“Achab”, una rivista semestrale per non perdere mai la rotta nel mare aperto della cultura

(di Piero Lotito) Rappresenta lo scoglio, le colonne d’Ercole dei coraggiosi, il molo dal quale prendere il largo o rovinosamente affondare. Il terzo numero di un’impresa editoriale può rappresentare la vita (a volte, anche il successo) o la morte. Ed eccolo qui, il terzo numero di Achab (dal nome dell’ostinato capitano del Moby Dick di Melville), rivista semestrale di «scritture solide in transito», fondata e diretta da Nando Vitali, collaboratore delle pagine culturali de “la Repubblica”, conduttore di laboratori di scrittura creativa e romanziere. Soprattutto, uno con un gran fegato. Perché ci vuole del fegato, con i tempi che corrono, per mettere in piedi un nuovo giornale, una nuova rivista. Un periodico di moda, oppure, mettiamo, di informatica o di gastronomia, passi: queste materie, si sa, tirano sempre.
Ma di cultura, accidenti, bisogna essere uno scapestrato o un visionario (stessa roba), per provarci. E Nando Vitali ci ha provato, così scrivendo nella presentazione del primo numero: «Noi pensiamo a un tempo dove “immaginare” e “vedere” si tocchino con l’immediatezza di un avvistamento. Una ossessione che è quella per la Balena del Pequod. Dove ogni parola si trasforma in ramponi, fiocina, e vele spiegate all’assalto del mare non sempre favorevole, delle increspature e dei cavalloni giganti. Siamo nel tempo dell’attesa. La grande narrazione, la costruzione di un mondo che resti, che dia respiro a una scrittura che duri, è più che mai necessaria, oltre che utile».
Edita dalla Compagnia dei Trovatori, Achab rimarca il suo respiro nazionale poggiando su tre redazioni equamente distribuite nella penisola: a Napoli, a Roma, a Milano. La redazione milanese, composta da Sara Calderoni, Fabrizio Elefante, Franz Krauspenhaar, Giuseppe Munforte, e Cristina Mesturini per le illustrazioni, si è aggiunta di recente al complessivo, ambizioso progetto. Un formato da libro, bello e “carnoso”, con pagine di saggistica, di scrittura e di disegno, la nuova rivista dedica il terzo numero al tema del sacro. Ha questa libertà, ogni volta punta verso l’avvistamento che sente più vicino (il primo numero era rivolto all’idea di critica e di saggistica, il secondo a Camus). A sviluppare la scelta tematica, già discussa nel corso di presentazioni cui sono invitati anche autori vicini a quella materia, vengono chiamati ogni volta, ciascuno con i propri strumenti, critici, narratori, saggisti, illustratori.
Il sacro, dunque. Nell’area critica, curata da Andrea Caterini, trattano la materia lo stesso Caterini (Venga il tuo regno. Sulla preghiera), Filippo La Porta (Isaia vuole essere rivissuto), Giuseppe Lupo (Giuseppe il sognatore), Giuseppe Munforte (Riflessioni a margine del rotolo di Rut), Fabrizio Elefante (Giobbe, il giusto), Nicola Bultrini (Il sacrificio come antidoto naturale al dubbio). La sezione dedicata alla narrativa si affida per esempio ai racconti di Curzia Ferrari (Nòmen, quasi una fiaba) e Luigi Pingitore (Rothko), firme più che affermate. Ma bene fa, Achab, a lanciare anche nomi poco conosciuti. E sono proposte interviste (perfino al diavolo, in una prova di Maurizio Ponticello: Io, il diavolo, probabilmente) e ritrovamenti, con una riflessione di Marco Ottaiano su Il sentimento sacro della vita in Miguel de Unamuno.
