Novelle per un anno, ma i mesi non c’entrano. Tanti piccoli specchi a riflettere, senza gioia, sull’infelicità dell’esistenza

(di Andrea Bisicchia) Ci siamo occupati, sulle pagine di questo giornale, di “NOVELLE DI PIRANDELLO – RACCOLTE 1”, ritorniamo sull’argomento in occasione del secondo volume che porta lo stesso titolo e che raccoglie gli Atti del sessantesimo Convegno internazionale di studi pirandelliani, che si terrà dal 2 al 5 dicembre, a cura di Stefano Milioto. I temi affrontati sono solo in parte diversi, così come lo sono i criteri analitici, dato che si va da quelli tematici, sociologici, ideologici, a quelli cronologici.
A dire il vero, Pirandello nella prima edizione di “Novelle per un anno”, 1922, ne rese conto con una prefazione in cui ricordava come l’editore lo avesse consigliato di dividere la raccolta, non in dodici volumi di trenta o più novelle, bensì in ventiquattro, sottolineando, in quella occasione, l’uso di una sua particolare metodologia, caratterizzata da una vera e propria assenza di “criterio”, perché, scriveva: “Non vogliono essere singolarmente né delle Stagioni, né dei Mesi, né di ciascun Giorno dell’anno”.
Insomma, i mesi, le stagioni non c’entravano nulla, essendo, il suo criterio, attento a rappresentare, attraverso le novelle, l’amarezza della vita, la scarsezza della gioia, ovvero, la sua concezione del mondo, ritenendo le novelle: “Tanti piccoli specchi che riflettono l’intera vita”. Sappiamo che la raccolta, dopo il 1922, si arricchì di altre novelle che richiesero una nuova edizione nel 1928, presso l’Editore Bemporad, fino al tredicesimo volume, perché dal quattordicesimo sarà l’Editore Mondadori a completare il lavoro, con diverse edizioni, fino a quella del 56-57, preceduta da una introduzione di Corrado Alvaro, che conteneva una Appendice di ben 18 nuove novelle.
Riccardo Castellana, nel suo saggio, parte proprio dall’Appendice, facendone una microstoria, la cui comparsa risalirebbe alla collana mondadoriana “Omnibus” del 1938, volume II, contenente già 21 testi che diventeranno 27 nell’edizione del 1956 e 31 nell’edizione del 1969, le medesime che troviamo nell’edizione dei Meridiani.
Per Castellana, esiste un problema di filologia non risolto, perché, a suo avviso, “qualsiasi edizione scientificamente valida va giudicata, oltre che per la sua coerenza, anche per le domande a cui essa risponde e, fino a ora, si è lavorato nel rispetto dell’ultima volontà dell’autore”. Per Castellana, non è questa la via percorribile essendoci, ancora, da lavorare, soprattutto, sulle riscritture, sulla variantistica, sui legami genetici, tra una edizione e la successiva, sugli aspetti narratologici e, persino, sulla cronologia.
