(di Patrizia Pedrazzini) – “Non bevo mai prima di colazione”. Parola di Winston Churchill, che di whisky ne buttava giù otto al giorno (più due brandy), per non parlare dell’amatissimo champagne. Il che non gli impedì di morire (sigari inclusi) a novant’anni compiuti, non prima di aver contribuito, alla grande, alla sconfitta dei tedeschi nella Seconda guerra mondiale. E comunque lo statista inglese è in ottima compagnia: da Čajkovskij a Hemingway, si contano a decine gli artisti e gli scrittori che nell’alcol hanno trovato coraggio e ispirazione.
Martin, Tommy, Nicolaj e Peter sono quattro uomini di mezza età, colleghi in quanto insegnanti nella medesima scuola superiore di una città danese, anzi di più. Sono quattro amici, quattro brave persone che magari dalla vita si aspettavano altro, ma che la vita ha costretto ad accontentarsi. Così si apprestano a invecchiare, fagocitati da un’esistenza ripetitiva, monotona, noiosa e mediocre che ha spento in loro i sogni e le attese della gioventù.
Finché un giorno, quasi per caso, al compleanno di uno di loro, salta fuori la bizzarra teoria di uno studioso norvegese, tale Finn Skårderud, il quale sostiene che l’uomo nasce con una carenza di alcol nel sangue dello 0,05%. L’equivalente di due bicchieri di vino. Tanto basta, ai quattro, per avviare un vero e proprio studio, nel quale le “cavie” sono loro stessi: prima cosa colmare il deficit iniziale, poi man mano aumentare via via la dose quotidiana di vino, birra e superalcolici, e vedere un po’ che cosa succede. All’inizio, tutto bene, anzi benissimo: l’autostima è la prima a risentirne positivamente, seguono la leggerezza, una diversa considerazione dei problemi, insomma una bella sensazione di benessere. Tutto, quasi miracolosamente, va meglio: i rapporti con i figli, con le mogli, con gli studenti. Martin, che insegna Storia e che i ragazzi vivevano come una palla al piede, si trasforma in un insegnante brillante e ammirato. Per non parlare del professore di ginnastica, di quello di filosofia e di quello di musica. Già, ma l’esperimento prosegue, e quando dai due bicchieri di rosso iniziali si arriva al cocktail di assenzio e alcol puro…
Sia chiaro, “Un altro giro”, del cinquantunenne regista danese Thomas Vinterberg (la Danimarca, come molti Paesi del Nord Europa, è sensibile al problema dell’alcolismo), non è un invito ad attaccarsi alla bottiglia, però è un film che ha l’innegabile coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Che, tradotto, suona più o meno così: ferme restando le conseguenze nefaste del bere, perché negare che un pizzico di irrazionalità aiuti a ritrovare la gioia di vivere e restituisca all’uomo il piacere della libertà perduta? Ovvio che l’esperimento dei quattro professori rasenti la follia (tra l’altro sono insegnanti), e che il loro comportamento sia quanto di meno educativo si possa immaginare, ma che cosa è meglio: un’esistenza infelice, depressa e magari disperata o una “botta di vita” ogni tanto, con tutti i problemi e i guai che ne conseguono? Un tema serio, tuttavia trattato non senza note di umorismo e, soprattutto, con grande comprensione e senza falsi pudori.
Nel ruolo di Martin, il più problematico dei quattro, Mads Mikkelsen offre qui una delle interpretazioni migliori: vulnerabile, sensibile, generoso, pacato fuori ma con il fuoco dentro, grandioso nel liberatorio ballo finale sulle note di “What A Life” degli Scarlet Pleasure.
Oscar 2021 per il miglior film in lingua straniera.
Elogio della sbronza? Magari no. Ma se un goccetto al giorno facesse ritrovare la sete di vita (e la libertà perduta)?
La vecchiaia, i ricordi che si frantumano, l’Alzheimer. A 83 anni Anthony Hopkins strappa il cuore. E il secondo Oscar
(di Patrizia Pedrazzini) – Londra. Per le strade di un quartiere benestante una donna di mezza età, Anne, cammina con passo svelto. Sta andando alla casa del padre, un bell’appartamento, caldo e accogliente, nel quale l’uomo, Anthony, vive solo. Va a trovarlo tutti i giorni, per accertarsi che stia bene, che dorma e che mangi, ma questa volta anche per convincerlo ad accettare l’arrivo di una nuova – l’ultima in ordine di tempo, visto che l’uomo riesce a farle scappare tutte – badante. Soprattutto perché lei sta per partire per Parigi, e vuole sentirsi tranquilla.
