UNA SOLA LINGUA – EXPO 2015: QUANTO È FACILE NON FARSI CAPIRE

savignac-56-giorno(di Piero Lotito) Prepariamoci: di qui a maggio 2015, quando Expo-Sesamo finalmente aprirà, verremo subissati di parole straniere. Non avremo scampo: alla già imponente massa di anglicismi che ci fa vivere in una sorta di quotidiana vita parallela, si vanno infatti aggiungendo termini sempre più specifici, relativi, quindi sempre più estranei e oscuri.
Gli anglomani, che amano dire «trendy» anziché «alla moda», «friendly» e non «affettuoso, amichevole», e così via, si stanno fregando le mani. Già passando in largo Cairoli e adocchiando la massa ferrosa dell’Expo Gate, si sentono a Londra. Che gusto ci sarebbe a chiamare le due bianche montagnole “Porta Expo”? Ma l’universo di Expo 2015 è aperto a tutti, e intende coinvolgere piccoli e grandi nella creazione di brevi filmati che interpretino in varie sfumature il tema dell’avvenimento (“Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”). Facile, con “Short Food Movie – Feed your Mind, Film tour Planet”. E i video saranno infine esposti sul “Wall di monitor” del Padiglione Zero.
Grande e chiaro – trasparente, diremmo – è il ventaglio di opportunità offerto da Expo: da “We-Women for Expo” a “Feeding knowlwdgw” e “Best practices”, da “Childrenshare” a “E015 digital ecosystem”, e poi “World Access to Modern Energy”, che lancia il bando per “Case Studies” sull’accesso all’energia. I milanesi e gli italiani in genere, si sa, bruciano dalla voglia di andare a vedere di che si tratta. Perfino i bambini, che avranno un “Children Park”, son lì che friggono. Ma forse verranno delusi, perché apprendiamo che il “Children Park” non è che un’“area tematica”. Il sito ufficiale di Expo, d’altronde, è un libro aperto, basta sfogliare. Chi vuol sapere come si aquistano i biglietti, deve però pazientare, perché l’area “Ticketing” (da ticket, non è così?) è in manutenzione, e così “MyExpo”.
Ma certo, l’Esposizione Universale, lo dice la parola, parla a tutto il mondo. E oggi è l’inglese la vera lingua dei popoli. Ci mancherebbe. Non a caso si calcola che i visitatori saranno più di 20 milioni, circa il 30 per cento dei quali costituito da stranieri. Gli italiani saranno dunque, più o meno, 14 milioni. E si vorrebbe che l’italiano (la lingua) soppiantasse l’inglese? Ma non scherziamo: soltanto Totò, pure lui universale ma non provinciale, potrebbe aggiornare una sua battuta ammazzacaffè, quella che in “Totò a colori” lo vede agitare il ciondolo in forma di cane sotto il naso di un borioso e sussurrare, con l’erre moscia: «Bubi, mordilo!». Oggi direbbe: «Foody, traduci!». Foody è il nome scelto per la mascotte di Expo.

(da “Il Giorno” di mercoledì 15 ottobre 2014)

Fuori la lingua / Ehi, chi ha allungato le mani sulle susine?

