(di Paolo A. Paganini) – … I Lombardi, i Veneti, gli Emiliani non hanno ancora lasciato i tormenti infernali inferti dal diabolico virus. E chissà per quanti Cerchi bisognerà ancora sfiancarci, accompagnati dalla nostra guida. Che non è Virgilio. Qualcuno dice Conte, altri Fontana, altri ancora Zaia. Ma, a questo punto, sarà meglio andare in Duomo, che fra un po’ aprirà a piccole dosi, e rivolgere un atto di fede al Padre Nostro.
L’italico percorso infernale è formalmente cominciato il 22 febbraio scorso. Il percorso dantesco della Commedia cominciò invece il 25 marzo. Pressappoco, le stesse date.
Anche noi, poveri peccatori, dovremo meritarci, come Dante, la misericordia divina, per purificare non più l’anima, ma il corpo, minacciato, contagiato dall’implacabile coronavirus, tutti avvolti e inquarantenati nelle spire di una tremenda e temuta estensione epidemiologica, che già, dopo una settimana, faceva registrare temibili e giustificate preoccupazioni.
Gli ultimi aggiornamenti (domenica 1 marzo, ore 18) parlano di 1694 contagi, e di 41 deceduti.
Per due settimane, proibito ogni tipo di esibizionismi affettivi. Vietati baci abbracci e strette di mano.
Inoltre, per decreto ministeriale, come risaputo, vennero indicati i provvedimenti più urgenti atti a far fronte all’emergenza epidemiologica da CODIV-19.
Da oggi fino a domenica 8 marzo, per la seconda settimana, sono sospese in Lombardia, Veneto ed Emilia manifestazioni e iniziative di qualsiasi natura, ludiche, culturali, sportive, religiose. Chiusura di tutte le scuole d’ogni ordine e grado. Sospensione di ogni tipo di accesso e di servizi, come musei, cinema, teatri, sale concerti. Proibiti convegni, conferenze, riunioni culturali. Chiusura di palestre, campi da gioco e stadi. Restrizione di orari e servizi relativi a bar e luoghi di ristorazione.
Ma basterà una seconda settimana di restrizioni? O chissà per quanto ancora dovremo prorogare digiuni, sacrifici, limitazioni della libertà?
Per quanto tempo, insomma, dovremo affrontare le prove di una paziente dedizione al sacrificio, accettando perdite di lavoro, rinuncia dei profitti, francescane rinunce d’un onesto benessere economico e giuste ricreazioni? I teatri son chiusi. E dicono che non sarà più come prima. I piccoli falliranno. Anche questo fa parte della remissione dei nostri peccati, per guadagnarsi perdono e misericordia. In Cielo o in terra.
C’è una Milano da tempo di guerra. Una metropoli irriconoscibile, strade deserte, scomparsa dei turisti, alberghi semi-vuoti. Un’economia gemente e supplicante pietà. Borse in crisi, spread in stato febbrile. Con qualche florido profittatore di furba creatività nel cogliere l’occasione di speculare sulle paure della gente, con vendite di magici unguenti disinfettanti e integratori miracolosi per combattere il virus e rafforzare, non le difese naturali, ma i pregiudizi dell’ignoranza. E prezzi delle mascherine da borsa nera.
E disperazione dei tifosi per il caotico disastro del rivoluzionato calendario del Campionato di calcio.
Eppure, molti uomini di poca fede cominciano a pensare che non ce l’abbiano raccontata giusta.
Vuoi vedere che la diffusa psicosi, la paura collettiva da contagio, nasconde piuttosto trappole, sgambetti e giochini politici? Addirittura, Sgarbi alla Camere inveiva: “Non c’è la peste. È un tranello di Salvini. È una finzione, è una finzione… è una presa per il culo che umilia l’Italia davanti al mondo. Non c’è nessuna emergenza…”.
