, Una donna promettente ha ricevuto già molti premi e cinque candidature all’Oscar, di cui una vinta (per la migliore sceneggiatura originale, della stessa regista). L’argomento è di quelli che vanno oggi per la maggiore, il #MeToo; ma affrontato in modo nuovo, anche irriverente e di grande impatto. In un coloratissimo stile pop, tra complessità e un’imprevista svolta thriller.
Il sottogenere “rape and revenge” (stupro e vendetta) non è certo nuovo – pensiamo solo al Kill Bill: Volume 2 di Tarantino, con una scatenata Uma Thurman – ma in questo caso la drammaticità si alterna a tratti alla leggerezza beffarda di una critica sociale graffiante che non fa sconti ai benpensanti statunitensi. Forse perché gli sguardi delle principali artefici del film: la regista e l’attrice principale (la bravissima Carey Mulligan) sono britanniche, mentre produce la LuckyChap Entertainment dell’attrice australiana Margot Robbie (candidata all’ Oscar per l’interpretazione di Tonya e famosa, tra l’altro, come la sciroccata Harley Quinn del cinefumetto della DC Comics Suicide Squad).
La donna promettente del titolo è Carey Mulligan (il nome del personaggio è Cassie, “Cassandra”), che sembrava avviata ad una brillante carriera di medico ma ha abbandonato l’università in seguito ad un evento traumatico: la sua migliore amica è stata violentata da un gruppo di studenti ed in seguito è morta. Cassie non si è ripresa da quell’episodio, fa la barista, vive ancora con i genitori, non ha una vita sentimentale e porta avanti una sua personale idea di vendetta. Una volta alla settimana va in un locale, si finge ubriaca e si lascia rimorchiare. Ma quando il malintenzionato di turno cerca di approfittarne, lei si rivela del tutto sobria e lo minaccia per dargli una lezione, pur senza ricorrere alla violenza. Finché ritrova un vecchio compagno di università, diventato un brillante pediatra. Forse tra i due potrebbe nascere un legame, ma Cassie scopre che anche il medico era nel gruppo che aveva assistito alla violenza dell’amica, senza intervenire. Per di più, l’autore materiale dello stupro sta per sposarsi.
Sino a questo punto il film ha preferito scegliere un andamento tutto sommato soft, da commedia, con colori pastellati, ambienti familiari idilliaci e una critica feroce, sebbene educata, dello stile di vita della buona borghesia americana; dove i bravi ragazzi possono anche non esserlo, l’ipocrisia e il guardare da un’altra parte imperversano e se a trent’anni una bella ragazza vive ancora con i genitori, qualche problema mentale forse ce l’ha. Se finora l’incubo, la rabbia, il desiderio di vendetta erano rimasti un po’ celati dall’aspetto zuccheroso e grottesco, adesso il gioco si fa duro e la svolta thriller è molto dark. Ma niente violenza esplicita, niente splatter con secchi di vernice rossa. Solo una grande tristezza, dolore e l’impressione che l’insieme della società, senza distinzione tra donne o uomini, giovani o più maturi, viva nell’indifferenza di ciò che sia giusto o ingiusto; basta che non si venga a sapere. Niente lieto fine, salvo la pur sempre rassicurante morale della favola (forse il film, osando di più, avrebbe anche potuto rivelarsi amarissimo) che alla fine la giustizia fa il suo corso.
Equilibrato, ricco di dettagli che alla fine s’incastrano bene anche dal profilo narrativo, Una donna promettente tocca il nervo più che mai scoperto di un maschilismo profondamente radicato nella società opulenta, dove non si mette in discussione che il mostro della porta accanto sia comunque rispettabile, in totale omertà. Forse, se c’è da trovare un difetto, il punto di vista del film viene esposto in modo un po’ troppo sottolineato e didattico.
Una donna promettente, vittima della lunga chiusura delle sale, doveva arrivare anche sugli schermi italiani già in maggio, ma ha avuto una battuta d’arresto. La ragione è che un personaggio secondario del film (transgender) era stato doppiato con voce maschile e non femminile. Si è quindi deciso di ridoppiarlo.

Una madre, una figlia, un segreto. E un amore malato. Così il più viscerale dei legami finisce (ancora una volta) in thriller