Sono le prime scene di “The Father – Nulla è come sembra”, film d’esordio del quarantunenne scrittore, drammaturgo e regista teatrale parigino Florian Zeller, e già emergono evidenti il ritmo essenziale, l’eleganza, l’attitudine al dialogo e all’introspezione, la propensione per le scene d’interni, che saranno gli assi portanti dell’intera pellicola.
Pur vivace e scherzoso, a tratti persino giovanile, con più di un momento di lucidità, il vecchio Anthony mostra chiari i segni dell’Alzheimer: confonde presente e passato, sovrappone ricordi e persone, si sente perseguitato, dimentica oggetti per lui vitali, a partire dall’amato orologio (“non lo trovo più, l’ha senz’altro rubato la badante”), passa dalla dolcezza alla rabbia, infierisce senza pietà sulla figlia amorevole, umiliandola nel confronto con l’altra figlia, amatissima, morta da tempo in un incidente, ma per lui ancora viva, all’estero, dove – dice a tutti – è una pittrice di successo.
Una lotta, quella di Anne, al limite della disperazione. Non vuole che al padre si spalanchino le porte di una Casa di cura, ce la mette tutta perché questo non accada. Ma quando l’avversario è una mente che va in frantumi, contro chi o che cosa si sta lottando?
Nel suo raccontare la peggiore delle ingiustizie che possano capitare a un essere umano, perdere la memoria e quindi la propria identità, “The Father” è un film devastante, un macigno di sofferenza, di fatto una sorta di lungo monologo che non dà tregua né pace, tuttavia condotto con garbo e sobrietà, senza sentimentalismi, anzi all’insegna del controllo, tanto dei sentimenti quanto delle emozioni. Ma soprattutto il lavoro di Zeller riesce a condurre lo spettatore all’interno del dramma della demenza senile, fin dentro la mente di chi ne soffre, portandolo a vivere in prima persona lo smarrimento e la confusione che ne attanagliano l’anima. Attraverso il dolore di un padre e di una figlia, vittime uguali e diverse di una malattia atroce.
Misurata, intensa, generosa, Anne è l’ottima Olivia Colman, già Premio Oscar nel 2019 come miglior attrice per “La favorita”. Il padre, nell’ennesimo ruolo grandioso di una lunga, inappuntabile carriera, è Sir Anthony Hopkins. E non può certo stupire che la perfetta, essenziale e insieme potente interpretazione del vecchio padre (vulnerabile da strappare il cuore) sia appena valsa all’ottantatreenne attore gallese il secondo Oscar (dopo quello ottenuto per “Il silenzio degli innocenti” nel 1992).
“Mi sento come un albero che sta perdendo tutte le sue foglie”, ammette smarrito e spaventato nella scena finale. Poi appoggia la testa sulla spalla della giovane infermiera, e fra i singhiozzi chiama la mamma, perché lo venga a prendere e lo porti via di lì. Mentre la donna lo accarezza dolcemente, come si fa con un bambino. “Va tutto bene, baby, tutto bene”.
“The Father” è stato premiato anche con un secondo Oscar, per la migliore sceneggiatura non originale.
Nelle sale dal 20 maggio in lingua originale, dal 27 nella versione italiana.
Un ormai europeizzato Woody Allen, tra mondo reale e immaginario, rimette in moto la sua macchina dei sogni
(di Marisa Marzelli) – Se gli americani gli hanno voltato le spalle, condannandolo alla cancellazione e all’oblio in mancanza di condanne penali, travolti dal sacro fuoco che non conosce il beneficio del dubbio, l’85enne Woody Allen ha trovato rifugio artistico in Europa, che cinematograficamente l’ha sempre amato più dei suoi compatrioti. Così, esce nelle nostre sale il suo cinquantesimo titolo Rifkin’s Festival. Cosa c’è di meglio di una sua commedia dolce-amara per rimettere in moto quella macchina dei sogni che è il cinema – con un omaggio ai classici del passato – per tornare (si spera con continuità) alle proiezioni dal vivo?