foto(di Paolo A. Paganini) Visto quest’anno sui cartellini di alcuni mercati della frutta e nei supermercati: “PRUGNE ALLUNGATE”. Vuol forse dire che, prima, erano corte, le prugne, e poi qualcuno s’è preso la briga di tirarle, di strattonarle, di allungarle? Come quando si porta dal sarto un vestito troppo corto. Il sarto tira giù il risvolto, e allunga maniche, calzoni e gonne. O come quando, metaforicamente, si dice che si allungano gli orecchi per ascoltare meglio; oppure si allunga la mano per chiedere la carità (ma si allungano le mani anche per rubare). E se si è a tavola, può capitare che qualcuno ti chieda di “allungargli” il pepe! E quante volte si è allungato il vino con l’acqua o si è allungato il brodo? E ci meraviglieremo se a un villano maleducato screanzato rompipalle qualcuno gli “allunga” un manrovescio?… Insomma, gli allungamenti li trovi in tante salse, ma mai tra la frutta al mercato con tanto di esplicativo cartello: “prugne allungate”. Eppoi, a buttarla in soldoni, costano di più le “prugne allungate” (che hanno avuto bisogno della manodopera – con quello che costa – per “allungarle”) o le “prugne corte”, alle quali ci ha pensato solo madre natura?
Un altro vezzo dello snobismo estivo da parte degli annunciatori radiotelevisivi: l’abuso del sintagma “… di sempre”. In morte di Lauren Bacall: “L’attrice più affascinante di sempre”, o, ancora, il corridore più veloce di sempre; l’estate più fredda di sempre, e ancora: la Range Rover più potente di sempre, la classifica dei film più belli di sempre. Ah, la maledetta schiavitù di mode e modi! Nessuno perderebbe la dignità o il rispetto delle umane genti se si limitasse a dire: l’attrice più affascinante della sua epoca; Il corridore più veloce della storia; l’estate più fredda del secolo, oppure (divina semplicità): la Range Rover più potente, e basta; e ancora: la classifica dei film più belli. Punto.

Fuori la lingua – Dài, aspetta un attimino. Ma ti pare? Assolutamente

fuori lingua foto(di Paolo A. Paganini) Certe abitudini linguistiche sono come i tic nervosi, quei movimenti involontari del volto, del naso, degli occhi, della bocca, ai quali è quasi impossibile sottrarsi. Chi ne è affetto, quasi non se ne accorge nemmeno più. A volte, come sono comparsi, da un giorno all’altro si dissolvono. Così, sembra ora scomparso il tic linguistico di quel cicisbeo di attimino, piccolo parassita, fastidiosa escrescenza, petulante nanerottolo del discorso. “Fra un attimino ti raggiungo”. Già attimo è uno spazio brevissimo di tempo, e il suo utilizzo ha talvolta una sua giustificazione, quasi una formula di cortesia. “Aspetta un attimo”, cioè: “Porta pazienza, scusa, faccio più in fretta che posso”, un attimo appunto. Attimino è uno spazio di tempo ancora più breve di attimo, un vezzoso scodinzolamento linguistico, cioè un quasi niente, cioè un attimino. L’invadente mostriciattolo, fino a poco tempo fa, s’infilava dappertutto. Non c’era trasmissione radiofonica o televisiva nella quale, prima o poi, non sbucasse improvvisamente fra le pieghe del discorso. Bastava la distrazione, proprio un attimino e, zac, eccoti l’attimino colpirti a tradimento.
Da un eccesso all’altro.
Ora è la volta di assolutamente, altra invasiva quintessenza di mostruosa ed ingombrante scemata. Di per sé l’avverbio ha una funzione rafforzativa (“Devo assolutamente terminare questo lavoro in giornata”). Ma non gli bastava e, facendosi largo a spallate, ha occupato una immeritata posizione di privilegio, che i facili e deboli assuntori di tic hanno subito entusiasticamente adottato. E, in realtà, il tronfio avverbio risolve assolutamente un bel po’ di problemi linguistici, sostituendosi a più lunghi e impegnativi ragionamenti, ponendosi come sbrigativo commento, specie se non si ha voglia di rispondere o di sviluppare un ragionamente. “Eh, a me sembra che questa sia una gran brutta faccenda!” – Assolutamente. “Bella squadra la Juve”. – Assolutamente. “Ti è piaciuto quel film?” – Assolutamente. “Mi sembra che tu abbia buone probabilità di farcela”. – Assolutamente. “Questo brutto tempo non finisce mai!” – Assolutamente. “Ma non ti sembra di essere un cretino a continuare a dire assolutamente?” – Assolutamente.

