Eccessi grotteschi, figure monumentali, trionfo delle carni. In un libro le magie alchemiche di Botero. Come una mostra

Botero (1)(di Andrea Bisicchia) Se esistesse un premio Nobel per l’editoria, proporrei l’editore Skira, non solo per la passione, ma anche  per la qualità dei suoi libri d’arte, vedi il recentissimo “Botero,dipinti 1959-2015” di Rudy Chiappini. Se per Botero dipingere è “una professione angosciante”, credo che lo sia anche per l’editore  Skira, soprattutto quando ha in mente di dedicare una monografia all’artista in cui crede, sia che trattasi di un classico che di un moderno, famoso o sconosciuto, ciò che, per lui, conta è il valore artistico che ripaga con la qualità della sua edizione.
Il lettore che sfoglia il volume, dedicato a Botero, crede di trovarsi dinanzi a delle tavolozze pronte per una mostra, grazie alla perfezione dei colori, a una impaginazione studiata per tracciare, cronologicamente, ma anche tematicamente, la vita professionale del pittore. Non per nulla, la produzione dell’artista colombiano (1932), è suddivisa in 13 sezioni tematiche che tracciano un itinerario di ricerca coerente, costruito sulla conoscenza dell’arte classica europea, con predilezione per quella italiana, visti i rimandi coloristici a Giotto e a Piero della Francesca, solo che i modelli vengono riutilizzati nella forma dell’eccesso, tipica di tutte le avanguardie.
L’eccesso, a cui ricorre Botero, non si avvale né di “manifesti” che lo giustifichino, né di ricorsi alla tecnologia, come avviene in tanta arte contemporanea, il suo è un eccesso di tipo formale, nel senso che, proposto un contenuto, lui lo dilata, sia nella forma che nei colori, fino a raggiungere dei risultati sorprendenti, senza cadere nel vizio del meraviglioso, nei momenti  in cui sente il fascino dell’estetica barocca. Come sostiene Rudy Chiappini, a ben guardare, nella pittura di Botero si realizza una specie di “magia alchemica”, che, in fondo, altro non è che padronanza di stile, oltre che di tecnica, semplicemente inconfondibili, per l’utilizzo del grottesco, una specie di esperpento pittorico, e per il ricorso alla deformazione, vedi “Monna Lisa all’età di dodici anni” (1959) o quella del 1977, e ancora “Adamo e Eva” (2005), “La Fornarina” del 2008, per non parlare delle “Nature morte”, delle sue “Madonne con bambino” e del “Christus Patiens”, entrambe del 2000.
La suddivisione che ne fa il curatore aiuta a capire l’utilizzo delle tematiche che vanno dagli antichi maestri a quelli rinascimentali, dai quali eredita l’ideologia sociale, oltre che politica, ma anche alcune forme dell’eccesso michelangiolesco. La struttura del libro è tale che al lettore sembra di assistere a una mostra, se non a una vera e propria rappresentazione. Botero sostiene che l’arte deve piacere, anche se drammatica, un piacere che è, contemporaneamente, estetico ed erotico, vedi “Freschi sposi” e “La notte di nozze”,del 2010. Anche se ci si trova dinanzi a figure monumentali, si percepisce che, dietro di esse, c’è il profumo della carne in attesa di essere posseduta.

Rudy Chiappini: “BOTERO, dipinti 1959-2005”, Skira Editore, 2015, pp. 256, € 75

In ricordo di Manlio Sgalambro, scomodo fustigatore della banalità. E un’opera prima sulle delusioni delle adolescenti

collage libri napolitaniA Napoli, mercoledì 14 ottobre 2015, alle ore 17, nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici in via Monte di Dio 14, si terrà la presentazione del volume Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Manlio Sgalambro, edito da La scuola di Pitagora. Ne discuteranno il filosofo Vincenzo Vitiello, alcuni degli autori: Maurizio Cosentino, docente e storico della filosofia, Massimo Iritano, dottore di ricerca in Filosofia della Religione, Patrizia Trovato, dottore di ricerca in Filosofia e Storia della Filosofia, Antonio Carulli, dottore di ricerca in Filosofia e Storia della Filosofia, Antonio Mocciola, giornalista, e Francesco Iannello, regista. Il volume dà l’avvio alla ricognizione critica della figura di Manlio Sgalambro (Lentini 1924 – Catania 2014). Se la filosofia del Novecento italiano fu crociana, marxista ed heideggeriana, Sgalambro la attraversò come un alieno. Alla filosofia contemporanea egli oppose la lucidità del pessimismo. Fustigatore della banalità, Sgalambro ha sempre fatto mostra di una singolare forma di comprensione superiore, denunciando i tratti di un universo in rapido peggioramento. Misconosciuto e inviso all’Accademia, il cui genio da essa fu volutamente oscurato, divenne, sempre, a dispetto di questa, molto noto al grande pubblico come autore di testi di canzoni, libretti d’opera e sceneggiature per Franco Battiato.
Caro Misantropo. Saggi e testimonianze per Manlio Sgalambro”, di Maurizio Cosentino, Massimo Iritano, Patrizia Trovato, Antonio Carulli, Antonio Mocciola e Francesco Iannello – La Scuola di Pitagore Editrice, 2015 – Copertina di Franco Battiato – pp 336 – € 23