Certo, il peso degli anni e della cattiva stampa domestica hanno un po’ appannato il regista di New York ma non le sue battute folgoranti, lo sguardo lucido sulle cialtronerie del mondo culturale e l’introspezione, più efficace delle sedute dallo psicoanalista. Pregi e difetti del cinema alleniano tornano puntuali in Rifkin’s Festival, ennesima riflessione su mondo reale e immaginario.
Il Festival del titolo è quello di San Sebastian, nei Paesi Baschi, dove il maturo Mort Rifkin (Wallace Shawn), già professore di cinema e ora alle prese con la scrittura del suo primo e ambizioso romanzo, si reca con la moglie Sue (Gina Gershon) addetta stampa di un giovane regista francese in ascesa, velleitario e narcisista (Louis Garrel). Mentre la moglie sembra un po’ troppo impegnata a pilotare il rampante emergente tra interviste, cocktail e ricevimenti festivalieri, tanto che Rifkin sospetta tra i due più di un semplice rapporto professionale, lui vaga per la città e, ipocondriaco com’è, finisce per conoscere una giovane dottoressa malmaritata con un pittore. Sin qui è il tradizionale incrocio di coppie delle sceneggiature alleniane. Ma Rifkin sogna spesso, e sogna i grandi film del cinema classico che continua a ritenere molto più significativi dell’attuale produzione intellettualistica e banale. Solo che nelle scene clou ricostruite in bianco e nero di film famosissimi (da Quarto potere a Fellini 8 e ½, Jules e Jim, A bout de souffle, Un uomo, una donna e altri capolavori, da Bergman a Buñuel) tra i protagonisti c’è sempre anche lui. Il miracolo lo compie il direttore della fotografia Vittorio Storaro (alla sua quarta collaborazione con Woody Allen) che riesce in pochi fotogrammi a ricostruire l’atmosfera di quelle opere. Invece, dei film di oggi proiettati al festival basco non vediamo nemmeno un’immagine, ascoltiamo solo elogi esagerati, come nel caso del presuntuoso Garrel.
Come sempre, Allen ha non solo diretto ma anche scritto Rifkin’s Festival e il livello delle battute è spesso alto, a tutto campo con le tematiche predilette: gli ebrei, Dio, la guerra, gli intellettuali, l’amore, il matrimonio, l’esistenza. Incastonato tra due sedute del protagonista dal proprio analista (alla fine non si sente l’ultima risposta del terapeuta) il racconto ha qualche momento centrale di stanca, il ritmo rallenta e perde compattezza. Ma poi recupera soprattutto nell’incontro surreale del protagonista con la Morte (bel cameo di Christoph Waltz) de Il settimo sigillo di Bergman, che si disinteressa della partita a scacchi ed elargisce consigli salutisti su come mantenersi in buona salute.
Ribadito che chi non ama Allen trova ogni suo film uguale agli altri con solo lievi variazioni e che invece chi è un suo fan è sempre incantato dalle tante intelligenti variazioni possibili, qui ci sono in effetti elementi nuovi. A partire dal fare di necessità virtù. I film che Allen ha girato fuori da New York sono sempre stati tacciati di operazione-cartolina, grande spot pubblicitario che si lega a una specifica città (Vicky, Christina, Barcelona, Midnight in Paris, To Rome with Love). Anche stavolta San Sebastian splende come località turistica da sogno. E la città ha reso omaggio al regista l’anno scorso a settembre programmando Rifkin’s Festival come titolo inaugurale. Ma alcuni di questi lavori “sponsorizzati” si sono anche rivelati tra i migliori della filmografia di Allen come nel caso di Midnight in Paris, che a livello di struttura del plot ha più di un’affinità con Rifkin’s Festival, nonostante parli di nostalgia non di grande cinema ma di grande letteratura. Comunque, nel caso di Rifkin’s Festival probabilmente non c’erano alternative: in mancanza di finanziamenti americani la produzione è solo spagnola e italiana. Quanto alla scelta dei protagonisti, pare evidente che i divi statunitensi si sono dileguati. Allen è diventato veleno per il box office.
Quando il regista, per ragioni anagrafiche, ha smesso di interpretare se stesso e le sue nevrosi, l’alter ego era quasi sempre il divo del momento. Stavolta è invece il bravo caratterista Wallace Shawn (per la sesta volta in un film di Woody Allen), già anzianotto, con la pancetta e i piedi piatti. Un’autoironica ma anche malinconica ammissione di declino da parte del regista.