A mio parere, ci sarebbe anche un altro problema irrisolto, quello delle collaborazioni di Pirandello con le varie riviste dove andava pubblicando le sue novelle prima di firmare il contratto col Corriere della Sera. I saggi raccolti sono di vario tipo, dai quali, si percepisce anche il problema che è stato posto, circa l’intervento di tipo filologico, benché, come osserva Graziella Corsinovi, non esistano dei criteri definitivi per giustificare le scelte metodologiche, sottoposte, come sono, in una “libera e caotica mescolanza”, meglio, pertanto, ripercorrere il “viaggio tra realtà e metafora, tra essere ed esistere”.
Rino Caputo, al contrario, sostiene che è arrivato il momento di dare ordine alle novelle, mentre Sara Lorenzetti si propone di leggere il corpus pirandelliano alla luce “della categoria tematica del vuoto”, attraverso una mappatura dei luoghi delle novelle in cui appare il lemma “vuoto”, come ad indicarne una vera e propria poetica.
C’è chi, come Debora Bellinzani ha scelto di indagare le novelle dell’Ottavo volume Bemporad dal titolo: “Dal naso al cielo”, inseguendo le tematiche spiritistiche e soprannaturali che contraddistinguerebbero questa raccolta, piena di esseri invisibili che si materializzano con la logica dell’Oltre.
Marcello Sabbatino, partendo da una indicazione di Remo Bodei, si sofferma sulla raccolta che porta il titolo “Candelora” e pone al centro della ricerca il concetto di vanità, a cui si perviene attraverso “sentieri diversi”.
Sarah Zappulla Muscarà porta avanti il suo studio su “La giara” e sulla raccolta “Terzetti”, pubblicata, da Treves, nel 1912, per essere riproposta successivamente in “Novelle per un anno”, nell’undicesimo volume Bemporad, del 1928. Si tratterebbe, in questo caso, di novelle ritoccate, vistosamente rielaborate e destinate ad altre sedi, tutte però compattate da un’unica visione della vita.
Come sempre interessante l’intervento di Paolo Puppa, “Dal figlio cambiato alla Favola del figlio cambiato, ai Giganti della montagna”, dove lo studioso sottolinea la sottocultura superstiziosa che sta dietro lo strano episodio del figlio cambiato, la cui gestazione fa riferimento a fonti diverse che risalgono al 1902, che porteranno con una serie di varianti all’edizione del 1923, carica di differenze essendo, quest’ultima, caratterizzata dalla presenza dell’Io narrante che si adegua al razionalismo e che la differenzia dalla prima edizione, dove si rintracciavano molte scorie di naturalismo.
Altrettanto interessante è l’intervento di Giulio Mancuso sul rapporto “Pirandello e il cinema”, in particolare, sulle interferenze dovute all’apporto di registi co-autori, come De Sica (Il viaggio), Bellocchio (La balia), Andò (La stranezza), film alquanto originale nel raccontarci le origini dei “Sei personaggi”.
L’internazionalità è testimoniata dagli interventi di Manuela Bertone, sulle Novelle di Pirandello in Francia, di Enza De Francisci, sullo stato delle Novelle nel mondo anglofono, di Rossella Palmieri che ci trasporta in Cina e in America, coadiuvata da Maria Rosa Vitti Alexander che si intrattiene sulle “Novelle americane”, mentre Irena Ndoci Lama, ci trasferisce nel contesto albanese, Ilona Fried in quello ungherese e Cezary Bronowski in quello polacco.