La rivista si articola dunque in più parti, tra le quali sorprende per la secchezza della denuncia l’angolo dedicato agli “Scatti”, foto-didascalie riguardanti questa volta, a firma di Carlo Porrini, un tesoro perduto: una grotta rupestre in provincia di Caserta completamente abbandonata. Irrompe poi la graphic novel a imprimere alla rotta di Achab uno scarto di fantasia, dipanando un breve Gioco di ruolo, con sceneggiatura di Claudio Falco e disegni di Fabulo. Ad avvicinare la rivista al ritmo proprio di un giornale letterario, ecco infine l’inchiesta: Napoli città islamica di Gianluca Vitiello, viaggio in una città che, a dirla banalmente, non finisce mai di sorprendere. Non si può non segnalare la ricca e suggestiva illustrazione, che si avvale delle tavole di Giancarlo Beltrame, Andrea Calisi, Antonio Carannante, Mara Cerri, Luca Dalisi, Giuseppe Lama, Cristina Mesturini, Maria Rosaria Vado, M.R.V. Una fisionomia, quella di Achab, già formata e riconoscibile, anche ricordando il mare percorso con i primi due numeri, che hanno avuto gli interventi di Andrea Di Consoli, Giuseppe Munforte, Franz Krauspenhaar, Andrea Carraro, Antonella Ossorio, Renzo Paris, e, in particolare, quelli di Sara Calderoni, Massimo Raffaeli, Caterina Pastura e Andrea Caterini sul mondo inquieto di Camus.
La navigazione è avviata, il porto è alle spalle. E già si rendono possibili le anticipazioni: il quarto numero conterà fra l’altro sul contributo degli autori Emiliano Gucci e Sergio Nelli, e del poeta e critico Paolo Febbraro. Per affrontare il mare aperto, si sa, occorrono gli aggiustamenti di sempre, quelli che rendono affidabile e “solidale” l’imbarcazione: un pezzo in raccordo con gli altri, a formare l’idea e la struttura di un unico territorio mobile in viaggio verso il futuro. Ma Achab è un capitano esperto, un vecchio lupo di mare, che, dopo aver dimostrato tanta audacia da tentare l’acqua infida dell’editoria letteraria, non vorrà certo fermarsi ai primi, inevitabili soffi di burrasca.
“ACHAB Scritture solide in transito”, semestrale edito dalla Compagnia dei Trovatori, 138 pagine, 10 euro.
La rivista è in vendita in varie librerie, tra le quali: a Napoli, Feltrinelli in piazza dei Martiri; a Roma, Minimum Fax, Trastevere; a Milano, libreria Centofiori in piazzale Dateo 5, libreria Il Domani in piazza Cadorna 9, libreria Il Mio Libro in via Sannio 18, Libreria Popolare di Via Tadino in via Tadino 18, libreria Utopia in via Vallazze 34.

Le religioni? Per Dennett sono un fenomeno naturale e l’evoluzionismo spiegherebbe anche il sovrannaturale

(di Andrea Bisicchia) Da un po’ di tempo, gli studi sulle religioni si sono moltiplicati, forse perché si crede che tanto la filosofia quanto la teologia, utilizzando metodologie poco rinnovabili, non abbiano più nulla da proporre rispetto all’idea di una religione trascendentale. Filosofi analitici, come Robert Audi, hanno cercato di dimostrare in che modo la razionalità possa favorire una vita religiosamente impegnata, e in che modo la fede possa avere una collocazione diversa nel mondo postmoderno, fino a sostenere l’ipotesi che possa esistere una maniera differente di credere.
Non c’è dubbio che, con l’affermarsi delle neuroscienze, il problema si sia sempre più orientato verso soluzioni che riguardano l’evoluzionismo, soluzioni che vanno oltre “la pericolosa idea di Darwin”, avendo, gli studiosi di religione, capito che l’apporto scientifico, da solo, non risulti sufficiente e che occorra l’ausilio di altre discipline, come l’antropologia, la psicologia, la storiografia, per ritornare a discuterne.