(di Patrizia Pedrazzini) – “Run”, del trentenne regista statunitense di origini indiane Aneesh Chaganty (“Searching”), è la storia di un rapporto malato. Viscerale, contorto e malato. Quindi che non può funzionare. Anche se, a ben guardare, non è detto.
Diane vive in una bella e accogliente, ancorché isolata, casa con la figlia adolescente Chloe. La ragazza, nata prematura e con un sacco di problemi (è asmatica, diabetica, sofferente di cuore, e in più non può camminare), trascorre le giornate su una sedia a rotelle. Accudita in tutto e per tutto – medicine, alimentazione, studi – dall’amorevole madre, che le ha letteralmente dedicato l’esistenza. Peccato che non frequenti coetanei, non abbia amiche, né contatti col mondo esterno. Nonostante questo, è sveglia, intuitiva, intelligente, e con una gran voglia di andare al college. Anche se non si capisce come mai le sue ripetute richieste di iscrizione non ottengano risposta. Il rapporto fra le due, comunque, funziona: la madre pensa a tutto, la figlia obbedisce ed è grata.
Finché un giorno, casualmente, Chloe si accorge di una strana pastiglia verde fra i medicinali che Diane, rigorosamente su ricetta medica, le compra. E si insospettisce.
Che il rapporto psicologico fra un genitore, una madre soprattutto, e un figlio, o una figlia, possa sfociare nel morboso e trasformarsi in un incubo, è cosa nota, e trasferita a più riprese sul grande schermo. Ne sapeva qualcosa Hitchcock, anche se né il grande regista inglese, né tanto meno il suo “Psycho”, sono in questa sede minimamente scomodabili.
Di fatto, “Run” è un horror-thriller (più thriller che horror) che evoca sì pellicole del calibro di “Misery non deve morire”, del 1990, o, prima ancora, dell’impagabile “Che fine ha fatto Baby Jane?” (1962), ma senza le finezze psicologiche e la sottile morbosità che intessevano e sostenevano le trame di questi film.
Per cui qui, alla fine, tutto si riduce a una buona dose di incalzante tensione (neanche tanta, in verità), qualche forzatura (la fuga sul tetto), e un ritmo che accelera sì i tempi e non annoia lo spettatore, ma che poco o niente concede all’approfondimento caratteriale e al vissuto delle due protagoniste.
Che sono, nei panni di Diane, l’attuale regina dell’horror contemporaneo Sarah Paulson (“American Horror Story”, “Ratched”), lineamenti, sguardo ed espressione ideali per trasmettere al meglio quanto di neanche tanto sottilmente possa celarsi in una femminilità psicopatica; in quelli di Chloe, la ventitreenne esordiente Kiera Allen, che non solo vive paralizzata su una sedia a rotelle anche nella vita reale, ma che, nel film, riesce benissimo a non farsi schiacciare dal talento della Paulson.
Inquietudini, segreti, case che si trasformano in prigioni. Se solo si provasse anche un po’ di paura…

Un omaggio a Nanni Moretti apre il 18 giugno “Bagnacavallo al cinema”. In rassegna 80 proiezioni fino al 18 settembre

BAGNACAVALLO, martedì 8 giugno (di Andrea Bisicchia) Organizzata dal Circolo FuoriQuadro, fortemente voluta dal Sindaco e dall’Assessore che, per l’occasione, hanno rinnovato, con 300 poltrone da designer, lo spazio seicentesco del Parco delle Cappuccine, ha inizio il 12 giugno, per protrarsi fino al 5 settembre, la Rassegna cinematografica. Si apre con un omaggio a Nanni Moretti, di cui sarà riproposto “Caro diario” (1993), in versione restaurata dalla Cineteca di Bologna, mentre il regista presenterà il suo ultimo film, “Tre piani”, al Festival di Cannes, dove, 20 anni fa, aveva vinto la Palma con “La stanza del figlio”.
Così, mentre le Arene estive si stanno organizzando per presentare i loro programmi, mentre arrivano lamenti da parte degli esercenti che dicono di avere perso più del settanta per cento degli affari, Gianni Gozzoli e Ivan Baiardi non nascondono un certo ottimismo perché, col ritorno degli sponsor, completamente assenti nella scorsa stagione, e con l’utilizzo dei ristori, appena arrivati, hanno deciso di dividere la programmazione in due parti: la prima dal 12 giugno al 19 luglio, con 32 titoli; la seconda, dal 20 luglio al 5 settembre, verrà programmata con le varie novità provenienti dai Festival internazionali.
Tra i film più noti, sono da ricordare:
“Rifkin’s Festival” di Woody Allen, che racconta la crisi di una coppia durante il festival di San Sebastian, “Lei mi parla ancora” di Pupi Avati, la storia di Nino, aspirante romanziere che racconta, dopo la morte della moglie, la sua storia, “The Father. Nulla è come prima” di Florian Zeller, che vede una figlia ansiosa recarsi dal padre con sintomi di Alzheimer, “Mank” di David Fincher, che ha per oggetto la Hollywood degli anni Trenta, “Corpus Christi” di Jan Komasa, protagonista un giovane che avrebbe voluto diventare prete, ma la sua fedina penale glielo impedisce, “Due“ di Filippo Meneghetti, storia di due donne mature che si amano da decenni, solo che un evento improvviso le mette alla prova, “La vita che verrà” di Phyllida Lloyd, con protagonista una donna che fugge, con i suoi figli, dal marito violento, “Il cattivo poeta” di Gianluca Jodice, su Gabiele D’ Annunzio, spiato da un federale messo alle sue calcagna, “Un altro giro”, di Thomas Vinterberg, che vede quattro amici mettere a fuoco una teoria, secondo la quale, bere alcol permette di raggiungere, con una quantità prestabilita, stati percettivi che incrementano la creatività del genio.
Non manca un omaggio a Emma Dante con la proiezione delle “Sorelle Macaluso”, la storia di Cinque sorelle palermitane, combattive e disperate che, per sopravvivere, alternano le loro tragedie con sogni improvvisati.
Secondo tradizione, i film sono d’essai, inoltre verranno mantenuti gli incontri: “Accadde Domani”, con l’attore Denis Campitelli per il film “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti (24 giugno ), col regista Domenico Ciolfi per “Il caso Pantani” (30 giugno ), con la regista Anita Rivaroli e il direttore d’orchestra Marco Sablu per il film “We are the Thousand” (6 luglio), con Elisabetta Sgarbi, nelle vesti di regista, col musicista Mirco Mariani, per “Extraliscio – Punk da Balera” (11 agosto ).
C’era aria di ottimismo per una possibile rinascita, alla presentazione della trentasettesima stagione, sedicesima gestita dal Circolo FuoriQuadro, dopo la riapertura del Teatro Goldoni, che ha fatto registrare il tutto esaurito, con le dovute distanziazioni, come a voler dimostrare in che modo cinema e teatro possano contribuire, insieme, a quella svolta culturale attesa da tempo.