Anche alcuni sant’uomini di scienza han preso posizione contro la montante diffusione di una incontrollata confusione mentale, manifestando la convinzione che, in fondo, si tratta poco più di una normale influenza, e dimostrando che, nell’80 % dei casi, il contagio del coronavirus si risolveva da solo, con sintomi lievi e irrilevanti. Anche se, nei casi più gravi, si andava dal comune raffreddore fino alle sindromi respiratorie, fino al decesso per gli anziani con gravi patologie cardiache, circolatorie, diabetiche.
E, anche senza coronavirus, nella stagione 2018/2019, la semplice influenza causò, in Italia, 198 decessi.
I milanesi hanno subodorato qualcosa? Qualcuno proclama una specie di civile ribellione, affrontando impavidamente cappuccini e brioches, secondo l’amatissima consuetudine della colazione al bar. A Milano, nel 1848, la rivoluzione cominciò con un sigaro… Oggi, con un cappuccino!
E, intanto, la bianca colomba della speranza ha lasciato l’arca della sofferenza puntando un volo salvifico verso il Duomo, che sta aprendo un timido uscio di fede, con le acquasantiere ancora colme d’acqua benedetta.
Uno spiraglio prima di riveder le stelle?
Coraggio. Usciamo.
Et portae inferi (leggi coronavirus) non praevalebunt. Forse.
“E quindi uscimmo a riveder le stelle”. Così Dante, lasciando l’Inferno. A noi basterebbe tornare a riveder cinema e teatro
Nella città scaligera, un nuovo gioiello per turisti e appassionati: Palazzo Maffei. Sulla stupenda Piazza delle Erbe
VERONA, domenica 2 febbraio. Affacciato sull’affascinante suggestione pittorica di Piazza delle Erbe, il restaurato Palazzo Maffei, importante edificio seicentesco della città, con le sue preziose sale espositive della collezione Luigi Carlon, sarà finalmente aperto al pubblico, da sabato 15 febbraio prossimo. Un avvenimento d’arte, che, insieme ai vari gioielli storici e monumentali della città, dall’Arena al famoso balcone di Giulietta, da Piazza Dante alle Arche Scaligere, da Castel Vecchio alla Gran Guardia eccetera, offrirà ai turisti un altro ricco, imperdibile motivo d’interesse.
Palazzo Maffei offrirà un percorso espositivo dalla “doppia anima”, tra antico e moderno, che attraversa più di cinque secoli, con oltre 350 opere in dialogo tra le arti: pittura, scultura, arti applicate e architettura. Oltre alla centralità espositiva della pittura veronese e la passione per il futurismo italiano e la metafisica. Autentici capolavori dell’arte moderna e contemporanea e i grandi maestri del XX secolo: da Picasso a De Chirico, da Mirò a Kandinskij, da Magritte a Fontana, da Burri a Manzoni.
Quindi, da un lato il restauro completo di uno dei più scenografici e noti palazzi seicenteschi della città, con la sua facciata barocca ora risplendente, con l’imponente scalone elicoidale autoportante, gli stucchi e le pitture murali del piano nobile; dall’altro una raccolta d’arte di grande interesse che spazia dalla fine del Trecento fino ad oggi, frutto di oltre cinquant’anni di passione collezionistica dell’imprenditore Luigi Carlon.
Il risultato è ora l’apertura di “Palazzo Maffei – Casa Museo”, un’iniziativa culturale promossa dallo stesso Luigi Carlon, imprenditore e collezionista veronese, su progetto architettonico e allestitivo dello studio Baldessari e Baldessari, e da un’idea museografica di Gabriella Belli, con contributi scientifici di Valerio Terraroli e Enrico Maria Guzzo.
La proposta e il percorso sono sorprendenti, con oltre 350 opere, tra cui quasi 200 dipinti, una ventina di sculture, disegni e un’importante selezione di oggetti d’arte applicata (mobili d’epoca, vetri antichi, ceramiche rinascimentali e maioliche sei-settecentesche, ma anche argenti, avori, manufatti lignei, pezzi d’arte orientale, rari volumi) e con una scelta espositiva, appunto, dalla “doppia anima”.
