Per il filosofo, vivere è diverso che esistere: si può “esistere” da soli, ma si può “vivere” soltanto in comune con gli altri

(di Andrea Bisicchia) Todorov (1939-2017) è stato uno dei Maestri a cui ci siamo accostati, nel ventennio 1968-88, per i suoi studi sul Formalismo russo, sulla Teoria dei simboli, sulla Letteratura fantastica. Era conosciuto come un filosofo del linguaggio, anche se ben presto trasferì i suoi interessi speculativi verso le scienze antropologiche e verso quelle sociali. A queste è riconducibile il libro pubblicato da Raffaello Cortina: “La vita comune. L’uomo è un essere sociale”.
Si tratta di un percorso più volte esplorato da Todorov in volumi precedenti: “L’uomo spaesato. I percorsi di appartenenza”, “Noi e gli altri”, dove tendeva a sottolineare quanto fosse necessaria la vita comune, a dimostrare quanto fosse difficile il rapporto tra individualismo e concezione sociale e nei quali si chiedeva perché l’uomo non potesse, stoicamente, vivere da solo.
Per Todorov, il trincerarsi dell’uomo nella solitudine potrebbe essere conseguenza di una certa sua debolezza o di una particolare vanità che consisterebbe nell’attesa di essere “approvati”. È vero che l’essere umano ha tanta voglia di vivere con se stesso, ma è anche vero che egli inizia a vivere nel momento in cui sente su di sé lo sguardo dell’altro. Insomma, per il filosofo bulgaro, naturalizzato francese, vivere è diverso che esistere, si può esistere da soli, ma non si può vivere senza gli altri, senza il loro riconoscimento che è il vero “ossigeno della nostra esistenza”, ovvero la sola forza capace di abbattere l’indifferenza, il rifiuto, gli egoismi e la solitudine, pertanto, senza la vita comune, l’uomo è decisamente incompleto.
Le relazioni con gli altri possono essere di origini diverse, si va da quelle sociali a quelle d’amore, di sesso, anche se occorrerà distinguere tra sentimenti e piacere, perché, i primi, possono essere mascherati o finti, mentre il piacere va sempre in cerca della relazione. Solo che non basta, Todorov infatti distingue l’amore per la vita, dall’amore sessuale, essendo il primo rivolto a conservare l’individuo e, il secondo, a conservare la specie.
L’individualismo, a sua volta, è fatto di narcisismo, autoconservazione, aggressività, tanto che, freudianamente, vive una pulsione conservatrice, ben diversa dalla pulsione sessuale che si dirige verso l’altro e che, a volte, si trasforma in pulsione di morte, quando tende alla perversione.
Todorov distingue tre livelli dell’essere umano che ritiene, innanzitutto, un oggetto materiale, essi sono: cosmico, animale, sociale, ciascuno, però, non può essere riducibile all’altro. Persino i comportamenti seguono la legge dei tre livelli, dato che bisognerà distinguere tra gesti ossessivi, gesti meccanici e gesti privi di senso. Questi differenti livelli rendono difficile, per l’uomo, la realizzazione di sé, ma, il fatto stesso che egli percepisca questo bisogno è una prova della sua esistenza che rende attraente il piacere di esistere, lo stesso che si realizza all’interno di una struttura sociale, la sola che può abbattere la solitudine e l’infelicità.
Del resto, non può esserci felicità senza gli altri, spetta a loro favorirla, insieme al bene comune. Sono gli altri a detenere la felicità, ma sono sempre loro che posseggono il potere di distruggerla, nel caso in cui i legami affettivi dovessero essere labili.
Per Todorov, due sono le vie da percorrere: rinchiudersi in una fiera solitudine, distaccarsi dai beni terreni, come consigliava sant’Agostino, magari andando alla ricerca di Dio, o accettare la propria condizione di finitezza, senza alcuna speranza nella vita eterna, come, in fondo, consigliava Rousseau, vedi “Il contratto sociale”, senza la consolazione di poter sopravvivere alla comunità.
Del resto, la società vive nel tempo e tutti i suoi equilibri sono precari, tanto quanto la felicità, proprio perché anch’essa è molto fragile.