Le proiezioni inizieranno alle 21,30. Il costo dei biglietti: 6 euro intero, 5 euro ridotto.
www.arenabagnacavallo.it

Via, via, sempre più lontano, sempre più a Nord. Per una sempre più profonda conoscenza della natura. E di se stessi

(di Emanuela Dini) Un uomo, una baita di montagna, un cane, un paio di sci, una distesa innevata. La libertà? La felicità? Forse. Ma non basta, e allora scatta il senso dell’avventura, della ricerca, di una fusione con una natura che ti fa sentire piccolo, di un andare verso un confine e un limite sempre più lontano, sempre più a nord…
Un po’ diario intimo, un po’ autobiografia, inno all’amicizia e alla voglia di farsi domande, “Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord” è la storia del viaggio di due amici tra Canada e Alaska, sulle orme degli autori più amati – Ernest Hemingway, Raymond Carver, H.D. Thoreau, Jack London, Herman Melville e Chris McCandless di Into the Wild – alla ricerca di una nuova dimensione, nel confronto con una natura gigantesca e potente, un mettersi alla prova per sperimentare in prima persona un nuovo rapporto con se stessi e con l’ambiente.
Paolo Cognetti è l’autore del fortunato romanzo “Le otto montagne”, vincitore del Premio Strega 2017 e tradotto in 35 lingue, storia dell’amicizia tra due ragazzi, Pietro e Bruno, e del loro diventare uomini in montagna, «Un modo di vivere la vita, un passo davanti all’altro, silenzio, tempo e misura».
Milanese, Cognetti a 30 anni abbandona la città e va a vivere in una baita di pietra e legno in Valle d’Aosta, seguendo il sogno di diventare scrittore. Dieci anni più tardi, cioè ai giorni nostri, quarantenne di successo, parte con l’amico Nicola Magrin, artista e illustratore, verso quel Grande Nord che attira entrambi.
Viaggio di scoperta, viaggio sulle orme degli scrittori più amati, con tanto di visita alle loro tombe, viaggio di riflessione e introspezione, con ricordi d’infanzia, frequenti pensieri ai padri, visita a un’anziana coppia amica dei genitori che vive isolata sulle rive di un lago canadese, incontro con una poetessa che vive anche lei in una baita isolata in mezzo al nulla e legge Italo Calvino. Un itinerario verso il Grande Nord che ha per meta il mitico bus di Chris McCandless di “Into the wild” (rimosso nel giugno 2020 per motivi di sicurezza, in quanto molti turisti che cercavano di raggiungerlo rischiavano la vita e dovevano essere soccorsi) ma anche un viaggio dentro se stessi, un domandarsi  a 40 anni “chi siamo e cosa vogliamo”, frammenti di dialogo e ricordi dei due amici che si uniscono a esperienze quotidiane del viaggio, dal fare benzina a comperare gli attrezzi necessari alla loro avventura.
Il film è girato sapientemente (e possiamo immaginare faticosamente, viste le ambientazioni), a metà tra documentario e diario, con affettuosi ed emozionanti primi piani, particolari di vita quotidiana, panorami possenti ma mai da cartolina. Anzi, ritrae anche gli aspetti più sgradevoli di città deserte mezze abbandonate, personaggi border line, clima ostile. E racconta un misurarsi faticoso con una natura che non regala niente, il guado di un fiume, gli incendi nei boschi, i sentieri nella foresta, il fuoco acceso con i rami secchi, gli stivali pieni d’acqua messi ad asciugare…
Un Grande Nord dell’anima, che non è una meta conclusiva e non dà risposte ma regala l’aprirsi a uno scenario di nuove domande.

Paolo Cognetti. “Sogni di Grande Nord”. Regia di Dario Acocella. Nelle sale solo il 7, 8, 9 giugno
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