 LE DELUSIONI AMOROSE DELLE ADOLESCENTI? “TUTTA COLPA DI WALT DISNEY”Gran parte delle ragazze del nuovo secolo in età è stata spesso parcheggiata davanti a una tv che propinava loro videocassette targate Disney. Quello che le mamme non potevano sapere era che stavano sottoponendo le proprie figlie ad un trattamento intensivo d’illusioni, e il cervello spugna, caratteristica di quella età registrava ogni minimo particolare di quel che scorreva in video. Così, dopo aver visionato l’intera collana dei “classici” Disney, le ragazze si sono forse illuse di essere tutte principesse che, una volta scovate e salvate da un bellissimo principe azzurro, avrebbero vissuto in un fantasmagorico castello, felici e contente. La colpa delle continue delusioni amorose di queste povere fanciulle è tutta di Walt Disney? Così, con semplice ironia, Federica Buonocore, di Atrani, raccoglie le favole di Cenerentola, Biancaneve e i sette nani, La Bella e la Bestia, La bella addormentata nel bosco, La Sirenetta, in “Tutta colpa di Walt Disney”, edito da Terra del Sole, smontandole pezzo per pezzo, con buona pace del loro creatore.“… Non sto dicendo che non credo nelle favole” – scrive nella prefazione al libro – “anzi, sono ben felice di credere che Peter Pan voli a difendere l’esistenza delle fate, ma tutte queste incredibili storie d’amore, no, non esistono. Non esiste che tu sia così perfetta dal mattino fino a sera, o che qualcuno arrivi con una bacchetta magica a regalarti il vestito più bello della tua vita! E’ un mondo di stereotipi quello della Disney, principesse orfane, bellissime, sconfiggono la matrigna grazie all’aiuto di bestioline varie e, in omaggio, ricevono anche un principe. Stupidaggini!
Tutta colpa di Walt Disney, opera prima di Federica Buonocore. Copertina realizzata di Maria Chiara Molinaroli. Edizioni Terra del Sole.

Per quindici anni o si era Gobbi o si era Dritti, cioè satirici molestatori all’italiana. Complice la radio dal 1951 al 1965

cop andrea(di Andrea Bisicchia) Esiste un problema annoso che riguarda le origini della comicità italiana che, tralasciando le forme latine dell’Atellana e della Satura Lanx, si fanno risalire alla Commedia dell’Arte, vero e proprio laboratorio di tutti i generi comici che troveremo sviluppati nella comicità italiana ed europea; mi riferisco alla Farsa, al Grottesco, alla Satira, alla Parodia. Certamente i generi prettamente italiani sono la Farsa, di origine napoletana, l’Umorismo, teorizzato da Pirandello, il Grottesco, come movimento teatrale. Altri generi si svilupparono in Francia (il Vaudeville), in Inghilterra (la Satira ironica), la Germania (il Cabaret). Quando si arriva al secondo Novecento, questi generi vengono sottoposti a una serie di interventi combinatori che ne estendono le forme e i contenuti.
Eva Marinai si è cimentata con la “satira molesta” che si è sviluppata in Italia nel quindicennio 1951-1965, le cui origini sono di fattura radiofonica. Del titolo del volume, “Gobbi, Dritti e la satira molesta. Copioni di voci, immagini di scena”, ci incuriosisce la parola “molesta”, perché l’autrice tende a differenziare la satira italiana da quella amara o maligna di derivazione inglese, per sottolineare lo spirito fastidioso, inopportuno, disturbatore di alcuni gruppi che l’avevano indirizzata verso la vita pubblica, con lo scopo di “molestarla” e, quindi, per evidenziare il senso del ridicolo che caratterizza i comportamenti di certi politici.
La satira, in generale, richiede intelligenza e preparazione, ebbene quella dei Gobbi, di cui facevano parte Franca Valeri, Vittorio Caprioli, Emilio Bonucci, e quella dei Dritti, di cui facevano parte, Franco Parenti, Dario Fo, Giustino Durano, di intelligenza e preparazione ne avevano fin troppa, che accompagnavano, però, con una leggerezza, ben diversa da quella della tradizione satirica che faceva capo a Petrolini, Dapporto, Macario, meno impegnata politicamente.
Con i Gobbi e i Dritti, si assiste a un vero e proprio rovesciamento dei canoni, i cui codici performativi, trovano nella radio il luogo e il mezzo, attraverso i quali, sperimentarli. Personaggi come La Signorina Snob della Valeri, Anacleto il gasista, di Parenti, L’ Impiegato Bertoluzzi di Fo, diventano dei prototipi, dei modelli, ai quali fanno riferimento i comici degli anni Settanta-Ottanta che, sulla loro scia, daranno impulso a un cabaret diverso, non certo quello volgare e qualunquista di oggi.
Eva Marinai, lavorando su materiali di archivio, in particolare quello di Fo-Rame, è venuta in possesso di una molteplicità di testi, molti dei quali veri e propri sketch, magari senza trame definitive, ma con personaggi ben caratterizzati, che le hanno permesso una riflessione storico-teorica sull’argomento e ne ha riportato un florilegio mettendo il lettore nella possibilità di conoscerli de visu e non più per sentito dire, ma soprattutto ha tracciato una via italiana al cabaret, sfatando la convinzione che questa non esistesse. Il motivo di un simile scetticismo lo si trova sintetizzato in una battuta di Umberto Eco: “Il cabaret vive parlando male dell’autorità e l’autorità in Italia non si tocca”. Il volume, preceduto da una illuminata introduzione di Anna Barsotti, che di comicità se ne intende, visti i suoi studi sul Grottesco, Eduardo, Fo, affronta argomenti contigui che riguardano la censura, gli spazi alternativi e si conclude con un capitolo dedicato alla Borsa di Arlecchino di Genova, dove Aldo Trionfo lanciò un giovane attore, già molto colto, dalla terminologia forbita, come Paolo Poli.