Nella prima parte, connotata dagli affacci sulla magnifica piazza, si privilegia il dialogo con gli ambienti del piano nobile del palazzo a ricreare l’atmosfera di una dimora privata, ma anche il senso di una wunderkammer (camera delle meraviglie) e di una sintesi tra le arti, con nuclei tematici d’arte antica in cui irrompe all’improvviso il dialogo con la modernità.
Nella seconda parte, dedicata al Novecento e all’arte contemporanea, si è invece voluta creare una vera e propria galleria museale, ove spiccano molti capolavori, si scorge la passione per il Futurismo e la Metafisica e s’incontrano alcuni dei massimi artisti del XX secolo: Boccioni, Balla, Severini, ma anche Picasso e Braque; De Chirico, Casorati e Morandi accanto a Magritte, Max Ernst, Duchamp. E ancora Afro, Vedova, Fontana, Burri, Tancredi, De Dominicis, Manzoni e molti altri.
Per il cavaliere del lavoro Luigi Carlon, le opere raccolte negli anni sono racconti di vita, gesti d’amore, testimonianze di quella sensibilità unica e singolare che egli ha colto negli artisti fin da giovane e dalla quale è stato affascinato e colpito.
La collezione contiene molti nuclei significativi, che testimoniano l’organicità delle acquisizioni, mentre l’interesse per la storia artistica veronese rappresenta un elemento di forte valore identitario della raccolta d’arte antica che vanta una sorta di compendio di storia dell’arte del territorio scaligero, con opere tra gli altri di Altichiero e Liberale da Verona, Nicolò Giolfino, Zenone Veronese, Bonifacio de’ Pitati, Antonio e Giovanni Badile, Felice Brusasorci, Jacopo Ligozzi, Alessandro Turchi, Marc’Antonio Bassetti, Antonio Balestra, Giambettino Cignaroli.
Dalla visione privata, dall’intimo della residenza quotidiana, questo patrimonio d’arte diventa ora ricchezza condivisa con la città e con il pubblico, in un edificio fortemente simbolico, com’è appunto Palazzo Maffei, il cui nucleo originario tardo-medievale sorge nell’area del Capitolium, il complesso votivo dedicato alla Triade Capitolina, costruito quando Verona divenne municipio romano (49 a.C.), di cui nei sotterranei del palazzo restano ancora le evidenze.
Un’ultima annotazione storico-architettonica, per completare la conoscenza di “uno fra i migliori palazzi barocchi di Verona, degno scenario di una delle più caratteristiche piazze d’Italia.
“Non ci è noto l’autore, vari storici suppongono che la sua progettazione sia giunta da Roma, dove il Maffei aveva relazioni. I primi ad essere interessati all’attuale edificio furono Marcantonio Maffei e il nipote Rolandino.
“Da un’iscrizione murata nell’atrio apprendiamo che, nel 1668, Rolandino Maffei riedificò il palazzo, avanzando la facciata che guarda la Piazza, e lo adornò di statue e simulacri e di una terrazza per un giardino pensile.
“Il piano terreno è a cinque fornici, bugnati; al primo piano si aprono cinque grandi finestre, con balaustre e mascheroni nel timpano, divise da semicolonne ioniche; il secondo piano ha piccole finestre molto lavorate, divise da lesene e targhe con scritte. Una ricca cornice e una balaustra con sei statue di divinità pagane coronano l’edificio. Interessante il cortile con colonne; degna di nota l’originale scala a chiocciola, a pianta ovoidale, con statue una delle quali si trova al centro, nell’ingresso, e le altre nelle nicchie”. (Da Federico Dal Forno, “Case e palazzi di Verona”, Banca Mutua Popolare di Verona, 1973).
(p.a.p.)