In occasione del Sessantesimo Convegno, che si terrà dal 2 al 5 dicembre, sono stati pubblicati gli Atti di “LE NOVELLE DI PIRANDELLO” – Raccolte 2, a cura di Stefano Milioto – Ed Lussografica 2023 – pp. 224 – € 20.

Dal dialetto arcaico di pezzenti, miserabili ed emarginati al realismo poetico di Franco Scaldati. Catastrofe e salvezza

(di Andrea Bisicchia) Il nome di Franco Scaldati è stato accostato a Pirandello, Testori, Pasolini, con i quali vengono riscontrate convergenze di tipo linguistico, oltre che di tipo sociale, visto che molti dei protagonisti vivevano ai margini delle città, nelle periferie milanesi, quelle del Fabbricone, nelle periferie romane e in quelle palermitane della Zisa. Ma sono stati fatti anche i nomi di Beckett, Copì, Muller, Handke.
C’è da dire che un vero drammaturgo lo si riconosce subito dalla scrittura, ovvero dalla capacità di inventare un lessico che si caratterizza per la novità linguistica, per le sue basi fantasmatiche, per la sonorità e per la capacità di sublimare la realtà, per poterla trasferire in un mondo metaforico, fatto di sogni, di attese e di immaginazione.
Nella scrittura è riconoscibile l’identità non solo di un autore di teatro, ma anche dei registi che lo mettono in scena, erano, infatti, riconoscibili gli spettacoli di Strehler, Ronconi, Nekrosius, Brook, solo per citare alcuni noti registi. Non per nulla continuiamo a sostenere che ogni rivoluzione artistica è sempre una rivoluzione linguistica. Non c’è dubbio che gli autori più importanti del secondo Novecento siano quelli che hanno diretto le loro scelte verso forme linguistiche inusitate, dal grammelot di Dario Fo al plurilinguismo di Testori, alla inconfondibile koiné di Pasolini, al napoletano di Moscato, al dialetto arcaico di Scaldati.
Dobbiamo a Valentina Valentini che ha già curato, per l’Editore Marsilio, una serie di testi dell’autore palermitano, il volume edito da Titivillus: “Il teatro è un giardino incantato dove non si muore mai. Intorno alla drammaturgia di Franco Scaldati”, che raccoglie una serie di saggi fondamentali, non solo di docenti, di ricercatori, ma anche di attori, collaboratori degli spettacoli di Scaldati, come: Marion d’Amburgo, Melino Imparato o come la costumista Antonella Di Salvo.
A dire il vero, la prima scoperta di Scaldati la si deve all’interesse del regista e direttore del Teatro Biondo di Palermo, Pietro Carriglio, che lo scelse più volte come attore, oltre che come autore e, ancora, all’interesse di registi palermitani come Umberto Cantone e Matteo Bavera. Fu però determinante l’interesse di Franco Quadri che, nel 1990, pubblicò, con traduzione a fronte, alcuni capolavori, come “Il pozzo dei pazzi”, “Assassina”, “La Guardia dell’acqua”, “Occhi”, con prefazione di Vincenzo Consolo.