Eva Marinai: “Gobbi, Dritti e la satira molesta. Copioni di voci, immagini di scena 1951-1967”, Ed. ETS, 2007, pp 340, € 20

Un’utile (necessaria?) metodologia: accostarsi due volte ai classici, saggi o spettacoli che siano. Loraux, per esempio

COLLAGE NICOLE LORAUX(di Andrea Bisicchia) Ho già indicato, a proposito di “Morte della tragedia” di Steiner, la “seconda lettura” come metodo critico, convinto che essa contribuisca meglio a capire il pensiero di un autore. Consiglierei anche la “seconda visione” di uno spettacolo, il cui linguaggio scenico, per la sua complessità, non sempre può essere recepito del tutto durante la prima visione. Ciò che propongo, quindi, è una metodologia di approccio ai testi o alle rappresentazioni che dia maggiore credibilità all’esercizio critico, oltre che alla sua necessità, specie quando questo ha a che fare con dei classici della saggistica o della messinscena.
Con un simile spirito ho deciso di rileggere un testo noto, non solo agli studiosi, qual è “La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca” di Nicole Loraux, sia per ricordare una antichista prematuramente scomparsa, sia per le tesi controcorrente che esprime.
Per esempio, in “La città divisa”, Neri Pozza editore, la Loraux aveva sostenuto la tesi, apparentemente paradossale, che, a fondare la città greca, non fossero né la libertà, né la comunità, bensì la divisione, la guerra intestina, il famoso “Polemos” eracliteo, che tendeva all’unità perduta, attraverso lo scontro. Questa dovrebbe essere, in fondo, la peculiarità della politica, quella per la quale, il conflitto non dovrebbe essere banale, bensì un atto di pensiero e di consapevolezza e, quindi, di riflessione critica.
In “La voce addolorata”, Nicole Loraux espone ancora una tesi controcorrente, poiché afferma, dimostrandolo, che la tragedia greca non è la rappresentazione della politica del tempo, quanto quella dell’antipolitica che si evidenzia nel canto luttuoso che, in molti casi, si trasforma in Oratorio. Se l’essenza della politica è il conflitto, l’essenza del tragico è “il legame che divide”, non proprio attraverso il conflitto, ma attraverso il lutto e la voluttà delle lacrime, tanto che il fascino tragico va recepito nel lamento che è una forma alta di teatralità e che sta a base della stessa origine del genere tragico.
Se ci rapportiamo alle origini del teatro in lingua volgare, come non pensare al planctus e alla conseguente forza drammatica presente nelle Laudi e nelle Rappresentazioni sacre. L’autrice, a conferma della sua tesi, propone due tragedie emblematiche: “La Presa di Mileto”, di Frinico, e “I Persiani” di Eschilo, ricordando l’atteggiamento del pubblico che pianse esageratamente dinanzi alla rappresentazione dell’evento storico e che, proprio nel pianto, ricercò la catarsi, mentre quello che assistette alla rappresentazione dei “Persiani” apparve meno coinvolto, perché era cambiata la vittoria (questa volta in favore dei greci) e, quindi, era cambiato il lutto.
Frinico fu osteggiato e censurato, Eschilo osannato.
È ancora il lutto a essere protagonista di “Le Troiane”, o di “Le Supplici”, un lutto, che si consuma sulla scena e non nella città, dato che si è coinvolti in teatro rispettando la modalità della finzione. Insomma, ciò che l’autrice intende privilegiare, nella voce addolorata, non è tanto l’ascolto rispetto alla visione, quanto il canto rispetto al discorso(Logos), ovvero il carattere lirico della tragedia rispetto a quello eroico o politico, grazie proprio alla qualità musicale della lamentazione.

Nicole Loraux, “LA VOCE ADDOLORATA. Saggio sulla tragedia greca” – Einaudi, 2001 –  pp 180 – € 17,50