Bagnacavallo: straordinario borgo medievale da scoprire. Piazze teatri palazzi, e ghiotte offerte di mostre e spettacoli

(di Andrea Bisicchia) – BAGNACAVALLO è uno dei borghi medievali più belli d’Italia, i cui reperti risalgono alle dominazioni romane, etrusche e galliche. Si trova a 10 chilometri da Ravenna, solo che possiede una storia monumentale ed artistica completamente diversa, sia per quanto riguarda l’architettura religiosa, dove svetta il complesso monumentale di San Francesco, col suo bellissimo Chiostro e le varie sale espositive, sia per quella civile con il suo Castello, noto come il Palazzaccio, di origine quattrocentesca.
Il Sindaco, però, ha scelto il Teatro Goldoni per fare partire il suo progetto culturale che ha presentato insieme all’Assessore alla Cultura e a quello regionale.
Il teatro Goldoni si è caratterizzato, soprattutto, negli ultimi anni, non solo per le illuminate programmazioni fatte da Accademia Perduta / Romagna Teatri, ma perché volutamente viene scelto da alcune Compagnie per dei debutti nazionali, è accaduto quest’anno con “Cosi è, se vi pare”, con Milena Vukotic, regia Geppy Gleijeses, e con “La madre”, protagonista Lunetta Savino, regia di Marcello Cotugno. Il teatro, edificato nel decennio 1835-45, fu intestato a Carlo Goldoni essendo stato suo padre medico condotto a Bagnacavallo per due anni, dove il futuro commediografo ha anche vissuto da fanciullo. Ha una platea a ferro di cavallo, tre ordini di palchi, col loggione e con parapetti continui, e fu interamente affrescato da Francesco Migliari, mentre i pregevoli stucchi e decorazioni si debbono al bolognese Antonio Tognetti, inoltre vanta un bellissimo sipario, recentemente restaurato, opera di Antonio Muzzi di Bologna.
Proprio da questa sede inizierà il 30 marzo una visita guidata, tutti i giorni alle ore 10,30, per scoprire la storia e i segreti del Teatro Goldoni, considerato la Scala della Bassa Romagna. L’invito è valido per tutti e in particolare per i turisti che frequentano, sempre più numerosi, il ridente borgo.
Ma non è tutto, perché un altro luogo meraviglioso da visitare è Piazza Nuova, costruita ad Anfiteatro nel Settecento, in forma ellittica, con i portici che si sviluppano a loggia, con un susseguirsi di 30 archi a tutto sesto, poggiati su pilastri squadrati, dove, negli anni passati, ci siamo recati, da Milano, per vedere alcuni debutti nazionali di Dario Fo, di cui ricordiamo il suo “Ruzante” e “Lu santu iullare Francesco”.
A questi luoghi, vanno aggiunte le architetture seicentesche del Palazzo Folicaldi, dove si fermò Pio IX, durante la sua visita in Romagna nel 1857, e del Palazzo Capra, noto per avervi ospitato la Regina Cristina di Svezia nel 1662 durante un suo viaggio a Roma.
Nel centro storico, si può ammirare la Torraccia, risalente al XIII secolo, uno degli edifici più antichi del borgo, insieme alla Pieve di San Pietro in Solvis che risale, addirittura al VII secolo, con notevoli affreschi trecenteschi.
“Benvenuti a Bagnacavallo” è lo slogan utilizzato per invitare chi abbia voglia di fare un giro nel ravennate e ammirare gli spazi architettonici indicati, in un territorio dove c’è dell’altro, come il Museo Civico delle Cappuccine, un ex convento settecentesco, dove si può ammirare il Gabinetto delle stampe antiche, oltre che un’ampia sezione dedicata all’arte contemporanea, il Museo delle Erbe Palustri, e l’affascinante Podere Pantaleone, un’oasi naturalistica di circa nove ettari, ricca di flora e fauna, tipiche della zona.
In ogni spazio verranno allestiti incontri culturali e spettacoli.