Il pubblico milanese potè assistere in quegli anni alla messinscena di “Il pozzo dei pazzi”, con la regia di Elio De Capitani, e di “Lucio”, con la regia di Cherif, entrambi al Teatro dell’Elfo. Si trattò di due eventi che non ebbero quella circuitazione necessaria per far conoscere un autore scomodo, come Scaldati, circuitazione che si è avverata, recentemente, con “Totò e Vicé”, portato in scena, con un grandissimo successo, dalla coppia Vetrano-Randisi, mentre il testo lo si può leggere nell’edizione Cue Press.
Anche se Scaldati ha dichiarato di essersi accostato a Testori, la differenza tra i due è alquanto controversa, perché gli Scarrozzanti sono i vagabondi del teatro povero, sono degli emarginati che fanno uso di un plurilinguismo tutto inventato, che è ben diverso dal dialetto di Scaldati, parlato dai suoi protagonisti, tutti appartenenti a quei miserabili che vivono nei quartieri più poveri di Palermo.
Al rapporto Scaldati-Testori è dedicato il saggio di Carlo Serafini che riscontra in entrambi il culto sacro per la parola che si fa carne e sangue.
Anche il rapporto tra Scaldati e Pasolini è un po’ controverso, come ha dimostrato Stefano Casi nel suo intervento, sostenendo che i quartieri e i vicoli palermitani contengono una realtà ben diversa dalle borgate romane, anche perché, mentre Pasolini amava il suo sottoproletariato, Scaldati non amava i suoi pezzenti che però immetteva in un realismo poetico.
Fondamentali sono i saggi di Viviana Raciti e di Valentina Valentini per conoscere l’intera produzione teatrale di Scaldati, alla Raciti dobbiamo la preistoria, avvenuta nelle “cantine” palermitane, degli esordi di Scaldati e l’ordinazione dei testi teatrali che ha raccolto, sistemandoli, per decenni, alla Valentini dobbiamo l’attraversamento delle Opere, tra pagina scritta e pagina scenica, tra l’atto di scrivere e l’atto di recitare, tra lingua plastica e lingua orale, tra catastrofe e salvezza.
Per quanto riguarda il rapporto con Pirandello, questo non va ricercato nell’uso del dialetto, essendo quello agrigentino alquanto “dolce” rispetto a quello palermitano, è più esatto cercare la convergenza con “I Giganti della montagna”, come ha fatto Valeria Merola che ha visto in Scaldati una specie di Mago Cotrone, anche perché gli fu commissionato da Federico Tiezzi per la sua messinscena dei “Giganti” il finale mancante, che Scaldati intitolò “Ilse uccisa dai Giganti”.
Per motivi di spazio, dobbiamo citare sommariamente gli interventi di Marco Palladini, sulla qualità musicale di “Il pozzo dei pazzi” e “Occhi”, di Andrea Vecchia, “La notte di Agostino il topo”, di Stefania Rinaldi, sull’importanza del mondo animale nella drammaturgia di Scaldati, di Stefania Rimini sulle figure femminili, di Matteo Martelli su “Totò e Vicé”, e di Cosimo Scordato su “Di in-canto e di misericordia”.
Se vogliamo proprio fare un ulteriore accostamento, come non pensare a “‘Nzularchia“ e a “La cupa” di Mimmo Borelli, per l’uso della lingua adoperata nella sua purezza espressiva.
Intanto, il Teatro Biondo ha annunziato la messinscena di “Assassina”, con la regia di Franco Maresco, il 13 marzo 2024.