Tzvetan Todorov, “LA VITA COMUNE. L’UOMO È UN ESSERE SOCIALE”, Raffaello Cortina Editore 2023, pp. 212, € 14

I rapporti familiari nel teatro di Santanelli. Luogo mentale di conflitti in bilico tra abusi e amore, deliri mentali e tenerezze

(di Andrea Bisicchia) Non esiste alcun dubbio sul fatto che Manlio Santanelli (1938), occupi un posto particolare nella Storia del teatro italiano, non solo perché gli dobbiamo alcuni capolavori, come “Uscita di emergenza” (molti di noi lo videro al Pier Lombardo, oggi Franco Parenti, nel 1981 con Sergio Fantoni e  Nello Mascia), “Bellavita Carolina”, “Regina madre”, “Disturbi di memoria”, “Pulcinella”, ma anche perché gli dobbiamo un linguaggio drammaturgico potente, con una sua specificità, oltre che con quel gusto del paradosso, del grottesco, dell’umorismo atrabiliare, che lo rendono unico nel suo genere, benché qualche studioso o qualche critico lo abbia inserito in un percorso post-eduardiano, come compagno di strada di Enzo Moscato (1948 ) e Annibale Ruccello (1956-1986 ), entrambi poco più giovani, ma che hanno iniziato l’attività di drammaturghi negli stessi anni.
Mariano D’Amora, autore di monografie dedicate a Patroni Griffi, Moscato, Ruccello, ha appena pubblicato un volume, edito da MEA “Poetiche del conflitto in interno borghese. Il teatro anarcoide di Manlio Santanelli”, certamente il primo studio completo sulla vasta Opera teatrale dell’autore napoletano, che ha scritto molto, non tanto, come ha più volte affermato, per la gioia di scrivere, quanto “per una necessità fisiologica”, come dimostra il suo linguaggio fisico, se non carnale.
Mariano D’Amora rilegge l’intera opera utilizzando una vasta bibliografia trasversale, dove svettano i nomi di Roger Caillois, Ernesto De Martino, Sigmund Freud, Gustav Jung, Ervin Goffman, come a sottolineare che la sua “lettura” non è costruita sulle trame, ma su ciò che sta dentro di esse, tanto che il suo linguaggio saggistico a volte si mostra alquanto specialistico.
Di che cosa è andato in cerca Mariano D’Amora? Della scrittura di Santanelli, che ha il potere di autogenerarsi attraverso la sua ambiguità, il non detto, le allusioni, gli scandali, gli eccessi, le parafrasi religiose, costruendo un mondo immaginario che rasenta la blasfemia, grazie agli elementi anarcoidi che la caratterizzano.
D’Amora ha diviso il suo lavoro in dieci brevi capitoli, ai quali ha fatto seguire una utilissima teatrografia, accompagnata dalla bibliografia dell’autore e, soprattutto, dall’elenco indispensabile di tutti gli allestimenti. Il lettore si trova dinanzi a un commediografo di stampo europeo, che ha scelto di analizzare la marginalità, intesa come condivisone, attraverso la quale, rappresentare una particolare condizione umana (vedi “Uscita di emergenza”), che però estende alla “Ri-definizione” del nucleo familiare, non soltanto soggetto a un malessere esistenziale, bensì a una precarietà e a un disagio sociale, fato di rituali quotidiani, di conversazioni improbabili, di scontri verbali, in particolar modo quando si entra negli affetti materni, tanto da chiedersi, come in “Bellavita Carolina” e “Regina madre”, cosa rappresenti veramente la maternità, ovvero se la madre si fosse assunto il compito di proteggere, di tollerare, oppure di stravedere per i propri figli o figlie, con tutti i deliri mentali che ne conseguono.
In Santanelli non c’è uno sbocco di tipo moralistico, egli si addentra nella ferocia dei rapporti familiari, tanto da pensare più a Strindberg che a Pirandello o Eduardo, anche perché l’interno borghese viene trasformato da Santanelli in un luogo di conflitti, non certo di tipo realistico, ma visionario, una specie di prigione o, come sostiene D’Amora, “luogo mentale”, continuamente in “ bilico tra tenerezza e abuso, tra amore e distruzione, tra angoscia e impotenza, tra fede e maternità”, fino alla stranissima e molto efficace, pur nella sua visionarietà, identificazione tra la figlia di Bellavita Carolina, con San Gennaro, se non, addirittura, in una sua trasposizione. Si tratta di “relazioni oppositive” che troveremo ancora in “Disturbi di memoria”, in “Il baciamano” e in parecchi atti unici.
Il volume si conclude con l’analisi di “Pulcinella” che, con la regia di Scaparro e l’interpretazione di Massimo Ranieri, fu un vero e proprio trionfo, non soltanto sui palcoscenici italiani.

