Dieci anni di indagini per capire sempre più il fluido mondo dell’attuale teatro rispetto a quello paludoso del passato

copertina pratiche teatro(di Andrea Bisicchia) Leggendo il libro di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino, “Le buone pratiche del teatro”, Franco Angeli editore, non si possono non fare alcune riflessioni circa lo stato di salute della scena italiana e dello spettacolo dal vivo che, per tanto tempo, è vissuto di teorizzazioni che hanno permesso a studiosi, a critici, a registi di porre le basi per un approccio diverso alla cultura dello spettacolo. Gli studi accademici da tempo hanno abbandonato la metodologia storicistica, utilizzando discipline diverse che, negli anni, hanno coinvolto la linguistica, lo strutturalismo, la sociologia, l’antropologia, alimentando un lavoro sempre più specialistico.
C’è stato un momento in cui la crisi del teatro ha permesso lo svilupparsi di questa tipologia di approccio, tanto che gli studi scientifici hanno soppiantato quelli testuali e quelli della drammaturgia a essi applicata. Oggi, che le aree si sono moltiplicate, le teorizzazioni non sono più legate alla scrittura, bensì al linguaggio scenico, conseguente al lavoro di drammaturgia. Discipline come la costumistica, la video scrittura, l’attrezzistica, l’oggettistica, l’organizzazione, ultimamente, si sono imposte per capire meglio la vita di uno spettacolo, che ritengo sempre autonoma rispetto a quella del testo.
Anche la filiera del teatro si è moltiplicata, pur attraversando le difficoltà delle strettoie normative e legislative. Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino hanno raccolto dieci anni di indagini, fatte sul campo, nella forma più democratica possibile, si sono mossi come due monaci nei vari santuari del teatro italiano, selezionando, catalogando, schedando tutto il possibile e offrendo al lettore ben centoquaranta “pratiche”, creando una sorta di banca delle idee, a testimonianza di quanto sia “liquida” la pratica teatrale, scossa da continue emergenze, da crisi economiche, dalla distanza tra scena e società e dalla necessità di rinnovare la forma stessa di rappresentazione, grazie alle innovazioni apportate dal digitale in tutti gli snodi della filiera.
I due autori, di riconosciuta competenza, hanno interpellato decine e decine di operatori, usufruendo di collaboratori giovani e meno giovani, e hanno, alla fine, indicato delle contromisure che vanno dalle fusioni alle sinergie, alle residenze, alle multisale, insomma a una specie di teatro comunitario che è ben diverso da quello delle Cooperative degli anni Settanta e che dovrebbe andare controcorrente nei confronti di quello dell’autoconservazione e dell’autoreferenzialità, ripercorrendo la storia del teatro che c’era, per pervenire  a quella che c’è, in una forma di opposizione al sistema del teatro parassitario, a vantaggio di uno capace di reagire alla mummificazione della cultura, con le sue normative paludose, ritenute la vera concausa della deriva del teatro italiano. Le buone pratiche invocano nuove leggi e, soprattutto, tanta trasparenza.
Il volume arriva fino al 2014, nel frattempo, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ha emanato le nuove tappe, ovvero le nuove filiere, accompagnate dai recenti contributi, sia per i Teatri Nazionali che per i Teatri di Rilevante interesse culturale, sintetizzando alcune scelte in tre “Sottoinsiemi” che, in un certo senso, hanno accontentato molti e sconcertato altrettanti.

Mimma Gallina, Oliviero Ponte di Pino, “LE BUONE PRATICHE DEL TEATRO”, Franco Angeli editore, 2014, pp 260, €28,50.

 

Un rito di iniziazione? Nasce dal desiderio di tramutarsi in un altro. Accade nelle tribù, nella mafia. E perfino nel teatro