Valentina Valentini (a cura di), “Il teatro è un giardino incantato dove non si muore mai. Intorno alla drammaturgia di Franco Scaldati”, Titivillus Editore 2019, pp. 208, € 16.

Fin dall’antichità i sogni sono ombre psichiche e misteriche. Ispiratori, come la follia, di miti teatrali

(di Andrea Bisicchia) – “I greci e il sogno” che, insieme a “I greci e la follia”, “I greci e le passioni”, fa parte di un cofanetto, pubblicato da Raffaello Cortina, è certamente più appetitoso, perché ci permette di capire come si sia arrivati a “L’interpretazione dei sogni “ di Freud, anche perché i non addetti ai lavori poco sanno che, sui sogni, non c’è soltanto una vasta letteratura, ma anche una altrettanto vasta trattatistica che Guidorizzi ben conosce e che organizza, con competenza, in un volume che ha diviso in quindici capitoli, con un epilogo dedicato a “La tempesta” di Shakespeare.
In fondo, il sogno, come, del resto, la follia, sono dei percorsi di conoscenza alternativi, adatti particolarmente al teatro essendo, sia le fantasie oniriche, sia i disturbi mentali, veri e propri produttori di trame ambigue, adatte anche alla drammatizzazione della nostra realtà interiore. Guidorizzi sa bene che, per l’epoca antica, il sogno era il luogo dove si incontravano realtà improbabili che avevano lo stesso statuto delle ombre psichiche e che troviamo ai primordi della antropologia sociale. I sogni abbondavano nei racconti mitici che, a loro volta, venivano drammatizzati dai poeti tragici.
Guidorizzi però sembra convinto che il teatro dei sogni abbia un solo spettatore, ovvero la persona che sogna che, nell’epica antica, aveva la possibilità di incontrarsi con delle realtà improbabili, che alla fine certificavano delle esperienze reali.
Per rimanere in questo ambito, è sufficiente ricordare “Il sogno di Penelope” e, ancora, quelli di Ecuba, di Achille, tutti sogni premonitori che ebbero riscontro nella realtà. Penelope racconta il suo sogno a Ulisse, nelle vesti di mendicante, gli dice di aver visto venti oche che venivano sterminate da un’aquila, alludendo a quello che sarà lo sterminio dei Proci, Ecuba, mentre è incinta di Paride, sogna una fiaccolata, dalla quale si alzava un incendio che avrebbe distrutto Troia. C’è da dire che, in famiglia, il figlio Eleno era un indovino capace di interpretare i sogni, ed è lo stesso che, nel momento in cui fu catturato dai greci, rivelò loro che, per ottenere la vittoria, avrebbero dovuto far ritornare nell’esercito Filottete, evento che si avvererà.
Il sogno di Achille fu anch’esso premonitore dell’uccisione di Ettore, dopo che Patroclo lo aveva rimproverato: “Tu dormi, Achille, e ti sei scordato di me” (Iliade, canto XXIII). In verità, nel V secolo a.C., i sogni erano d’origine oracolare, nel senso che appartenevano alla categoria del fantastico e della verosimiglianza.
Nel suo libro, Guidorizzi, come è sua consuetudine, è sempre attento a dare delle indicazioni di lettura dei testi classici, con riferimenti agli argomenti trattati, lo fa per dimostrare come i sogni avessero lo stesso statuto delle ombre psichiche, essendo dei fenomeni notturni, spesso inquietanti, enigmatici, apportatori di incubi, ma sempre compagni dell’anima che, secondo Jung, è l’archetipo della vita stessa, il cui contenuto apparteneva non solo al mondo dei miti, ma anche a quello delle religioni, delle leggende e della favola.
È grazie ai sogni che si possono abbattere le barriere che si interpongono tra razionale e irrazionale e che si possono curare gli sbandamenti della nostra psiche, gli stessi che porteranno alla follia, argomento del terzo libro. C’è da dire che Guidorizzi non si sofferma soltanto a esaminare la potenza onirica, sparsa nei poemi epici e nelle tragedie, perché il suo intento è anche di carattere storicistico, facendo buon uso della trattatistica classica, anche romana, oltre che quella del cristianesimo dei primordi. I suoi riferimenti spaziano dal “Libro dei sogni” di Apollodoro, a cui dedica un intero capitolo, ricordandoci che la sua stesura era dovuta alla raccolta dei sogni che Apollodoro faceva lungo i suoi viaggi (lo si può leggere nell’edizione Adelphi), al “Trattato sui sogni” di Sinesio, noto per essere stato allievo di Ipazia, a cui lo aveva dedicato. Si trattava di una specie di Diario notturno, attraverso il quale, Sinesio andava in cerca di chiavi interpretative dei sogni che considerava messaggi divini.
Anche Aristide, nei “Discorsi sacri” raccontava, nei dettagli, una quantità di scene oniriche, accompagnate da pulsioni narcisistiche, tipiche dell’autore, vissuto al tempo di Marco Aurelio, dato che veniva considerato un “esaltato”. Come dimenticare “Il sogno di Scipione”, raccontato da Cicerone, quello di Scipione l’Africano che predisse, a Scipione Emiliano, le sue glorie future, ma anche la sua morte prematura.
Il lettore troverà, ancora, riferimenti alle opere di Tertulliano, Agostino e altri Padri della Chiesa che, però, ritenevano, i sogni, opera del diavolo. Notevoli le indicazioni bibliografiche, da Caillois a Devereux e soprattutto a Hillman, per il quale, le immagini dei sogni non sono altro che idee visibili. Non va dimenticato “Il libro dei sogni” di Borges, la cui lettura ci permette di rintracciare una storia generale dei sogni.

“I GRECI E IL SOGNO” di Giulio Guidorizzi, Raffaello Cortina Editore 2023. Con “I Greci e la follia” e “I Greci e le passioni” (di cui abbiamo recentemente scritto), fa parte del trittico in cofanetto “I Greci e l’anima”. € 44

La follia. Ha affascinato il teatro di tutti i tempi. Anche gli stessi eroi greci, tra miti e oracoli, spesso uscivano di testa