Il libro verrà presentato oggi, lunedi 17, a Napoli, nel Foyer del Teatro Mercadante, alle ore 18, da Giulio Baffi, Alessandro Toppi, Manlio Santanelli, insieme all’autore. Le letture saranno di ISA DANIELI E NELLO MASCIA, interpreti superbi di parecchie opere di Santanelli

Mariano D’Amora: “POETICHE DEL CONFLITTO IN INTERNO BORGHESE. IL TEATRO ANARCOIDE DI MANLIO SANTANELLI”, Edizioni MEA 2023, pp. 150, € 16.

Balázs, il teorico del dramma moderno, del teatro operaio, delle lotte di classe, e dell’Agit Prop, ripreso da Dario Fo

(di Andrea Bisicchia) – Béla Balázs è uno scrittore, saggista, drammaturgo, teorico ungherese, noto, in particolare, per la sua collaborazione con Béla Bartok, per il quale, compose il libretto d’opera “Il castello del Principe Barbablu”, attingendo al repertorio delle tradizioni popolari, di origine fiabesca, della sua nazione. Ebbe una vita abbastanza complessa, fu combattente dell’Armata Rossa, membro del Direttorio degli scrittori, oltre che dirigente, insieme a Lukàcs, autore di testi come “Il dramma moderno”, “La genesi della tragedia borghese da Lessing a Ibsen”, “Il dramma moderno dal Naturalismo a Hofmannsthal”, tradotti in Italia e, sui quali, molti di noi hanno studiato, negli anni Settanta.
Certamente Luckàsc e Balázs ebbero modo di influenzarsi a vicenda. Di quest’ultimo, CUE PRESS ha pubblicato “SCRITTI DI TEATRO”, con prefazione di Eugenia Casini Ropa.
Balázs distingue il dramma dalla tragedia sostenendo che l’irrazionale non possa avere più posto nel teatro moderno, avendo rinunziato alla dimensione divina e a qualsiasi forma di assolutezza, perché, ogni conflitto a suo avviso appartiene alla “vita sperimentata”, in particolare, quello che ha afflitto la vita della borghesia che, durante il suo tramonto, a fine Ottocento, aveva smarrito, sia i valori che gli ideali assoluti. Lo stesso discorso vale per il tema della follia, trattato, molto frequentemente, da autori come Ibsen e Strindberg, le cui conseguenze erano frutto delle convenzioni e degli scontri sociali, oltre che di sentimenti ammalati che non avevano nulla a che fare con la tragedia. Insomma, nel dramma moderno, non si trovano più né Aiace, né Eracle, dato che i loro conflitti erano da addebitare all’Intenso rapporto con la dimensione religiosa, quella degli dei, per intenderci.