Sorprese, attese deluse e assenza del “pigliatutto”. Vince “Nomadland” di Chloé Zhao. Miglior attore Anthony Hopkins
HOLLYWOOD, lunedì 26 aprile – Come da tradizione, il Dolby Theatre di Los Angeles ha ospitato la notte degli Oscar (due mesi dopo la data inizialmente prevista del 28 febbraio). La cerimonia, nel rispetto delle esigenze imposte dalla pandemia, è stata trasmessa in diretta da più luoghi, che fanno parte dell’industria di Hollywood. Da notare, inoltre, che i criteri di ammissibilità dei film sono stati modificati, e, tra i film originariamente destinati ad essere distribuiti nelle sale, sono stati ammessi anche quelli distribuiti in streaming.
“Nomadland”, già Leone d’Oro 2020 a Venezia, della regista cinese Chloé Zhao, si aggiudica tre statuette: film, regia e miglior attrice. Solo due riconoscimenti al grande favorito (dieci candidature), il film in bianco e nero di David Fincher, “Mank” (omaggio struggente e poetico al cinema della prima Hollywood), che, ispirato a “Quarto potere”, racconta la vita dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz.
Anthony Hopkins si aggiudica, un po’ a sorpresa, il suo secondo Oscar (dopo “Il silenzio degli innocenti”) come Miglior Attore in “The Father”.
Delusione per Laura Pausini: l’Oscar per la Miglior Canzone è andato a Fight For You del film “Judas and the Black Messiah”. A mani vuote anche il “Pinocchio” di Garrone.
La cerimonia è stata condotta non da uno, ma da un cast di presentatori, da Joaquin Phoenix a Brad Pitt, Zendaya, a Angela Bassett, a Don Cheadle, Bryan Cranston, Laura Dern, Harrison Ford, Regina King, Marlee Matlin, Reese Witherspoon.
I VINCITORI DELLA 93ª EDIZIONE DEI PREMI OSCAR
Miglior film
Nomadland, regia di Chloé Zhao
Miglior regista
Chloé Zhao – Nomadland
Miglior attore protagonista
Anthony Hopkins – The Father – Nulla è come sembra (The Father)
Miglior attrice protagonista
Frances McDormand – Nomadland
Miglior attore non protagonista
Daniel Kaluuya – Judas and the Black Messiah
Miglior attrice non protagonista
Yoon Yeo-jeong – Minari
Migliore sceneggiatura originale
Emerald Fennell – Una donna promettente (Promising Young Woman)
Migliore sceneggiatura non originale
Christopher Hampton e Florian Zeller – The Father – Nulla è come sembra (The Father)
Miglior film internazionale
Un altro giro (Druk), regia di Thomas Vinterberg (Danimarca)
Miglior film d’animazione
Soul, regia di Pete Docter
Migliore fotografia
Erik Messerschmidt – Mank
Miglior montaggio
Mikkel E. G. Nielsen – Sound of Metal
Migliore scenografia
Donald Graham Burt e Jan Pascale – Mank
Migliori costumi
Ann Roth – Ma Rainey’s Black Bottom
Miglior trucco e acconciatura
Sergio Lopez-Rivera, Mia Neal e Jamika Wilson – Ma Rainey’s Black Bottom
Migliori effetti speciali
Andrew Jackson, David Lee, Andrew Lockley e Scott Fisher – Tenet
Migliore colonna sonora
Trent Reznor, Atticus Ross e Jon Batiste – Soul
Migliore canzone originale
Fight For You (musiche di H.E.R. e Dernst Emile II, testo di H.E.R. e Tiara Thomas) – Judas and the Black Messiah
Miglior sonoro
Nicolas Becker, Jaime Baksht, Michelle Couttolenc, Carlos Cortés e Phillip Bladh – Sound of Metal
Miglior documentario
Il mio amico in fondo al mare (My Octopus Teacher), regia di Pippa Ehrlich e James Reed
Miglior cortometraggio
Due estranei (Two Distant Strangers), regia di Travon Free e Martin Desmond Roe
Miglior cortometraggio documentario
Colette, regia di Anthony Giacchino
Miglior cortometraggio d’animazione
Se succede qualcosa, vi voglio bene (If Anything Happens I Love You), regia di Michael Govier e Will McCormack
PREMIO UMANITARIO “Jean Hersholt”
Tyler Perry
Motion Picture & Television Fund