Da un libro di lettere autentiche sull’imbecillità della guerra un’intensa e commovente storia di morte amore e amicizia

albanaia fotoMILANO, giovedì 29 gennaio  ♦  
(di Emanuela Dini) Un grosso pacco chiuso con lo spago. Dentro, le lettere che il padre – ufficiale medico, alpino, fascista convinto, neopapà di un figlio amatissimo che non vedrà crescere – scriveva alla madre nel 1940-41, dalle trincee della guerra in Albania, in cima alle montagne, a quota 2120, in mezzo al vento e al ghiaccio, dove “pensavo a quanti ne moriranno assiderati stanotte”.
È da queste lettere, documenti autentici – difficilmente leggibili per la pessima qualità della dattilografia con caratteri sbavati su carta leggera e porosa e faticosamente trascritti e decifrati solo dopo la morte della madre – che Augusto Bianchi Rizzi (scomparso pochi mesi fa, il 14 ottobre 2014, avvocato, commediografo, scrittore, animatore per oltre vent’anni dei famosi “Giovedì”, punto di ritrovo cultural-ludico-gastronomico del fior fiore degli intellettuali milanesi) ha tratto il suo romanzo Albanaia, ora in scena al Filodrammatici.
Una storia d’amore, di ideali, di amicizia e lucido ritratto dell’imbecillità della guerra raccontata attraverso le lettere che il giovane ufficiale e alpino scriveva alla moglie, dedicandole al “figlio che appena si regge ai primi passi. Per lui voglio scrivere questo diario di guerra, per lui tento di scrivere ciò che spesso è indescrivibile”. E l’indescrivibile è una guerra inutile combattuta in condizioni assurde, dove il nemico è più la fame e il gelo che le truppe dei greci, dove l’aereo italiano bombarda per sbaglio i connazionali, dove i soldati finiranno “mangiati dai vermi e dai pidocchi”, dove l’ufficiale dall’inattaccabile fede fascista copre l’amico alpino che si spara a un piede per poter essere rimpatriato e sposare la fidanzata ebrea.
Un testo asciutto e atroce, una commozione e angoscia che trasuda da ogni riga e che ha inchiodato il pubblico in un silenzio totale, rispettoso e struggente, persino insolito a teatro (non un colpo di tosse, non una caramella scartata, quasi non si sentiva respirare) e che trasportava davvero in trincea. Un’atmosfera da pelle d’oca che ha causato più di una lacrima.
Sul palco, accanto a uno straordinario Tommaso Amadio (l’ufficiale medico), ci sono anche 18 alpini del coro ANA di Milano, diretti dal maestro Massimo Marchesotti – classe 1935, chioma argentea e codino- altrettanto protagonisti con i loro cori dalla musicalità sorprendente e malinconica.
La scena fissa è scarna ed efficace: sacchi di juta e bauli, gradinate ai lati dove siedono gli alpini, una grande foto del Duce sullo sfondo delle montagne albanesi.
Un’ora ad alta tensione emotiva e alla fine, pubblico in piedi ad applaudire commosso.

“Albanaia”, da un romanzo di Augusto Bianchi Rizzi, con Tommaso Amadio e il Coro ANA di Milano. Regia (mise en espace) di Bruno Fornasari, al teatro Filodrammatici, Via Filodrammatici 1, Milano – Repliche a domenica fino al 1 febbraio.

Il rinnovamento del teatro d’Opera lo si deve anche ai grandi registi, vedi: “Die Soldaten”, con la regia di Alvis Hermanis