Canova e Thorvaldsen. Gli eterni “Duellanti” della scultura neoclassica si sfidano a Milano. In una mostra imperdibile
MILANO, martedì 29 ottobre ► (di Patrizia Pedrazzini) – Due grandi, contemporanei e rivali. Due “classici moderni” che hanno saputo trasformare l’idea stessa della scultura, e la sua tecnica, creando opere immortali, riprodotte in tutto il mondo. Due cultori dei temi universali della vita: il breve percorso della giovinezza, l’incanto della bellezza, le lusinghe e le delusioni dell’amore, l’eroismo. I padri neoclassici e romantici della scultura moderna: il veneto Antonio Canova, nato a Possagno, nel Trevigiano, nel 1757 e morto 65 anni dopo a Venezia, e il danese Bertel Thorvaldsen (Copenaghen, 1770-1844). Il Fidia italico e quello del Nord.
Due mostri sacri le cui opere sono ora, e per la prima volta, oggetto di un confronto aperto nell’ambito della bellissima mostra “Canova/Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna”, alle Gallerie d’Italia di Milano fino al prossimo 15 marzo. Realizzata in collaborazione con il Museo Thorvaldsen di Copenaghen e con l’Ermitage di San Pietroburgo, e resa possibile grazie anche all’apporto di fondamentali prestiti concessi da musei e collezioni private italiani e stranieri, l’esposizione è la storia di una lunga sfida, divenuta l’emblema di una civiltà che guardava all’antico, aspirando insieme alla modernità.
In tutto, compresi i contributi di altri artisti, oltre 160 opere (sculture e dipinti), distribuite in 17 sezioni di grande impatto. Ma è nel grande salone centrale della struttura museale di piazza della Scala, intorno al quale ruota l’intera mostra, che questi eterni “Duellanti” si affrontano nella più elegante e seducente delle contese: quella fra i gruppi marmorei “Le tre Grazie” di Canova e “Le Grazie con Cupido” di Thorvaldsen, nei quali i due scultori hanno più e meglio riversato ognuno il proprio ideale di bellezza. Che è estremamente aggraziata, fatta di movimento, di morbidezza e di sentimento nel primo, mentre nel secondo appare intrisa sì di eleganza, ma anche di un ideale austero di casta semplicità. Anche le forme delle tre giovani donne, pur molto simili, denotano differenti origini: più dolci e arrotondate nell’opera di Canova, più snelle e scattanti in quella di Thorvaldsen.
Analogamente, in un’altra sezione, il raffronto fra “Amore e Psiche stanti” e “Psiche con il vaso”, evidenzia la sensualità coinvolgente della creazione canoviana, a fronte della grazia più distaccata del maestro danese. E ancora, la figura di Ebe, la coppiera degli dei, immortale simbolo dell’eterna giovinezza: ecco da un lato la straordinaria forza dinamica della statua di Canova, seminuda, con le vesti trasparenti che il vento fa aderire al corpo, e dall’altro l’immobile castità della figura di Thorvaldsen, chiusa in una malinconica e quasi spirituale bellezza. E Ganimede, Venere, Cupido. I ritratti, gli autoritratti e le effigi dei due scultori. E il grande mecenate, Napoleone. Interpretato da Canova nello splendido busto intriso del fascino e della solitudine dell’eroe e dell’uomo del destino, mentre Thorvaldsen lo sgancia dalla dimensione umana per farne letteralmente un dio, sorta di novello Giove con l’aquila.
Un confronto senza esclusione di colpi, calato e sostenuto, lungo tutto percorso, da continui richiami al mondo artistico e culturale che circondava al tempo i due scultori. Valga su tutte la sezione “Gli studi di Canova e di Thorvaldsen a Roma”, forte di una serie di opere, di autori loro contemporanei, che rimandano alle vere e proprie officine nelle quali i due maestri lavoravano nel centro della capitale (dove entrambi soggiornarono), e che testimoniano di come quei laboratori artistici fossero già una sorta di musei, nei quali esporre gli studi, le opere realizzate e i modelli in gesso da copiare.
Da un lato Canova il rivoluzionario, capace di garantire alla scultura un primato sulle altre arti, nel segno del confronto e del superamento dell’antico. Dall’altro Thorvaldsen che, osservando il rivale, si era ispirato a una classicità più austera, avviando una nuova stagione dell’arte nordica, ispirata alle civiltà mediterranee.