A dire il vero, a Balázs non interessava, soltanto, il significato sociale del teatro, bensì anche quello politico che lo si poteva mettere in evidenza, proprio, attraverso la struttura scenica, tanto che, per avvalorare la sua tesi, egli distinse la scena mistica, che ha una sua particolare visione del mondo, dalla scena sociale, sempre alla ricerca di soluzioni drammatiche, attraverso l’uso della ragione, e la scena politica che eredita da Piscator, altro compagno di strada, che, però, lui arricchisce con la creazione del Teatro Operaio. Siamo negli anni Trenta, durante i quali, Balázs visse, anche, l’esperienza della Repubblica di Weimar, dove agivano 500 gruppi teatrali che portavano, sui palcoscenici di periferia, le loro riflessioni sul mondo del lavoro e delle disuguaglianze, creando nuove forme d’arte, con l’utilizzo di ballate popolari, a scapito di opere come “Oplà, noi viviamo” di Toller, o “Tamburi nella notte” di Brecht o, ancora “Il professor Bernhardi” di Schnitzler, che riteneva drammi di conversazione, a “tendenza” che non  avevano “nessun principio”, testo quest’ultimo che, al contrario, abbiamo trovato esemplare nella messinscena di Ronconi, sicuramente una delle più riuscite e applaudite.
La tipologia del Teatro Operaio evidenzia, secondo Balázs, una “evoluzione alla rovescia”, nel senso che, prima di tutto esiste il pubblico, poi viene il teatro e, infine, la letteratura, con i suoi testi scritti, secondo le regole, come dire che la storia del teatro è la storia del suo pubblico, tanto che il Teatro Operaio potrà vantare un pubblico omogeneo, non certo immersivo, come lo si intende oggi. Per questo motivo, Balázs teneva molto a distinguerlo dal dramma borghese che andava in cerca del consenso di un pubblico, non certo, sofferente dal punto di vista economico, nel quale, i protagonisti, entravano in scena come delle vere e proprie vittime, “sull’orlo della rovina e della perdizione”.
Nel Teatro Operaio si portano in scena lotte contro la disoccupazione, per salari decenti, ma soprattutto contro le ingiustizie sociali. È il teatro dell’Agit Prop, quello che verrà ripreso nel ‘68 da Dario Fo e dai collettivi proletari, con tutte le teorizzazioni che ne seguiranno.
Per Balázs, il teatro risulta necessario se riesce a portare in scena la realtà del presente, con le sue contraddizioni, imponendosi come strumento di trasformazione sociale, con l’intento di “cambiare il mondo”, come sostiene la curatrice Eugenia Casini Ropa.

Béla Balázs, “SCRITTI DI TEATRO”, a cura di Eugenia Casini Ropa, CUE PRESS 2023, pp. 98. € 19,99

 

 

Straordinarie immagini d’un mito: Valentina Cortese. Teatro cinema tv. Vita privata, lavoro, sacrifici. E infiniti successi