Daniel C. Dennett, nel suo poderoso volume: “Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale”, Cortina Editore, è convinto che l’evoluzione possa dimostrare in che modo l’impegno religioso debba sottoporsi alle leggi della natura e come il dio dei filosofi non abbia la potente personalità di quello della dottrina religiosa. Freud aveva affermato che la religione è più potente di Dio, essendo un sistema sociale, i cui partecipanti credono in un agente soprannaturale, al quale chiedono soltanto una approvazione.
Sorgono spontanee alcune domande. È possibile credere in una religione senza Dio? Indagare la religione scientificamente è da ritenere un’interferenza? Per Dennett, le religioni appartengono alla natura umana, sono, quindi, da considerare fenomeni naturali e non soprannaturali, essendo diventate vere e proprie istituzioni, da analizzare con gli strumenti delle scienze sociali. C’è da dire, però, che vanno distinte le grandi religioni monoteiste dalle tante piccole religioni che appartengono più allo stato associativo che a quello spirituale.
Dennett si chiede se sia possibile spiegarle attraverso la biologia evoluzionista, grazie alla quale si possono congetturare le origini stesse delle religioni,dopo il trapasso dal tempo della superstizione a quello della credenza. A dire il vero, le religioni hanno meno fascinazione dei grandi racconti mitologici, esigono, però, una maggiore partecipazione per rispondere ai bisogni, sempre più complicati, degli esseri umani e offrire loro dei benefici. Sempre secondo Dennett, si prospettano dei sistemi, dotati di veri e propri progetti,in competizione tra loro, che si aprono ai mercati. In simili casi,le religioni vivono il rischio della burocratizzazione,quella che Dennett definisce”la credenza nella credenza”, grazie alla quale si cerca di capire quali possano essere le ragioni per credere e quali quelle che ti spingono a ricercare un sostituto, nel caso in cui l’Originale risulti insufficiente. Come dire che l’uomo ha bisogno di uno schermo protettivo, trovandosi spesso dinanzi a un bivio: accettare la vita religiosa come forma ideale,oppure come fenomeno naturale assoggettato alla legge dell’evoluzione.
“Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale”, di Daniel C. Dennett. Cortina Editore 2007– pp. 500, euro 32,00

E dal regno delle ombre sbucò alla luce della poesia l’egittologa Giuliana Rigamonti

Desktop(di Piero Lotito) Si ha forse un particolare vantaggio nello studiare l’antico Egitto, le sue tombe, i suoi geroglifici, e, intanto, scrivere versi, fare poesia? Noi, d’impulso, diremmo di sì, perché se è vero che la poesia è, per sua natura, fuori dal tempo, è anche vero che affondare lo sguardo e la sensibilità a un remoto popolo che tanto amava la vita da organizzarne, per così dire, la prosecuzione dopo la morte, porta a una sicura dilatazione della conoscenza critica del valore dell’essere, fondamento unico – non è così? – dell’espressione poetica.
Ebbene, tutto questo capita a Giuliana Rigamonti, egittologa professionista con specializzazione in filologia, autrice con Marco Chioffi di numerose, importanti pubblicazioni di traduzione e interpretazione di stele e documenti letterari dell’Antico e Medio Regno, tra le quali Un dispaccio da Mirgissa, I racconti di re Keope (2005, Papiro Westcar), Màstabe, stele e iscrizioni rupestri egizie dell’Antico Regno (3 volumi, 2011, 2012, 2013, di cui il primo è risultato vincitore del Premio Internazionale Ada Negri 2012 per la sezione saggistica), Qubbet el-Hawa, la tomba rupestre di Ishemai (2014, La Mandragora).