TUTTI I VOLTI DELLA BELLEZZA. LO SCULTORE DI POSSAGNO E L’EQUILIBRIO PERFETTO
Sempre fino al 15 marzo, ma al GAM, la Galleria d’Arte Moderna di Milano, e dedicato solo a Canova, è invece un altro prezioso percorso, volto a ricostruire la genesi e l’evoluzione delle celebri “teste ideali” che lo scultore di Possagno (del cui Tempio canoviano ricorrono quest’anno i duecento anni della posa della prima pietra) realizzò negli ultimi dodici anni di attività, quando ormai era il più acclamato e richiesto d’Europa.
Volti idealizzati (sono esposte 39 opere, 24 delle quali di Canova), che parlano delle infinite variazioni della bellezza femminile, di raffinatezza, di virtuosismi, della ricerca di un equilibrio perfetto. Una su tutte, “La Vestale”, la cui erma (piccola colonna sormontata da una testa scolpita) rappresenta l’apice della rarefazione formale imposta da Canova al volto ideale, ottenuta grazie alla semplificazione assoluta di ogni possibile elemento decorativo. Del lavoro sono riunite, per la prima volta insieme in una mostra, le tre versioni esistenti: oltre a quella di proprietà del GAM, quella della Fondazione Gulbenkian di Lisbona e quella del Paul Getty Museum di Los Angeles.
Senza dimenticare, fra le altre, la testa della musa Clio, probabile idealizzazione di un ritratto della contessa Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, e il busto di Elena di Troia, che tanta risonanza ebbe all’epoca fra i contemporanei, tanto da essere celebrato in versi da lord Byron.
Mentre il busto della Pace e, ancora di più, l’erma della Filosofia, costituiscono le incarnazioni di concetti sì intangibili, tuttavia reali, naturali e concreti, in quanto rappresentazione del più alto grado della civiltà umana.
Due mostre assolutamente da non perdere.
“Canova/Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna”, Milano, Gallerie d’Italia, piazza Scala, fino al 15 marzo 2020
www.gallerieditalia.com
“Canova. I volti ideali”, Milano, GAM, Galleria d’Arte Moderna, via Palestro 16, fino al 15 marzo 2020
www.gam-milano.com
Preraffaelliti: quei “rivoluzionari” innamorati del Medioevo. In mostra a Milano l’amore, il desiderio, l’incanto della bellezza
MILANO, mercoledì 19 giugno ► (di Patrizia Pedrazzini) Il 1848, e il successivo 1849, rappresentano, nell’ambito della storia europea, due anni-chiave, tanto da andare sotto il nome di “Primavera dei popoli”. In omaggio alla vera e propria ondata di moti rivoluzionari borghesi che, dagli Stati italiani a quelli tedeschi, dalla Francia al regno di Prussia all’Impero austriaco, mira ad abbattere i governi della Restaurazione nell’ottica di sostituirli con governi liberali. Un po’ ovunque, nel Vecchio Continente, tranne che nella ricca e potente Inghilterra, dove la Rivoluzione è invece, all’epoca, da tempo un ricordo. E dove, in compenso, Londra è la metropoli che si sta modernizzando più velocemente in tutto il pianeta, con le sue fabbriche, i magazzini, i negozi, i nuovi canali, le strade e le ferrovie, il Tamigi affollato di vele e battelli, e gli oltre due milioni di abitanti.
Eppure, anche qui c’è qualcuno che ha voglia di fare una Rivoluzione. Sono sette studenti delle Royal Academy Schools, amici fra loro e con un debole per l’arte. Sono giovani e potenzialmente ribelli, quindi “contro”: contro il capitalismo, contro l’imperialismo e contro l’individualismo, ma soprattutto contro un tipo di arte “accademica” che ha, a loro sentire, eccessivamente idealizzato la natura e troppo sacrificato la realtà in nome della bellezza. Decidono quindi, in quel 1848, di fondare una Confraternita, e di chiamarsi “Preraffaelliti”, non tanto in spregio a Raffaello, ma contro i suoi epigoni. Identificando l’età dell’oro in un’epoca nella quale sulle città svettavano non le ciminiere del periodo industriale, bensì le guglie delle cattedrali: il Medioevo.