Il teatro privato di qualità ormai allo stremo. Venuto meno il ricambio generazionale. I discutibili “contributi a pioggia”

(di Riccardo Pastorello) – Qualche tempo fa Sabino Cassese ha pubblicato un articolo sul Corriere della sera, nel quale pone l’accento su una distorsione della macchina legislativa dello Stato italiano: solo metà delle leggi italiane sono di proposta parlamentare. L’altra metà è di proposta governativa e poiché dette leggi sono scritte negli uffici ministeriali da dirigenti di provenienza e cultura amministrativa, esse contengono già il relativo impianto amministrativo ovvero un “regolamento”. È presumibile che questo formi uno zoccolo duro di burocrazia.
In parte questo affligge anche le norme che regolano il sostegno dello Stato allo spettacolo dal vivo e in particolare al teatro di prosa. A questo proposito è necessario fare una premessa di carattere generale: i sistemi burocratico-amministrativi esenti da vizi o errori di progettazione non esistono. Ogni sistema, se viene mantenuto troppo a lungo nella logica dei punteggi, presenterà, con il passare del tempo, falle e margini di incompletezza, corruzione intellettuale e l’inevitabile opportunismo degli operatori. Il tutto mascherato da “oggettività della regola uguale per tutti”. Idea falsa e dannosa, ma oggi molto diffusa.
L’attuale strumento che regola il settore (il Decreto 27 luglio 2017 a Firma del Ministro Franceschini) è una sommatoria di regole e obblighi di cui gli operatori, dopo un iniziale periodo di sbandamento, hanno acquisito una notevole, quanto inutile, abilità di previsione e scaltrezza interpretativa della norma e dei suoi strumenti.
Il sistema di valutazione, che avrebbe dovuto basarsi su una presunta oggettività, si è irrigidito ancor più di prima. Manca infatti, nell’impianto e nella gestione del Decreto, la capacità ispettiva da parte del Ministero, anch’esso perso nei meandri della norma da esso stesso emanata e troppo peso è dato a un “carrello della spesa” nel quale è facile infilare quello che serve per non affondare.
Bisogna infatti ricordare che questo sistema fu adottato nel 2015, nella prospettiva di stroncare la “storicità”, intesa come rendita di posizione di privilegi acquisiti da alcuni soggetti giudicati improduttivi o che godevano di presunte rendite acquisite in un passato più o meno remoto.
Il risultato è stato che, da un sistema forse troppo fluido, nel quale l’amministrazione era costretta a assumersi le sue responsabilità, si è passati a un altro inzeppato da punteggi, obiettivi, coerenze, tolleranze, norme di valutazione delle cosiddette “qualità e quantità” talmente numerose e fantasiose da essere, nella sostanza, ancora più inadatte a dare un’immagine reale del teatro italiano.
A questo proposito si veda il decreto 31 dicembre 2020 (pandemia), fatto di quattro paginette che sono state seguite da decine di pagine di risposte (FAQ – Frequently Asked Questions – chissà perché l’acronimo debba derivare dall’inglese…) ai quesiti degli operatori, quesiti che continuavano a essere interpretati dagli stessi funzionari ministeriali di volta in volta in maniera fra di loro contraddittoria.
Insomma, un marasma nel quale alla fine si tollerano ancor oggi le vecchie incrostazioni e un irrigidimento secondo il quale il teatro privato, che agisce sull’intero territorio nazionale, viene isolato dai suoi tradizionali punti di riferimento rappresentati dai grandi teatri a partecipazione pubblica. Come se, in nome di un discutibile localismo senza fondamento, presentare al pubblico dell’intero paese i propri spettacoli fosse qualcosa di incoerente e riprovevole.
La suddivisione della prosa in settori sulla base sia di quanto già esistente che creati fittiziamente dal nulla (i Teatri Nazionali e i Teatri di rilevante interesse culturale – altresì TRIC), la progressiva distruzione dell’esercizio teatrale ridotto a qualcosa a mala pena tollerata, come se i teatri che non producono fossero covi di malaffare e l’aumento dei minimi di attività per ogni settore, ha incentivato una enorme quantità di produzione che non viene assorbita dal mercato e che muore subito dopo essere nata.