(di Andrea Bisicchia) – In tanti l’abbiamo ammirata, in tanti ricordano almeno le sue memorabili interpretazioni, con le regie di Strehler, di “I giganti della montagna”, “El nost Milan”, “Santa Giovanna dei macelli”, “Il giardino dei ciliegi”, basterebbero questi spettacoli per fare di Valentina Cortese (1923-2019) un mito, solo che, il mito, lei lo aveva costruito con tanto lavoro, con tanta passione, con tanta lungimiranza, lottando contro la sua vita difficile, essendo stata adottata in tenera età, dopo che il conte Napoleone Rossi di Coenzo, ricco proprietario terriero di Bruscello, vicino Reggio Emilia, già sposato e padre di due figli, non l’aveva riconosciuta, dopo un fugace rapporto con Olga Cortese, diplomata al Conservatorio di Torino, sempre in viaggio, per esibirsi in tutto il mondo.
Valentina avrebbe potuto vivere agiatamente, cosa impossibile con la famiglia adottiva che non la si poteva considerare, certo, benestante, visto che papà Giuseppe era un ottimo falegname che, guadagnando poco, decise di fare lo spazzino municipale.
Valentina è cresciuta tra tante difficoltà, un po’ alleviate quando a 14 anni andò a vivere con la nonna materna a Milano, dove poté iscriversi al Liceo artistico, diventando appassionata di cinema. La sua grande passione si manifestò subito, voleva recitare a tutti i costi, tanto che cominciò a fare dei servizi fotografici da mandare alle varie agenzie. Nel frattempo ottenne dal sindaco di Stresa, dove si trovava con la nonna, di interpretare “La maestrina” e “Scandalo” di Nicodemi. Qualche giorno prima del debutto, propose a dei clienti del Grand Hotel de Milan l’acquisto dei biglietti per i suoi spettacoli teatrali. Qui incontrò Victor De Sabata, noto direttore d’orchestra e fu amore a prima vista, benché ci fossero trent’anni di differenza, avendo lei 18 anni e lui 48. Col Maestro si trasferì a Roma dove potrà frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica e dove frequentò Cinecittà, iniziando a lavorare, firmando alcuni contratti con le case di produzioni cinematografiche più importanti. Nel 1942, si può ammirare in “La cena delle beffe”, con la regia di Blasetti, da quell’anno però, fino al ’45, Cinecittà rimarrà chiusa a causa della guerra. Valentina, ne approfitta per dedicarsi al teatro, viene scritturata da Orazio Costa per “Amarsi male” di François Mauriac, recitando a fianco di Rossano Brazzi.
Per chi volesse seguire la biografia artistica, accompagnata da una ricca iconografia, con materiale inedito, può leggere il volume, curato da Elisabetta Invernici e Antonio Zanoletti, “Valentina Cortese. Album di Famiglia”, edito da Pazzini per la Regione Lombardia, che ha curato una mostra in occasione del centenario della nascita, nello Spazio Espositivo IsolaSet, utilizzando le foto dell’Archivio Zanoletti/Cortese, col contributo di altro materiale, fornito dal Piccolo Teatro. Molte sono le immagini che si caratterizzano per la loro alta qualità.
Il lettore si trova dinanzi a un genere particolare, quello della biografia per immagini che, pur trattando della attività professionale della grande attrice, viene introdotto in un percorso intimo e familiare. Il lavoro di ricerca, a dire il vero, non è stato semplice per i due curatori, avendo dovuto esplorare archivi e fonti internazionali, data l’internazionalità dell’attrice, protagonista di un centinaio di film e di circa ottanta opere teatrali, per non parlare delle sue numerose presenze televisive.
Come si è potuto capire, ci si trova dinanzi a un “racconto”, più che un saggio, un racconto che esplora la biografia privata di una donna, diventata attrice, fino a trasformarsi in mito, grazie a una vita ricca di avvenimenti, di rapporti personali e di tanto lavoro, oltre che di molte amicizie e di infiniti successi.
Su di lei è stato scritto di tutto, sia in Italia che all’estero, come non ricordare il breve saggio di Bernard Dort: “Valentina Cortese, ovvero la contraddizione”, di cui però l’attrice si faceva beffe, e come dimenticare le parole di Paolo Grassi: Quanta autentica capacità, quanta grande originalità, quale mondo “suo” particolare Valentina porta sul palcoscenico, ogniqualvolta vi appaia.
Va ricordata anche la monografia di Alfredo Baldi, “Le nove vite di Valentina Cortese”, in cui l’autore scrive di essersi trovato dinanzi “all’ultima diva della scena italiana”.

“ALBUM DI FAMIGLIA. VALENTINA CORTESE”, a cura di Elisabetta Invernici e Antonio Zanoletti, Pazzini Editore, pp. 184, s.p.