Bisicchia soldatenMILANO, mercoledì 21 gennaio  ♦  
(di Andrea Bisicchia) Dopo la chiara recensione di Carla Maria Casanova (v. domenica 18 gennaio), “Die Soldaten” di Zimmermann, visto alla Scala, trattandosi di un capolavoro, merita un secondo intervento, non certo di carattere musicologico, bensì scenico, dato che la regia, affidata ad Alvis Ermanis, risulta una componente decisiva per esaltarne la mirabile composizione. Ciò che colpisce, a sipario aperto, è la tripartizione dello spazio, quello della camerata, quello dell’addestramento dei cavalli che diventa anche luogo di educazione al trotto per signore e signorine, quello della famiglia borghese di Maria, la protagonista  che subisce una duplice violenza.
Gli spazi inventati da Hermanis sono anche spazi della mente, in particolare quella dei soldati, ai quali, nell’epoca in cui fu scritto il testo da Lenz, era vietato di prendere moglie, avendo prestato giuramento di vivere in castità. La loro devozione era rivolta solo alla patria e non verso una possibile donna da amare, tanto che il noto Idealismo doveva dare più spazio all’ideologia militaresca, piuttosto che alla passione e ai sentimenti.
Il regista ha cercato di visualizzare questi conflitti, di dare dei segni forti, utilizzando linguaggi diversi, che vanno dal dramma romantico a quello naturalista,dal teatro d’ombra all’espressionismo, intervenendo sulla psiche dei protagonisti,sulle ragioni del loro agire, ricorrendo a proiezioni di immagini di nudo femminile, con riferimenti ai bordelli d’epoca, ma anche ai sogni erotici dei soldati. L’eros assume forme diverse, quelle dello stupro,dell’autoerotismo, dell’onanismo, della libidine. Il bisogno d’amare si trasforma in incubi, deliri o sogni erotici. Hermanis tratta questa materia con pudicizia, senza alcuna volgarità, evita, sapientemente, le pacchianerie e le grossolanità di certe riscritture, che tali non sono. Ogni suo intervento è meditato, rigoroso, non si sovrappone né ai cantanti, né alla concertazione, anzi la sua regia è capace di armonizzare il tutto, come accade, all’inizio del secondo atto, quando gli attori-cantanti prendono il posto in scena, proprio come gli orchestrali nella buca. I cavalli veri, le balle di paglia fanno pensare a un iperrealismo che giustifica la caratterizzazione del coro che interpreta i soldati, intento ad azioni militaresche come il bere, il giocare, il pulire gli stivali, il ballare tra gli uomini, il tagliare i capelli, il sesso onirico.
Hermanis non tralascia nulla, dai particolari perviene all’universale.
Tutto questo per dire che un grande spettacolo, anche nel teatro d’Opera, deve molto al regista, creatore di due drammaturgie, quella della riduzione del testo e quella della scrittura scenica, le cui dinamiche inventive, quando sono supportate dal rigore filologico, non presuppongono soltanto il testo, ma lo riproducono, lo “riscrivono”,attraverso l’articolazione degli spazi, degli aspetti visivi, dello scambio che riescono a realizzare tra scena e platea, tanto che, spesso, il nome del regista assume una particolare autonomia. Per farmi capire, ormai si è soliti dire, per esempio, “Il don Giovanni” o “Così fan tutte” di Strehler, “L’incoronazione di Poppea” di Ronconi o quella di Bob Wilson che, fra non molto, vedremo alla Scala.

Corrado d’Elia difende la sua “Locandiera” dopo la nostra recensione e i successivi interventi su Facebook

c.d'eliaFACEBOOK, lunedì 19 gennaio
(di Corrado d’Elia) Cari amici, questa conversazione è purtroppo tristemente patetica…. una “recensione” (???) improvvida e sguaiata è non solo dibattuta e “seguita con interesse” (vedi il mio ormai ex amico Umberto Ceriani), ma anche “solonizzata” da chi più volte ha da ridire sul mio lavoro (leggasi il fantasmino LU che si nasconde dietro un account che evidentemente pensa la metta al riparo da critiche e dibattiti più seri). La questione è patetica perchè si giudica aspramente quello che non si è visto… e da un’ipotesi si traggono conclusioni astruse e senza costrutto… quando si evocano i “tempi migliori” o il “si stava meglio quando si stava peggio” vuol dire una sola cosa… si è vecchi … e ancora di più… non si vede più con occhi nuovi il mondo… In una parola si è patetici… Buoni per farsi ridere dietro … il teatro è adesso… è oggi …. con i suoi moti, le sue tempeste, i suoi scardinamenti interiori, le sue pulsioni che traggono vita dall’oggi … Riprendo Locandiera per la quarta volta a Milano in sette anni … Lo spettacolo è tutto esaurito non perché il mondo va alla rovescia, ma perché forse, interpreto, insieme ai miei attori, una Koinè, la stessa lingua della gente che incontro per strada…. Prima di giudicare il lavoro mio e dei miei attori che voglio nominare tutti, venite a vedere… seguiteci nei nostri percorsi, e non fate i vecchi censori del nulla che si ergono su una collina su cui fanno anche fatica a salire…. Allego per completezza di informazione breve rassegna stampa degli anni precedenti… quella nuova la trovate sul mio profilo… Locandiera con Monica Faggiani, Alessandro Castellucci, Andrea Tibaldi, La Gustavo La Volpe, Marco Brambilla, Monica FaggianiTino Danesi…. Sic et simpliciter…