Ma la Rigamonti, che vive a Sondrio, scrive anche poesia. E di quella buona. Dopo le numerose, e preziose, plaquette per le Edizioni Pulcinoelefante (fra le altre: Verde, 1988; Le finestre di Chiloè, 2000; Girandola di prua, 2002), le raccolte con prefazioni firmate da grandi nomi della critica e della stessa poesia: Carlo Bo, Giuliano Gramigna, Mario Luzi. In particolare, con La settima onda (2003, ES) vince il Premio San Domenichino. Per la collana di poesia di Scheiwiller, fino al 2004 diretta da Giovanni Raboni, pubblica nel 2006 L’acino della notte, cui va, tre anni più tardi, il Superpremio del Cinquantesimo San Domenichino, riservato ai vincitori delle ultime 25 edizioni. Ed ecco, buon ultima nei primi di quest’anno, Il ciliegio dei baci rossi, una raccolta di 80 poesie proposta da Giuliano Ladolfi Editore con prefazione di Laura Novati e postfazione di Francesca Bonazzoli.
Qui, senza entrare nel merito poetico per non rubare il mestiere ai critici di professione, ci preme appunto indagare su quel rapporto tra egittologia e poesia. Ci interessa capire se si realizza o no, in un poeta come Giuliana Rigamonti, quel “vantaggio” di frequentare il tempo degli Egizi e, insieme, il tempo dei vivi (o dei morti) di oggi. «Forse – scrive Francesca Bonazzoli – il fatto che Giuliana Rigamonti sia un’autorevole esperta di geroglifici ha qualcosa a che fare con la sua capacità di usare i simboli, di riuscire a parlare delle “dieci più due vite della pioggia” o “della danza lunga quanto il serpente della sete”. Di certo nelle poesie della Rigamonti si sente la relazione diretta che l’autrice intrattiene con la natura e con la capacità di interpretarla che aveva la poesia classica».
Anche Laura Novati sembra cogliere il “vantaggio” di una relazione tra indagine archeologica e indagine lirica, e ricorda quanto sia centrale, nella Rigamonti, «… la terra dell’aratro o Ta-meri, nell’antico Egizio: “Se io fossi un’acacia, è qui che vorrei / essere cresciuta, sopra la falesia del fiume / per sentire i cortei del tramonto”. Non occorre alcuna metamorfosi arborea per sentire questa terra come una nuova patria, a cui dedicare la pazienza infinita di mesi e anni di studio che conoscono però anche la gioia di “tornare sul campo”; per scoprire magari – come di fatto la Rigamonti egittologa ha fatto – una sua tomba. Esplorarla, entrare nelle viscere del passato significa allora scoprire in quel buio lo splendore nascosto di altri colori e figure, che narrano altre storie, altro tempo, l’antica sapienza del passaggio dall’ombra alla luce».
Ma a lei stessa, a Giuliana Rigamonti (“Quanti anni ho?” risponde a un nostro primo quesito. “Cinquemila. Da egittologa non potrei averne di meno”), rivolgiamo la fatale domanda.
Egittologia e poesia, un ardito abbinamento. Come lo vive, che cosa le viene nella vita quotidiana e, soprattutto, nel comporre versi?
«Facendo poesia e archeologia, sfoglio il tempo passato. Anche nella mia poesia, non soltanto il passato recente, ma il remoto: come fosse un presente allargato, permeabile col presente che comunemente si intende. Considero quindi il passato e il presente insieme, non c’è differenza».
Gli Egizi, un popolo vicino alla poesia?
«È descritto come amante della vita. Quando gli Egizi avevano risolto il problema dell’aldilà costruendo una tomba, si sentivano tranquilli. Amavano i bambini, le feste religiose. Producevano tante qualità di birra, di pane, di dolci. Era un popolo gioioso, che amava appunto la vita. “O voi che amate la vita e detestate la morte”: molte iscrizioni recitano così».
E il futuro? Lei, che ha questa familiarità col passato, che idea si è fatta del futuro?
«Ho fiducia nella vita, bisogna sempre vestirsi di ottimismo, senza guardare troppo in là. Ogni cosa capita al tempo giusto, solo al tempo giusto. Non possiamo accelerare o rallentare niente». Nel numero dello scorso febbraio di “Archeo”, Giuliana Rigamonti e Marco Chioffi raccontano come hanno ritrovato nei pressi di Assuan, una sontuosa tomba appartenuta al funzionario User e alla moglie moglie Tuyu, vissuti all’epoca del Nuovo Regno (1543-1069 a.C.). Il sepolcro era stato appena devastato e impoverito dei suoi arredi dagli scavatori clandestini, una piaga sempre, ma oggi, nel disordine che affligge l’Egitto negli ultimi anni, ancora più minacciosa per la cultura di quel Paese e dell’intero mondo civile.

