(di Andrea Bisicchia) Tra il periodo umanistico e quello rinascimentale si assiste a una fioritura di trattati che riguardano lo spazio della rappresentazione, soprattutto dopo la pubblicazione in italiano del “ De architettura” di Vitruvio ad opera del Cesariano, noto anche a Leon Battista Alberti. Il trattato, che si apriva alla scoperta del mondo classico, aveva, non solo finalità di documentazione, ma anche di studio. C’è da dire che il teatro vantava già quella che considero una vera e propria avanguardia svoltasi durante il Medio Evo, quando, con la Lauda drammatica, la Sacra Rappresentazione, i Misteri, aveva imposto una nuova lingua, il volgare, e una spazialità nuda, priva di luoghi deputati e di quegli elementi architettonici dei quali i trattatisti andranno in cerca.
La figura di Giulio Camillo (1480-1544), si inserisce in questo ambito di ricerca insieme ad alcuni compagni di strada come Pietro Tomai, Cesare Cesariano, Sebastiano Serlio, Pellegrino Prisciano, Giraldi Cinthio, Daniele Barbaro, Angelo Ingegneri, tutti attenti a coniugare lo studio della memoria con quello dell’edificio, della struttura scenica con l’attività letteraria anzi, per alcuni di questi, la ricerca di tipo spaziale e architettonico era improntata a uno spazio pratico, mentre quella di Giulio Camillo non sfuggiva ai canoni idealistici, suffragati da un continuo ricorso all’allegorismo, reso necessario dai persistenti riferimenti ai personaggi mitologici che popolano il suo trattato: “L’idea del theatro”, pubblicato da Adelphi, a cura di Lina Bolzoni, profonda conoscitrice dell’autore e del trattato della memoria, accompagnata da altri due scritti: “L’idea dell’eloquenza” e il “De transmutatione”.
L’autore aveva in mente la costruzione di un anfiteatro in legno, con al centro il palco, da cui dipartivano sette gradini, ognuno dei quali era contrassegnato da immagini diverse con i nomi scritti in alto: Primo grado, Il convivio, Le Gorgoni, Pasiphe, Talari, Prometeo, ciascuno di questi era diviso in sette parti che corrispondevano ai sette pianeti: Luna, Mercurio, Marte, Giove, Sole, Saturno, Venere, dalle loro contaminazioni derivavano quarantanove intersezioni, ognuna delle quali, era contrassegnata da un’immagine mnemonica desunta dalla mitologia. Per capirci, il teatro che Camillo immaginava doveva consistere in un edificio della memoria e del sapere universale, ubicato in uno spazio capace di assommare tutte le cose da ricordare, da organizzare secondo le tecniche mnemoniche di allora, tanto che la sua struttura doveva intendersi come una concezione simbolico-sapienziale.
Camillo era amico di Leonardo, Raffaello, Lotto, Bembo, possedeva una cultura enciclopedica. Conosceva perfettamente la Bibbia e Il Nuovo Testamento, le cui storie alternava con quelle mitologiche, al fine di sperimentare una sorta di immaginazione visiva e accedere a un teatro della mente, tanto che la mnemotecnica doveva servire come esplorazione dell’immaginario e del mistero. Egli pensava a un teatro come luogo sacro, capace di comunicare cose eterne. Per raggiungere questi risultati, era, a suo avviso, necessario cambiare la natura stessa del contenitore, mentre il contenuto doveva mirare alle radici metafisiche, a un ordine che riproducesse quello di Dio, che egli riteneva l’autore delle particelle elementari: “Adunque dopo la materia prima non veggiamo che Dio creasse nuova materia, ma della prima formò tutte le cose, le quali noi chiamiamo miste et elementare”(p.176).
Il volume si avvale di un poderoso apparato iconografico che, partendo dal testo, cerca di trovare delle corrispondenze, per immagini, alle teorie di Camillo, dato che non è rimasto nulla dei suoi disegni o dei suoi schizzi.
Giulio Camillo,”L’Idea del theatro”, Adelphi Edizioni – 2015, pp 340, € 70