DALLA RASSEGNA STAMPA

“Uno spettacolo coinvolgente e divertente…. d’Elia ben restituisce la «maniera» del Settecento (Marta Calcagno, “Il Giornale”) “Una versione che ammalia gli spettatori con la sua vitalità e la sua carica energica.” (Veronica Pozzi, “La Provincia di Sondrio) “Corrado d’Elia gioca con la sua Locandiera, come la Locandiera gioca con gli uomini… Un allestimento divertente, vivace, dal ritmo incalzante e dai colori sgargianti. Sinuosa, ironica, ridanciana, Monica Faggiani è una pupa femminile e maliziosa. … Un’ora e quaranta di coinvolgimento e intelligenza ….” (Fabienne Agliardi, Teatro.it) “Un Goldoni scacciapensieri per un gruppo di attori indiavolati tra cui spicca Monica Faggiani.” (Claudia Cannella, “Vivi Milano”) “Nel segno di un teatro agile e dichiaratamente pop, lo spettacolo migra dal Settecento originale a un’ambientazione più contemporanea, dominata da plastica e colori sgargianti dentro un gioco tutto malizia di dialoghi brillanti e ritmi veloci.” (Sara Chappori, “La Repubblica”) “È una Locandiera comica, ricca di energia, d’emozione e di ritmo, di atmosfere e scambi vivaci come una slapstick comedy all’americana: il prezioso ed aspettato incontro tra un grande testo e un regista dal personalissimo ed incisivo punto di vista.” (Paolo Redaelli, “La Provincia di Sondrio”) “Divertente e a tratti irresistibile remix di un classico. Mirandolina è una pop star sexy e provocante che seduce fan impazziti. Attorno a lei si muove, fra inchini diffusi, smorfie e gestualità assortite, una compagnia di ottimi interpreti e caratteristi.” (Milanomilano.eu) “Applauditissimi gli attori, che si inseriscono alla perfezione nella pièce, recitando con ritmo serrato e molta brillantezza. Fra tutti emerge una seducente, moderna e bravissima Mirandolina, interpretata da una Monica Faggiani in grande spolvero.” (Mauro Lupoli, Teatroteatro.it) “Senza orpelli, leggera e frizzante, piena d’inventiva come il secolo dei Lumi in cui nacque. […] una commedia vicino alla pop art.” (E. Gar., “Vivi Milano”) “Scoppiettante la commedia goldoniana di Corrado d’Elia che, a distanza di oltre 200 anni, rimane attuale. […] d’Elia emerge, all’interno del suo cast, per ritmo e mimica. […] Applausi scroscianti al termine dello spettacolo. […] bisogna riconoscere l’abilità di d’Elia nel portare sulla scena un testo classico conosciuto dai più e, per questo, più difficile da riadattare in chiave moderna.” (Clara Castoldi, “La Provincia di Sondrio”) “Un classico goldoniano rivisto in chiave luccicante, colorata e ritmica, con una Mirandolina indimenticabile…. Strabiliante e coinvolgente, originale e del tutto rinnovato, colorato e ritmico. Corrado d’Elia allestisce una versione post-moderna della celebre Locandiera. Vedere lo spettacolo equivale a rimanere sconvolti dalla concretezza di un testo scritto a metà Settecento, il quale, inserito in una cornice scrostata dai vecchi stereotipi manieristi che per due secoli hanno intaccato le messe in scena del grande riformatore teatrale, ne amplia il respiro ed il messaggio. Alcuni stratagemmi scenici sono di chiara e indovinata derivazione cinematografica. … la Mirandolina interpretata dalla sprizzante Monica Faggiani diviene simbolo e modello estremo e ancor più sensuale di femminilità….” (Stefano Vanelli, TeatriMilano.it)

 

Bel canto italiano e valzer viennesi, due concerti di Capodanno a confronto: la condanna del provincialismo