CSO-35-Allovio-S-800x800(di Andrea Bisicchia) I riti di iniziazione appartengono a culture e religioni diverse, tanto che, spesso, hanno a che fare col sacro e rimangono tali finché non vengono assoggettati a culture desacralizzate, a causa delle quali, sono destinate o a sparire o a mutare concettualmente. Gli antropologi, da tempo, hanno affrontato questo trapasso e si sono impegnati a descrivercene le trasformazioni, convinti che, in ogni rito di iniziazione, il neofita tenda a diventare un altro. Questo accade nelle famiglie che vivono ancora in una situazione tribale, ma anche nelle famiglie mafiose e, aggiungo io, in quelle teatrali.
Partecipare a un lungo laboratorio teatrale, tenuto da un grande maestro, è come partecipare a un vero e proprio rito di iniziazione, tanto che il giovane attore neofita, alla fine, ne esce “mutato”.
Stefano Allovio, docente di antropologia culturale e antropologia sociale, ha scritto, per Cortina, “Riti di iniziazione. Antropologi,stoici e finti immortali”, nel quale alterna le due competenze, quella di antropologo puro e quella di antropologo sociale, cercando di estendere le sue scoperte all’oggi, attraverso comparazioni tra le varie culture e le conseguenti trasformazioni. I riti di iniziazione sono concepiti come riti di trasformazione, ogni società ne contempla uno proprio che, spesso, riesce a contagiare quello di chi sta molto vicino.
Questo accade sia in alcune tribù della Nuova Guinea, del Sud Africa, del Nord America, sia in società meglio strutturate. In tutte, però, qualsiasi rito di iniziazione contempla un processo di rinnovamento, non solo per chi è sottoposto, ma anche per chi si sottopone, tanto che il rapporto tra il neofita e il Maestro diventa un rapporto di interscambio, nel senso che colui che sottopone mette il suo sapere al servizio del sottoposto, creando una specie di simbiosi. Allovio arriva a ipotizzare l’idea che, persino gli antropologi, durante il lavoro di ricerca, percepiscano un rapporto iniziatico alla loro stessa professione. L’autore cita più volte Turner e la sua teoria dei “riti di passaggio”, per evidenziare il potere trasformativo del processo iniziatico, grazie a una frequentazione continua del “campo” di ricerca che vuole dire anche immersione in una scatola di attrezzi concettuali ai quali si deve il rito relazionale.
Sempre per rimanere nel “campo” teatrale, l’attrezzeria, curata dal direttore di scena, ha una sua concettualità, essendo quella che permette, allo spazio scenico, di sottoporsi a una particolare impaginazione. Allo stesso modo, l’esperienza corporea che, nel rito di iniziazione, è vissuta sotto forma di violenza, di dolore, di sofferenza, diventa, durante la preparazione di uno spettacolo, espressione corporea dell’attore, ovvero il mezzo per una immersione iniziatica all’interno del personaggio. Il corpo, del resto, cambia fisicamente ed emozionalmente in tutti i riti di iniziazione, libero di plasmarsi a seconda delle circostanze e delle resistenze al dolore, nel quale ritrova un “potere santificante”, perché, come osserva Durkheim, nel modo con cui l’iniziato sfida il dolore manifesta meglio la sua grandezza che è anche una sfida alla mortalità, in quanto si eleva al di sopra di sé.

Stefano Allovio, “Riti di iniziazione. Antropologi, stoici e finti immortali”, Cortina Editore, 2015, pp.172, € 18

Attimi di Bellezza in un incontro “impossibile” con tre seducenti poetesse, anzi quattro, c’è anche Curzia Ferrari