(di Andrea Bisicchia)Ci siamo occupati, sulle pagine di questo giornale, di “I greci e le passioni”. Con “I greci e la follia” continuiamo le nostre recensioni dell’importante trittico, di Giulio Guidorizzi, edito da Cortina che si conclude con “I greci e il sogno”.
Con questo volume, il noto grecista ci introduce a un tema che ha coinvolto le drammaturgie di tutti i tempi, essendo i disturbi mentali, che stanno a base della nostra psiche, materia a lungo trattata sui palcoscenici di tutto il mondo, a cominciare da quelli greci. L’autore ci ha riportato alle loro origini, a quelle fonti nascoste che appartenevano agli eroi dell’antichità, assorbiti dalle loro gesta che spesso li facevano andare fuori di testa. Erano i tempi in cui era stato possibile stabilire un nesso tra follia e mito, tra follia e ritualità, tra follia oracolare e follia profetica, quella, per esempio, dell’Oracolo di Delfi, della Pizia, che toccava ai profeti interpretare, con i loro enigmi.
Alle origini, si credeva che la follia facesse parte della “possessione”, come dimostrano le storie di Oreste, Aiace, Eracle, Fedra, o che fosse causata da una punizione divina, con cui venivano perseguitati gli eroi. C’è da dire che a essere posseduti fossero stati non solo i tiranni, ma anche i poeti che chiedevano l’aiuto degli dei per le loro composizioni, vedi “Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta”.
Dovremmo, a questo punto, chiederci se esistesse, presso i greci, un solco tra follia e malattia mentale, tra follia e irrazionale, e capire fino a che punto le alterazioni della mente potessero essere soltanto opera degli dei, convinti come erano che la divinazione fosse una forma di conoscenza. Non per nulla, la sapienza greca, su cui aveva lavorato molto Giorgio Colli, ebbe origini oscure, dato che i sapienti, come osserva lo stesso Guidorizzi, soprattutto quelli del tardo arcaismo, “praticavano forme non completamente razionali del pensiero”, che generavano la nascita di procedimenti simbolici e allegorici, ai quali ha fatto spesso ricorso l’ermeneutica recente. È chiaro che in quell’epoca, contrassegnata dalle forme potenti del mito, la follia diventava un vero e proprio assillo, essendo ritenuta una devianza dello spirito, tanto che razionalità e irrazionalità finivano per coesistere, anche perché le pulsioni contenevano un forte desiderio di conoscenza: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.
Guidorizzi, nel suo lungo excursus, parte da Omero, da come egli costruisse la psicologia e gli stati emotivi dei suoi personaggi, oltre che dalla sua capacità di distinguere la mente (noùs) dalla psiche, gli impulsi interni da quelli esterni che avevano in moltissimi casi il sopravvento. Inoltre Omero sapeva ben distinguere le passioni forti, come l’ira, lo sdegno, lo strazio, dalle passioni deboli, quelle che appartenevano agli istinti o all’energia incontenibile.
Guidorizzi sostiene che fu proprio Omero l’inventore del flusso di coscienza, grazie al quale le emozioni, i pensieri, si succedevano attraverso tormenti interiori e, nello stesso tempo, attraverso eccessi di energia (ménos) che producevano sopraeccitamenti, accompagnati dalla rabbia guerriera e da azioni sconsiderate che coinvolgevano più la sfera fisiologica, quella del corpo, per intenderci, che quella della mente. Eppure, a ben guardare, la psicologia e persino le neuroscienze ricercano le loro origini, sia al tempo di Omero, che a quello dei grandi tragici greci, quando lo smarrimento mentale (Ate), generava l’ira funesta di Achille, di Oreste, di Aiace, di Eracle, causata dalla scissione dell’io, che però doveva essere governata, come era riuscito a fare Ulisse.
Alla fine arrivò Ippocrate (460 a. C.) il padre della medicina scientifica, che tolse agli dei il monopolio della follia, dimostrando che non si trattava di “malattia sacra”, bensì di una vera e propria patologia che andava curata perché, in essa, era ben visibile l’estremo confine della natura umana. Ippocrate aprì la strada che portò all’“Età dell’inconscio”, quella esplorata, in tempi recenti, dal Premio Nobel Erich R. Kandel, che si può leggere nell’edizione Cortina.

“I GRECI E LA FOLLIA” di Giulio Guidorizzi, Editore Cortina 2009, pp. 226