Considerare le scienze religioni naturali? Ma non può esistere una religione senza Dio, obietta Hans Kelsen

collage Kelsen(di Andrea Bisicchia) “Religione secolare”, Cortina Editore, è l’ultimo libro di Hans Kelsen, pubblicato postumo, dopo che l’autore lo aveva ritirato dalle stampe, data la polemica che scaturì in seguito alla lettura del manoscritto, che aveva preso di mira la facilità con cui venivano definite “religioni naturali”, la scienza, la filosofia sociale, la politica moderna, intrise, secondo i sostenitori, di valori assoluti. Kelsen contestava l’uso improprio che veniva fatto del termine “teologia”, applicato alle scienze e ai suoi autori più rappresentativi: Hume, Comte, Marx, Nietzsche, tutti convinti di potere emancipare il pensiero umano nei confronti della teologia.
Egli riteneva che i valori assoluti potevano essere fondati soltanto su una  vera religione, senza la quale, la società e la storia sarebbero risultate prive di significato, dato che sostenere che esista una religione senza Dio non è altro che una contraddizione, se non un paradosso, e che parlare di teologia senza Dio sia alquanto fuorviante, essendo necessario distinguere tra “religione secolare” (non religiosa) e una vera religione costruita sul mistero della fede e sul “segreto”, impenetrabili per qualsiasi scienza. A chi gli obiettava che si trattava di una scorciatoia della modernità, che aveva perso il principio trascendente dell’ordine, permettendo il moltiplicarsi delle religioni naturali e delle loro proposte, egli rispondeva che la divinizzazione dell’umano era frutto di una antica malattia gnostica.
Per arrivare alle sue conclusioni, Kelsen “rilegge” noti classici del pensiero occidentale, partendo da Gioacchino da Fiore e dalla sua teologia della storia e da alcuni filosofi dell’Illuminismo, i primi a credere in una in una religione naturale, avendo sostituito la religione vera, con la morale e la libertà, tra i quali Hume, secondo il quale, la religione cristiana, fondata sulla fede nella Rivelazione, sui miracoli e i prodigi (a suo avviso indimostrabili), non essendo possibile spiegarla empiricamente, non possiede le prove per essere creduta. Solo l’esperienza conferisce autorità, soltanto essa e non la fede, conduce alla verità. Il vero credente, per Hume, è lo scettico filosofico, il quale non nega del tutto l’esistenza della divinità, ma ammette di non essere in grado di comprenderla, convinto che non si possono dare risposte a ciò che trascende la mente umana. Kelsen continua il suo viaggio indagatore addentrandosi nella teoria sociale di Proudhon, nella filosofia positiva di Comte, nell’interpretazione economica della storia di Marx, nell’”Anticristo” di Nietzche. Non tralascia i risultati comparativisti su Fede e Storia di Reinhold Niebuhr, né quelli di Etienne Gilson, per il quale, la storia abbonda di parodie della Città di Dio, dovute al fatto che intendono calarla all’interno del tempo presente,  in modo da sostituire la fede con qualsiasi legame naturale.
La polemica di Kelsen è rivolta contro l’errata interpretazione della filosofia sociale, della scienza e delle politiche moderne, immaginate come nuove religioni, ma che nulla hanno a che fare con la vera religione, auspicando, nel frattempo, un nuovo ideale di fede ad essa connaturato.
“Religione secolare” di Hans Kelsen, Cortina Editore, pp 340 – € 36

Quando la passione si sublima nell’arte e diventa rito, liturgia, religione della bellezza: cioè Van Gogh