collage curzia ferrari(di Piero Lotito) Una domanda “impossibile” non può che produrre una risposta “impossibile”, è così? Non sempre, perché il verosimile che a volte ne consegue è uno strumento proprio dell’arte, la cui funzione, sappiamo, è di rappresentare l’emozione del reale, interpretandola e magari sfigurandola.
L’intervista cosiddetta impossibile è un genere (giornalistico o letterario) tutt’altro che ozioso. Spesso, piuttosto, fornisce la giusta chiave – il ferro del professionista – per aprire la porta della conoscenza.
Nelle librerie è stato appena depositato un formidabile grimaldello, che ci permette nientemeno di aprire (e scoprire) l’anima di tre grandissime poetesse russe, tre stelle alte e irraggiungibili (e sta qui l’efficacia di uno strumento come l’“intervista impossibile”, che riesce appunto ad avvicinare i mondi più remoti): Anna Achmàtova, Marina Cvetaeva e Mat’ Marija Skobzova. Chi manovra il tutto è una quarta donna, una quarta poetessa: Curzia Ferrari, la cui familiarità con la letteratura russa è nelle sue tante traduzioni e nell’aver avuto a che fare con nomi quali Esenin, Gorkij, Majakovskij (decisiva per la scoperta di quest’ultima furia poetica, la biografia Majakovskij: la storia, il romanzo, SugarCo 1982). Tradotta a sua volta in una dozzina di Paesi e indicata nelle ultime edizioni tra i più attendibili candidati al Nobel, la Ferrari ha pubblicato con Aragno le raccolte di versi Fondotinta (2007), Lucertola (2010), Pietra (2013), trilogia potente del nostro esistere quotidiano. Ora, dunque, le interviste impossibili di Voglio uno specchio!, edite da Corsiero editore.
Un libro di scavo nell’anima, un libro di sofferenza. Ma anche un libro non difficile. «Si tratta in fondo – dice Curzia Ferrari al cronista – di quattro donne che si parlano, e che hanno in comune un amore smisurato per una terra». La terra russa, crogiolo di straordinarie intensità liriche e narrative, terra drammatica, che forse soltanto i russi – e chi, come la Ferrari, vi si è fatta “trattenere” – sanno e possono raccontare. Intense si dipanano in Voglio uno specchio! le esistenze delle tre grandi indagate, perché così le immaginiamo: sedute l’una accanto all’altra, mentre ascoltano le domande della loro amica investigatrice italiana e, con la voce affabile di chi riempie comunque il vuoto della propria assenza, rispondono sui fatti della poesia, della vita, della Russia, dell’Europa.
Marina Cvetaeva, nata a Mosca nel 1892 e morta suicida (impiccata) a Elabuga nel 1941 «per essersi vista rifiutare un posto da lavapiatti, che le sarebbe servito per mantenere il figlio».
Anna Achmàtova, nata a Bolscioj Fontan (Odessa) nel 1889 e morta nel sanatorio di Domodedovo (Mosca) nel 1966, che inseguiva – e spesso raggiungeva – la perfezione delle parole, e che un giorno confiderà alla stessa Ferrari: «Io penso in versi».
Mat’ Marija Skobzova, nata ad Anapa, sul Mar Nero, nel 1891, morta nel lager di Ravensbrück nel 1945 e proclamata santa nel 2004 dalla Chiesa ortodossa.
Domande, confidenze, ammissioni. In Voglio uno specchio! s’intesse tra le quattro donne una seducente trama di atteggiamenti privati e riferimenti storico-artistici che, via via, rivela nitidamente il progetto di Curzia Ferrari. «Ho cercato me stessa – confessa – in un confronto a quattro voci». E allora noi lettori sappiamo della lettera che la Cvetaeva scrisse all’Achmàtova alla morte del «cigno sublime» Aleksandr Blok, con i versi a lui dedicati: «Il tuo nome è una rondine nella mano, / il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua…». E di Anna Achmàtova («Un’intervista solo a metà “impossibile” – svela Ferrari –, perché Achmàtova l’ho conosciuta. Io, giovane, piccola, intimorita. Lei, anziana, grande, sovrastante. Riverita da tutti. Fu in Sicilia, nel 1964…), dell’Achmàtova scopriamo i gesti che ne sottolineano la fede religiosa, così rivelati, a più di cinquant’anni, nella sua “impossibile” intervista: «Mica per niente sono andata a Siracusa a comprare candele votive! Mica per niente ho sempre portato un rosario al collo e tenuto bene in vista la Bibbia sul comodino – quando ebbi un comodino, naturalmente! Mica per niente nella borsa, in una busta, mi ha seguito dovunque la mia icona personale… E delle icone ho scritto più volte: “Anche nel buio più fondo / con esse la vita riluce…”». E veniamo a conoscenza dello sgomento della Skobzova – lei, futura santa – alla morte di Esenin: «Quando si uccise Esenin, il più russo di tutti i poeti russi, lui – che ha sempre mantenuto la mente sensibile alla santa eredità della nostra stirpe e alla saggezza della natura – ebbi una crisi di pianto che durò più giorni… Perché qualcuno non ha tolto il cappio dal suo collo?».
Della stessa “intervistatrice” veniamo infine a sapere delle «molte volte» che ha pensato di scrivere una biografia di Marina Cvetaeva (la prediletta?) e, forse, ricaviamo l’idea di Bellezza attraverso la definizione intensamente attribuita all’Achmàtova: «Il grido del simbolo dell’arte in un mondo che ignora il significato del simbolo», che può indurre ad avvertire «attimi di Bellezza in luoghi assolutamente anonimi, squallidi: una lampada accesa in una stanza dai muri scrostati o in una caverma, può creare una trama di emozioni “perfette” – e quando ci ripensi, capisci che per un attimo hai visto la Bellezza. Mi trovavo in un rifugio antiaereo di Leningrado: … il giallore ondeggiante di una lanterna appesa al gancio del soffitto, il suo ferreo schema a griglia sui volti spauriti della gente, e ombre sinuose dalla calcina rotta – potevo immaginare di trovarmi a una mostra di arte rupestre preistorica… piovevano bombe… la bellezza».
Ma lo specchio, che cosa c’entra lo specchio del titolo in questa polifonia di anime baciate dalla poesia? Curzia Ferrari racconta in prefazione di un suo umile «specchietto da pochi soldi, privo di molatura e incorniciato di plastica celeste», che portava in valigia durante i viaggi col proposito di trovare più avanti «uno specchio non sostenibile alla misura di specchio, capace di rendermi il disordine festoso, talora affannoso del presente, ma che in certi momenti fosse anche un mappamondo predatore…». Un giorno lo trovò. «Lo specchio – scrive – mi venne tra le mani, all’improvviso, in forma di tre immagini femminili fatte parola poetica, un dono che frequentavo da tempo girandoci intorno con la mente del letterato». Le tre immagini più una, schegge di un unico specchio.