Ora 80 opere, firmate da 18 di questi artisti (capitanati da Dante Gabriel Rossetti, John Everett Millais e William Holman Hunt), sono in mostra a Milano, a Palazzo Reale, fino al 6 ottobre, prezioso prestito della Tate Britain di Londra. Disegni e dipinti (alcuni dei quali, come “Ofelia” di Millais, “Amore d’aprile” di Arthur Hughes e “Lady of Shalott” di John William Waterhouse, difficilmente escono dal Regno Unito) che parlano d’amore, di desiderio, di fedeltà alla natura, di storie medievali, di poesia, di mito. In una sola parola, della bellezza, in tutte le sue forme.
Una mostra nella quale ogni sosta è un incanto, un tuffo nella magia di questa sorta di “modernità medievale” dichiaratamente antiaccademica, eppure non immune da un certo accademismo, tuttavia ricca di fermenti nuovi, che già parlano di avanguardie e preludono a quella che, a fine secolo, sarà l’Art Nouveau. Dipinti tecnicamente raffinati, nei quali l’elemento grafico è fondamentale, e la natura è rappresentata con estrema precisione e grande gusto per il dettaglio (tra l’altro i Preraffaelliti furono i primi artisti a dipingere en plain air, battendo sul tempo gli Impressionisti). E poi i colori: il rosso, il viola, il verde, il giallo, la tavolozza dei bianchi, a garanzia di quadri luminosi e brillanti. E i soggetti: le grandi storie d’amore del passato; quelle, più moderne, di poveri amanti divisi dalle famiglie, dal ceto o dal denaro; ma anche i cambiamenti sociali, l’emigrazione, la necessità di viaggiare, i conflitti fra genitori e figli.
E le ispirazioni, quel loro attingere a piene mani alla Bibbia come a Shakespeare, a Dante come a Thomas Mallory o a Walter Scott. E le donne: ben poco madonne, più spesso incarnazioni di forze potenti e misteriose, incantatrici e distruttive, femmes fatales bellissime e insieme pericolose, nella loro ormai moderna determinazione a scegliere chi essere e che cosa fare delle proprie vite. Come “Monna Vanna”, di Rossetti: un ritratto ricco di gioielli e di arredi, dallo spillone di perle nei capelli alla ricca collana di corallo a più riprese avvolta intorno al collo e alle mani, alle labbra. Rosse del colore delle ciliegie, piene e certo non infantili, tuttavia prive della minima passione interiore, e nemmeno portate a trasmetterne. È una donna nuova, quella che avanza. La stessa che, di lì a mezzo secolo, incomincerà a parlare di diritti e di libertà.
“Preraffaelliti. Amore e Desiderio”, Milano, Palazzo Reale, fino al 6 ottobre 2019.
DIDASCALIE
1. Ford Madox Brown (1821-1893), Cattivo soggetto, 1863 – Acquerello su carta, cm 23,2 x 21 – © Tate, London 2019.
2. John William Waterhouse (1849-1917), La Dama di Shalott, 1888 – Olio su tela, cm 153 x 200 – © Tate, London 2019.
3. Arthur Hughes (1832-1915), Amore d’aprile, 1855-56 – Olio su tela, cm 88,9 x 49,5 – ©Tate, London 2019.
4. Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), Monna Pomona, 1864 – Acquerello e gomma arabica su carta, cm 47,6 x 39,3 – © Tate, London 2019.
5. Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), Aurelia (L’amante di Fazio), 1863-73 – Olio su tavola di mogano, cm 43,2 x 36,8 – ©Tate, London 2019.
6. William Holman Hunt (1827-1910), Claudio e Isabella, 1850 – Olio su tavola, cm 75,8 x 42,6 – ©Tate, London 2019.