Il titolo d’una vecchia gloriosa rubrica: Fuori la lingua, su errori e questioni grammaticali

(di Paolo A. Paganini) Negli anni Settanta, il linguista milanese e critico cinematografico del giornale del pomeriggio “La Notte”, Camillo Brambilla, teneva una rubrica di successo, intitolata “Fuori la lingua”. Problemi linguistici, questioni grammaticali, curiosità gergali e amenità dialettali erano esaminate e spiegate con acume e ironia. Noi – dopo la chiusura dell’indimenticato giornale milanese – riprendemmo lo spirito e il titolo della rubrica sul periodico fiorentino “Civiltà della scrittura”. Ora, dopo altre dolorose vicende legate al mondo dell’editoria, riprendiamo la gloriosa rubrica su “loSpettacoliere”, nella sezione dedicata alla Lingua, sperando di rinnovarne i consensi.
L’amico e collega Gian Paolo Trivulzio, dunque, ci segnala, nell’articolo a piè di pagina 25 del “Corriere della Sera”, di sabato 1 febbraio, a firma Antonella Baccaro, un curioso e divertente refuso. A metà articolo, dedicato alla perdita della stima di sé stessi, l’autrice spiega che, per porre rimedio, non si ha “che da rimboccarsi le macchine e ricostruire la propria autostima”. È evidente che l’autrice intendeva scrivere maniche e non macchine.
La segnalazione del singolare errore ci consente di fare qualche considerazione d’ordine generale, dando altresì una spiegazione di più specifica pertinenza. L’amico Trivulzio si è chiesto: “Nessuno rilegge gli articoli, prima della loro pubblicazione?” La risposta è no. Oggi, in linea di massima, un giornalista fa tutto da sé. Si scrive il pezzo e, sulla base delle indicazioni grafiche, lo mette in pagina. Una volta esisteva un reparto revisori, o correttori di bozze, come preferite chiamarli, che provvedevano a ripulire i pezzi da errori, imprecisioni e refusi. I correttori erano quasi sempre fior di intellettuali, dei quali conservo personalmente il ricordo d’una stima altissima. Ma siccome erano utili sono stati soppressi. Normale no?
Da aggiungere, per un maggior controllo, che, oltre ai correttori di bozze, c’era sempre l’occhio vigile di capiservizio e capiredattori, se non del direttore, che un’ultima occhiata al “giro” dei testi e alle titolazioni lo davano sempre, in extremis, con scrupolosa attenzione. Ma anche questo rientra nel “c’era una volta”.
image002Un analogo discorso vale per il servizio d’apertura online di “La Stampa”, sempre in data sabato 1 febbraio. È evidente, anche in questo caso, che si tratta d’un errore malandrino, in questo caso più imbarazzante del precedente, perché ben più visibile e quindi più clamoroso (vedasi riproduzione). Ma è evidente, anche in questo caso, che si tratta d’un fastidioso refuso, d’uno svarione spiacevole e involontario…
Il redattore che ha scritto “nubigrafi”, ingenerando il sospetto di una grave dislessia, dunque, non intendeva certo dire “scrittori di nuvole”, ma semplicemente “nubifragi”. E purtroppo, in un giornale in linea, il riscontro delle bozze e il controllo delle titolazioni non è proprio possibile. Il “fai da te” coinvolge qui il lavoro dei redattori, più che in altri settori della comunicazione. E si vede.
Come ultima chiosa, aggiungeremo che molti si avvalgono di quel criminale strumento che è il correttore automatico, artefice di clamorosi misfatti. Si tratta di una pericolosa canaglia da mettere al bando. Qualche tempo fa, in una mia corrispondenza da Venezia, appoggiandomi a un ufficio stampa per scrivere un articolo da mandare al giornale per il quale lavoravo, scrissi il nome “Pasolini”. Sbalordito, ritrovai poi sul giornale ormai stampato… “Pistolini”. Il correttore automatico, becero e ignorante, si era rifiutato di accettare il nome del conosciutissimo scrittore e, ritenendo che fosse sbagliato, decise di correggerlo.
Chissà cosa passa per la mente d’un cervello elettronico!