Curzia Ferrari, “Voglio uno specchio! Interviste impossibili con Marina Cvetaeva, Anna Achmàtova e Mat’ Marija Skobzova”, Corsiero editore 2015, pp. 174, euro 16,50.

La grande menzogna del capitalismo. Zizek sa riderci su. Ma i problemi poi li sa affrontare con coinvolgente lucidità

collage zizek(di Andrea Bisicchia) Esiste il Paradiso della tecnica, più volte evocato da Emanuele Severino, ed esiste il Paradiso del capitalismo globale, quello che continua a mentire e che ha scelto il mercato e non la tecnica per raggiungere il primato, anche se il primo non può esistere, nelle sue forme cosmopolite, senza l’intervento della seconda.
Slavoj Zizek, nel volume “Problemi in Paradiso, il comunismo dopo la fine della storia”, Ed. Ponte alle Grazie, facendo ricorso a un saggismo apparentemente poco accademico, grazie a “intervalli” costruiti ad hoc, con storielle, aneddoti e persino barzellette, ci introduce in una serie infinita di problematiche che attraversano il moderno e il post moderno con una lucidità che non può non coinvolgere la riflessione del lettore, sballottato da un tema all’altro, ma sempre coinvolto, perché l’autore ha la capacità di farlo sentire protagonista. Quali sono i temi che tratta? L’estremo sviluppo del capitalismo, l’alta produttività, fonte paradossalmente della disoccupazione, il rapporto tra crimine e furto, tra l’universo simbolico dei miti e il conseguente rinnegamento, tra mercificazione di massa e una manipolazione della stessa, tra una società ideale e una ributtante.
Ci si trova dinanzi alla fine della Storia come aveva previsto Fukujama? O dinnanzi a una storicità sospesa, dove le verità simboliche più profonde vengono percepite come ostacolo allo sviluppo? Zizek è un filosofo che non disdegna l’uso di altre discipline, come la sociologia o l’economia, tanto che, nel suo deambulare da un argomento all’altro, come fa Alberto Arbasino quando scrive di letteratura e di musica, si chiede e ci chiede se esista una giustizia sociale, se la crisi economica sia il risultato di speculazioni finanziarie premeditate e se sia più giusto fare circolare il denaro o lasciarlo mummificare. In tutte le crisi, non è certo il denaro che perde valore, bensì la merce, con le conseguenti follie feticistiche.
Le difficoltà che contraddistinguono il capitalismo globale sono dovute all’incapacità o alla non volontà di capire che in una “totalità sociale” i debiti sono irrilevanti, dal momento che l’umanità, nel suo insieme, può soltanto consumare ciò che produce; pertanto la ridistribuzione della merce, nell’ottica del consumo, potrebbe coincidere con la stessa ridistribuzione della ricchezza. Si consuma semplicemente quanto si produce, l’eccesso va al macero, come va al macero la ricchezza che non circola, nel senso che è trattenuta da pochi, producendo l’imbarazzante fallimento delle nazioni. Gli economisti, in coro, hanno fiducia nella ridistribuzione della ricchezza per abbattere il mostro capitalistico, i cui media si danno da fare perché cada su di noi la causa dei problemi che ci affliggono. Come risolverli? Piketty sostiene che non esistono alternative al capitalismo, spetta alla politica costruire una giustizia egualitaria, Sloterdiik aggiunge che il sistema capitalistico va conservato e che la disuguaglianza va mitigata con la distribuzione delle risorse e con “la politica del dono”, ovvero con contributi volontari dei ricchi. Zizek propone il ritorno ai “commons”, ovvero a dei meccanismi efficienti per la gestione dei beni comuni, oggetto di studio del premio Nobel Elinor Ostrom, concepiti come spazio universale dell’umanità, dal quale nessuno dovrebbe essere escluso. Mentre gli economisti si dilettano a cercare, teoricamente, delle soluzioni, i politici, più attenti alla prassi, non riescono ad arginare i gravi buchi economici che, negli anni, hanno saputo accumulare.

Slavoj Zizek, “Problemi in Paradiso, il comunismo dopo la fine della storia”, Ed. Ponte alle Grazie, 2015, pp. 380, € 16