collage pistilloMILANO, lunedì 22 settembre
(di Paolo A. Paganini) Non sempre l’ambiguità è negativa. Spesso indica un atteggiamento dell’anima spalancata sull’immaginazione. Prendi il titolo dell’ultimo libriccino di Carmelo Pistillo, eclettico ed inquieto uomo d’arte, di lettere e di spettacolo: “Passione Van Gogh. È ambiguo perché il termine “passione” lo puoi riferire sia allo scrittore (“passione per Van Gogh”), sia al tormentato pittore (“passione di Van Gogh”). Eppure, a fare del sofisma, sta in piedi sia in un senso sia nell’altro. Anche se, a sua volta, il lemma “passione” è un capolavoro di ambiguità, in positivo (spesso) e in negativo (talvolta): si va dalla passione di nostro Signore all’essere schiavo di una passione etcetera.
Ebbene, tutto questo, nel bene e nel male, in un senso o nell’altro o in quant’altri vogliate, si trova nell’operazione Van Gogh di Pistillo, che si snoda su due fronti, uno logico razionale (una stupenda Prefazione dello stesso autore, un commosso trattato sui sucidi nell’arte, angoscioso sciagurato mistero dell’anima umana, pittori poeti ed alienati, da Kirchner a Borromini, da Pavese a Hemingway, da Dino Campana a Nitzsche), e sull’altro fronte, immaginifico e creativo (una concreta allucinata e ben strutturata liturgia scenica sulla passione e morte di Van Gogh).
In Pistillo, la passione (ancora!) per Van Gogh fu all’inizio un sentimento di ammirata esaltazione (1984) e, poi, un’idea fissa, che covò per tredci anni, quando nel 1997 si decise a mettere per iscritto l’eccitazione, la non più trattenibile urgenza dei suoi pensieri. Attaverso i due tempi di un’azione drammaturgica, mette a nudo le ferite dell’anina e della mente di questo mistico della pittura (passò dall’esaltazione di Dio all’esaltazione per il colore), facendo vivere, come spezzoni, come schegge infuocate, gli amori, dolenti e deludenti, Kee, la prostituta Sien, Margot, gli incontri, con il fedele e amoroso fratello Theo e con il collega e antagonista Gauguin. E poi la miserevole vita, i casini e le case di cura, le ferite al corpo, la mano sul fuoco, il taglio dell’orecchio, il colpo di pistola che metterà fine ai suoi tormenti.
Carmelo Pistillo, con una compartecipazione che va oltre la pietas, e che appalesa – forse – dolorosi anfratti della sua stessa anima, traccia, da abile teatrante, un’agile, coinvolgente successione di scene, che, al di là di un sicuro contributo artistico per una maggiore conoscenza di Vincent Van Gogh, esprime anche e soprattutto un atto d’amore per l’arte, il teatro, la poesia. Generosa solitaria “passione”. In questo sciagurato mondo di poveri piccoli uomini feroci.
“Passione Van Gogh”, di Carmelo Pistillo. Postfazione di Virgilio Patarini – Book Time 2014 – pp 76 – € 12.

Il teatro come spazio d’accoglienza e d’integrazione, come sollievo dall’indifferenza di massa e dal dolore

collage garavaglia(di Andrea Bisicchia) Il teatro ha sempre vissuto una strana meteorologia, nel senso che la sua è una storia di continue stagioni, alcune irripetibili, che hanno contribuito a renderlo il mezzo più diretto per intervenire su ciò che è accaduto  durante le molteplici trasformazioni della storia sociale, delle quali è sempre stato il riflesso, oltre che l’immagine storica. Per non dilungarmi sul passato e per evidenziare la sua capacità di ribaltare formule, correnti,  generi, vorrei ricordare le grandi stagioni degli Stabili, delle Cooperative, delle Avanguardie ma, soprattutto, per entrare in argomento, quelle del Teatro Documento, del Teatro dell’Oralità e del Teatro Sociale, sul quale si sono intrattenuti studiosi di antropologia come Meldolesi, Tessari, Bernardi, o studiosi di storiografia come Annamaria Cascetta e Valentina Garavaglia che al teatro post-drammatico ha dedicato un dotto volume, ricco di rimandi bibliografici: “Teatri di confine”, Mimesis editore, uno studio che introduce il lettore nel mondo complesso delle carceri e, in particolare, del carcere di Bollate.
Il confine a cui fa riferimento l’autrice, va inteso come spazio del margine, il cui valore dialettico consiste nella trasformazione, nella crescita, nell’integrazione di chi ha perso la libertà. Si tratta dell’ultima stagione di ricerca, quella che impone il teatro, ancora di più, come servizio pubblico, non concepito, evidentemente, come lo intendeva Paolo Grassi, ma come mezzo per restituire a tutti coloro che vivono l’esperienza della diversità, un margine per l’autocoscienza e per la preparazione alla libertà. Valentina Garavaglia si è avvalsa di contributi di illustri studiosi, delle loro teorizzazioni, quelle che riguardano, in particolare, l’area della Performance e della Comunicazione fisica, per applicarle alla condizione del recluso e di chi opera nella post-drammaturgia, nella linea del riscatto sociale, proprio nel momento in cui la società vede il tracollo della persona (Paul Ricoeur) , travolta dalla indifferenza di massa, teorizzata da Gilles Lipovetsky.
Il teatro rivolgendosi ai luoghi del disagio: carceri, ospedali psichiatrici, periferie urbane, immigrati, diviene spazio di accoglienza, di comunità, luogo per lenire le sofferenze. Come uscirne? Attivandolo sempre più nell’ambito del disagio, non solo con finalità terapeutiche, ma anche professionali. È noto come, all’interno delle carceri, si preparino occasioni professionali di tutti i tipi, il teatro è una di queste, come è accaduto all’ergastolano Aniello Arena, del carcere di Volterra, per il quale Armando Punzo chiede la nomina di Teatro Stabile, rivendicando i successi ottenuti e i progetti futuri. Ipotesi, questa, che aprirebbe un’ulteriore stagione e che metterebbe all’erta altre esperienze professionali , come quella del carcere di Bollate, dentro il quale, il teatro ha scelto di confrontarsi con altre discipline che riguardano le scienze cognitive, neurologiche, sociali che hanno contribuito al tracollo di gran parte dei conflitti socio-relazionali, soprattutto, per i detenuti che hanno fatto del teatro una scelta di vita.
“Teatri di confine. Il postdrammatico al carcere di Bollate”, di Valentina Garavaglia – Edizioni Mimesis – 2014 – pp 266 – Euro 20