In definitiva, un sistema che non può più stare in piedi da solo, perché prescinde da una corretta gestione economica e aziendale del fatto teatrale.
Il tessuto teatrale italiano è inondato di prodotti creati apposta per fare numero e per accedere al contributo dello Stato, con poca coerenza artistica, con minima considerazione e necessità del loro reale peso economico, artistico e aziendale, con il solo scopo di favorire i soggetti che producono e non ciò che viene prodotto. In definitiva, tutti inseguono i numeri, in nome delle attività indicate dal Decreto, con una qualità che sta progressivamente peggiorando perché non vi è più libertà di scelta produttiva e distributiva. In nome del “primum vivere”, tutti si sono affrettati a diventare vittime e complici del dirigismo che trasuda dalla norma ministeriale.
Questo stato di cose, che ha praticamente azzerato il libero mercato culturale basato sulla qualità dei prodotti, sta falcidiando le imprese private serie e incentiva, con allarmante condiscendenza della maggior parte degli operatori, le cosiddette coproduzioni (fino a quattro soggetti) messe in piedi perché, a ogni cambio di teatro, esse risultino una emanazione diretta di questo o quel Teatro Nazionale, TRIC o Centro di produzione e non un’ospitalità, che dal punto di vista della norma ministeriale, è nominalmente irrilevante, al contrario delle norme ante 2015. Tutti coproducono con tutti, in un vorticoso movimento creato apposta per fare entrare dalla finestra ciò che esce dalla porta, non essendo alcuno di quei teatri di produzione in grado di raggiungere da solo gli obiettivi fissati dal Ministero. A parte pochissimi soggetti fra i quali il Piccolo Teatro di Milano, al quale è stata infatti concessa autonomia artistica e gestionale.
Il teatro italiano di qualità, che è ormai ridotto allo stremo, sostiene che queste regole siano arrivate al capolinea e che alla lunga porteranno al collasso anche i più forti fra i soggetti sostenuti dallo Stato.
Per oltre cinquant’anni il sistema teatrale italiano si è tenuto in equilibrio fra domanda e offerta: le compagnie di tradizione, la grande sperimentazione degli anni ’70 e ’80, e i teatri di emanazione pubblica, convivevano in un sistema nel quale le grandi formazioni del teatro privato, ogni due o tre settimane, si spostavano da un grande teatro a un altro e agli spettatori italiani veniva proposto il meglio della produzione nazionale. Carmelo Bene era riuscito persino ad abbattere la barriera fra prosa e mondo della lirica collaborando sinergicamente con il Teatro alla Scala. Continue occasioni per far vedere agli spettatori i migliori prodotti teatrali, tenendo unito il patrimonio culturale della nazione. Insomma, venivi escluso dalle programmazioni dei maggiori teatri se lavoravi male e non perché eri un soggetto privato, pubblico, sperimentale o tradizionale, innovativo o conservatore.
Potremmo discutere molto a lungo su quali siano tutte le cause di questo grave dissesto, ma il principale fattore di crisi, in questi casi, nasce sempre da uno squilibrio fra domanda e offerta. Un’offerta fuori controllo e che esiste solo grazie al sostegno statale e che oggi soverchia di così tanto la domanda, da aver creato un teatro con così pochi spettatori da non essere, in molto casi, un teatro che abbia giustificazione economica e, soprattutto, di missione culturale.
Bisogna inoltre sottolineare che il numero reale degli spettatori da trent’anni a questa parte è rimasto quasi uguale, senza che vi sia stato un reale ricambio delle generazioni degli spettatori. Basterebbe questo a dimostrare il fallimento di un sistema insidiato ormai da altri e ben più efficienti mezzi di intrattenimento, che non hanno però il valore e la coerenza culturale della rappresentazione dal vivo.
Per questo motivo e per liberarci da una mentalità statalista e dirigista, ci sono solo due strade percorribili, due ipotesi da far crescere e maturare quando si presenterà la necessità di un radicale cambiamento di rotta della politica italiana su questi temi di largo significato educativo.