In uno Stato ideale il teatro è meglio della filosofia, e Canfora mette Aristofane contro Platone

luciano canfora(di Andrea Bisicchia) Nel V libro del “De rerum natura” (vv 1105-1119), Lucrezio sostiene che, se fosse messa in pratica la “vera ratio”, si instaurerebbe un ordine fondato sul principio:”nunquam est penuria parvi”, non c’è penuria quando tutti hanno ciò che basta. Progettare una nuova realtà sociale, fondata sull’eguaglianza, sulla comunanza dei beni, sull’austerità egualitaria è, forse, un’utopia? Luciano Canfora, in un ricco volume, pubblicato da Laterza: “La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone”, mettendo a confronto alcune commedie di Aristofane, in particolare “Le donne in parlamento” e “Pluto”, con alcuni capitoli della “Repubblica”, in particolare il V e il VI, con altri delle “Leggi”, si è soffermato sul concetto di Utopia, su come abbia contraddistinto la politica greca, nel massimo del suo splendore, ed ha utilizzato un metodo contrappositivo, facendo scontrare il filosofo con il commediografo.
C’è da dire che, durante il V e IV secolo, il divario tra filosofia e drammaturgia era poco percepibile; Emanuele Severino, traducendo l’ “Orestea”, ebbe a dire che il primo vero filosofo dell’antichità fosse Eschilo perché, nel suo teatro, si percepiva la concezione filosofica del suo tempo. Aristofane non fu da meno anzi, utilizzando il genere comico, prese di mira il pensiero dei sapienti che si sforzavano di proiettare “la meraviglia”, propria della filosofia, verso l’utopia,facendo ricorso al grottesco e al ridicolo, quando cercava di colpire l’avversario. Per entrambi, il fine da raggiungere era la fondazione di uno Stato ideale, quello della ben nota Kallipolis, per il raggiungimento di una auspicabile “eunomia”. Aristofane ammette di credere più agli uomini di teatro che ai filosofi, lo dimostra nelle “Rane”, dove immagina un viaggio di Dioniso nell’Ade per riportare in vita Eschilo o Euripide, avendo la polis bisogno dei poeti e non dei politici, per riscattarsi e lo conferma nelle “Nuvole” dove prende di mira i Sofisti e Socrate, accusandoli di cialtroneria. Canfora dà voce alla collettività, alle assemblee popolari, alle adunanze deI cittadini, all’isonomia che prevedeva la presenza degli strati medi alla formazione culturale, onde evitare qualsiasi forma di disuguaglianza, concependo l’uguaglianza come sinonimo di libertà.
La commedia, più della tragedia, coglieva gli umori del pubblico, convinto di questo, Canfora sceglie Aristofane come l’autore che seppe dialogare con gli spettatori, sicuramente più di Menandro, perché portò in scena sia la questione sociale che politica, quella stessa che Platone proponeva nella “Repubblica”, dove offriva un suo modello di comunismo, fondato sulla parità tra uomo e donna, fino ad ammettere l’esistenza della famiglia allargata. Anche Aristofane sosteneva la parità tra uomo e donna,benché fosse convinto che la si potesse raggiungere solo disponendo della comunanza dei beni, essendo, questa, il presupposto per una società egualitaria, dove si dovevano mettere al bando le disuguaglianze. Aristofane ebbe il merito di trasformare l’utopia in un terreno di scontro tra teatro e filosofia, tra parodia e riflessione, con un fine pari a quello di Platone: trasformare l’utopia in un bisogno sociale, oltre che morale.
“La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone”, di Luciano Canfora – Editore Laterza, 2014 – pp 436 – euro 18