 

Oggi i nuovi dei, i magnati, non sono più assetati di sacrifici, ma di ricchezze. E l’economia è diventata teologia

fusaro,collageMARTEDI 2 settembre
(di Andrea Bisicchia) In un recente libro, Emanuele Severino ha proposto una sua teoria sulla fine del capitalismo, sostenendo come l’agire economico fosse stato sostituito dall’agire tecnico-scientifico e che il capitalismo, per sopravvivere al suo declino, abbia avuto bisogno del potere della tecnica che, avendo sostituito le forze della tradizione, come totalitarismo, etica, democrazia, religione, si è imposta come il nuovo “Apparato Supremo”. Diego Fusaro, filosofo della storia presso l’Università San Raffaele, ritorna sull’argomento con “Minima Mercatalia. Filosofia e capitalismo”, edito da Bompiani, parafrasando il noto testo di Adorno: ”Minima moralia” (Einaudi 1954), benché, del filosofo tedesco, non nasconda di preferire alcune indicazioni di “Dialettica negativa” (1970).
Fusaro attraversa la storia delle teorie economiche trattate dai filosofi, da Aristotele (Etica Nicomachea) a Preve (Storia dell’etica). Il volume è preceduto dal saggio di un altro filosofo, Andrea Tagliapietra dal titolo: “Metafisica e apocalittica del denaro”, dove, partendo dal mito di Erittonio, inventore del denaro e del suo uso, arriva fini all’euro, ovvero all’era del capitalismo totalitario. Così, come una volta le divinità erano assetate di sacrifici, oggi, le divinità del Capitale, i grandi magnati della finanza, sono assetate del denaro, tanto che hanno trasformato, come sostiene, del resto, Fusaro, l’economia nella forma compiuta della teologia.
Anche Fusaro parte dal mito, dalla metafisica greca del finito, dell’armonia, quando il capitale era considerato astratto e tutto, nella polis, si svolgeva secondo i canoni del limite e della misura, concepiti come norma sociale, quando il cosmo era proiezione della polis stessa che vedeva nella illimitatezza e nella dismisura la distruzione dell’ordine sociale.  Nell’ “Antigone”, Sofocle accusa il denaro di aver devastato le città e di aver istruito le menti umane a concepire il male e persino il delitto, parole che riecheggiano nel noto monologo di “Timone d’Atene” di Shakespeare, quando Timone, dopo aver diviso le ricchezze con gli amici, diventato povero, è abbandonato da tutti: “Avanti, o dannato metallo, tu prostituta comune dell’umanità, tu che rechi la discordia tra i popoli…, tu dio visibile che fondi insieme le cose impossibili e le costringi a baciarsi” (Atto IV).
Oggi, il sistema globalizzato ha permesso l’affermazione dell’illimitato, generando “il cattivo infinito”, dovuto all’accumulazione illimitata del capitale, alla dismisura del profitto, a quello che Elias Canetti ha definito: “Il moderno furore dell’accrescimento”. “Minima Mercatalia” allude a come il mondo post-moderno abbia abbandonato le tradizionali divinità per consegnarsi ad una divinità monoteistica, quella del mercato, generando una religione sui generis, senza dogmi, il cui culto consiste nell’accumulazione illimitata di ricchezza. Questo è potuto avvenire dopo la crisi, dopo la fine del capitalismo dialettico, che, per alcuni studiosi, ha coinciso con “la fine della storia”, con l’assolutizzazione del capitale, con la creazione, non di un nuovo dio, bensì di un mostro o di un diavolo diverso, come lo chiamava Goethe. Le tappe, che Fusaro attraversa, conducono dall’astratto all’Assoluto , dopo la scomparsa del Dialettico, tappe che sfociano in una forma di egoismo planetario, dove l’Essere ha perduto persino la misura del tempo.

“Minima Mercatalia. Filosofia e capitalismo”, di Diego Fusaro. Bompiani editore, 2012. Pagg. 502. € 13.90