Daniel Harding alla Fenice

Daniel Harding alla Fenice

MILANO, giovedì 1 gennaio 2015   
(di Paolo A. Paganini) Vuoi vedere che Matteo Salvini ha ragione? Vuoi vedere che non siamo fatti per l’Europa?
L’inizio dell’anno, da una vita, è sempre stato celebrato e solennizzato con il classico concerto di Capodanno del Wiener Philarmoniker (oggi diffuso in 90 Paesi), e con il suo immancabile e trascinante finale in sempiterna laude della “Radetzky march” con pubblico accompagnamento di mani. Poi, da qualche anno, Venezia ha voluto competere con Vienna, opponendo all’aulica classicità del valzer viennese il bel canto italiano. Di per sè, l’idea era buona. Noi ci siamo sempre fermati all’idea.
Da un punto di vista pratico, impossibile opporre il nostro geniale pressappochismo, la nostra estemporanea creatività al rigore, alla severità, alla disciplina asburgica. Un’ulteriore prova è stata dunque fornita da quest’ultimo concerto di Capodanno.
Comincia il Teatro alla Fenice di Venezia, sul podio Daniel Harding. RAI 1, ore 12.30, s’è assistito al più sconcertante spettacolo rossiniano, pucciniano etcetera, interessante, sì, ma di una così scarsa professionalità formale (sottolineiamo formale) come mai ci era capitato di vedere.
Qualche considerazione.
Nemmeno nella più sproveduta provincia, durante uno spettacolo, si lascia in piena luce sia la platea sia il palcoscenico. Il luogo deputato del teatro è dove sta l’attore, a meno che non si voglia privilegiare l’esibizionismo di dame ingioiellate e signori più o meno inamidati. E poi, cos’è questo ormai ricorrente vizio registico di voler sempre mettere del proprio anche quando non ce n’è di bisogno. Così si assiste a Mimì che entra cantando dal fondo dell’orchestra per raggiungere sotto podio l’amato bene, Rodolfo, e poi andarsene entrambi alla fine, sempre cantando, con voci a sfumare fuori orchestra, come mai s’era visto in un concerto di canto. E poi ancora: si sentiva proprio la necessità di evocare l’eduardiana “Napoli milionaria” musicata da Nino Rota, del quale (alla Fenice!) viene eseguito il pur curioso boogie-woogie in chiave gershwiniana? E, in ultimo, il balletto della Scala, con un genio della coreografia, tra Palazzo Ducale e campielli goldoniani, come si può lontanamente immaginare che termini con l’esecuzione d’un can-can (da Ponchielli) con la prima ballerina in tanga, a mostrar le pur belle gambe e chiappe! E intanto il coro esibiva ineleganti coccarde da uovo di Pasqua, e al trionfo verdiano del “Libiam” le danzatrici di contorno sembravano andare fiere dei loro candidi abiti a balze decrescenti come tante torte nuziali a più strati!
foto_Zubin-Mehta_Concertio-di-Capodanno-2E così, tra qualche sbuffo e un mortificato amor di patria, siamo passati, un’ora dopo, alle 14.30, RAI 2, al Wiener Philarmoniker, dove un virtuosistico Zubin Mehta, senza spartito, s’è immerso in un repertorio tutto straussiano, davanti a un foltissimo, rispettoso, partecipe pubblico non solo viennese, nella penombra della bellissima sala d’ori e stucchi. Una gioia dello spirito e degli occhi. Anche perché, al trionfo cromatico dell’addobbo floreale (un’esplosione di rossi e di gialli, di rose garofani orchidee), omaggio del Comune di Vienna (ohibò, non ci sono sempre stati i garofani di Sanremo?), facevano riscontro le palpabili atmosfere della severità, della disciplina, dell’eleganza formale, della compostezza. E il corpo di ballo, con delle coreografie in omaggio ai 650 anni dell’Università viennese, la più antica d’Austria, nella policromia delle vesti femminili, sul rosso, bianco, nero, si esibiva con giovanile ironia e grazia muliebre, senza alcun bisogno di mostrare gambe e glutei (grande merito coreografico del milanese Davide Bombana). Il tutto esprimendo il piacere esaltante di una universalità senza più confini…
Per questo abbiamo richiamato, all’inizio, le assurde, anacronistiche sparate antieuropeistiche di Salvini. Soprattutto perché l’aristocratica suggestione di Venezia, e non solo, le glorie antiche e rinascimentali di Roma, la stupenda umanità del popolo napoletano, le trionfali bellezze sicule di una perenne ellenicità, e tutto il resto dell’italica bellezza, e poi la nostra letteratura, l’architettura, la pittura, la musica, tutti i frutti dell’italico ingegno, non meritano di essere ghettizzati nel nostro atavico provincialismo.