LA PRIMA

Prendere atto che le risorse a disposizione dello spettacolo dal vivo (nel 2019 il FUS si attestava intorno ai 348 milioni di euro e se non ricordo male, Ministro Francesco Rutelli, nel 2005 si era arrivati intorno ai 500 milioni), sono del tutto insufficienti a sostenere il sistema in queste condizioni e che pertanto sarebbe necessario, a parità delle stesse, ridurre i soggetti pressappoco della metà, ponendo così fine alla politica che una volta si definiva dei “contributi a pioggia”, oggi ancora più praticata che in passato. La politica e le categorie devono assumersi la responsabilità di porre fine alla dispersione delle risorse, se non è possibile incrementarle. Larga parte del teatro del quale si sta discutendo, deve essere inviata in via esclusiva alle regioni, potendo lì essere un valido strumento di coesione sociale, invece che di dispersione improduttiva e di assistenza a ogni costo di iniziative di scarsa forza imprenditoriale e spesso anche artistica. Incentivare allo stesso tempo i soggetti in grado di progredire e migliorare costantemente la qualità dei prodotti e dei progetti produttivi.
È estremamente improbabile che quest’ipotesi possa realizzarsi. La politica e soprattutto le alte sfere burocratiche che oggi governano ogni settore del nostro paese, operano sul controllo e l’erogazione delle risorse e difficilmente vi rinunceranno.

LA SECONDA

Al sostegno dello Stato, per la musica, La Scala, quattro Enti Lirici e Santa Cecilia. Per la prosa il Piccolo Teatro di Milano, tre Teatri Nazionali uno al nord, uno al centro e uno al sud, oltre a Roma, tutti riconosciuti come autonomi. Alle regioni i Teatri di tradizione e i circuiti, con esclusive funzioni di ospitalità e funzionamento dei teatri gestiti o convenzionati: del tutto isolati dalla produzione. Per tutti gli altri soggetti, Tax Credit sino al 50-60% dei costi ammessi e coerentemente riferiti alla copertura finanziaria dello Stato, senza minimi, senza inutili chiacchiere su progetti che alimentano spesso un teatro in affanno per insufficiente profilo artistico, culturale e aziendale. Il resto delle risorse lo si ricavi dal mercato culturale e dal rapporto con gli spettatori. Al Ministero un’attività di severissimo controllo sul comportamento fiscale e normativo delle aziende e l’autorizzazione all’accesso delle imprese al sistema.
Il resto delle risorse derivi da un sistema, solido, nel quale l’esercizio teatrale, oggi osteggiato e distrutto, ritrovi una sua ragione d’essere attraverso il sostegno economico che si deve al terminale della catena produttiva.
Via i minimi che obbligano a fare ciò che non si vorrebbe fare, via le chiacchiere che descrivono progetti che quasi nessuno va a vedere e che interessano solo gli addetti ai lavori. Si torni a un professionismo che garantisca in ogni caso, anche per gli spettacoli meno riusciti, un livello di indiscutibile qualità. I giovani si associno alle strutture più grandi e crescano, per poi arrivare a dirigerle, invece di vivere in una perenne, ipocrita e dannosa finta libertà creativa e in indigenza economica e operativa.
Poi, un serio sistema di ammortizzatori sociali che tuteli i lavoratori dello spettacolo e relazioni sindacali più elastiche e intelligenti che tengano conto della ineliminabile debolezza economica del meccanismo teatrale.
Il sistema della sovvenzione diretta è al capolinea, poiché è divenuto inopportuno e pernicioso. Bisogna voltare pagina. O prepararsi a farlo.

Un assurdo per antonomasia ora assume la dimensione della tragedia tra la Grecia e l’Ucraina, tra Salamina e Kiev

Il regista greco Theodoros Terzopoulos ha portato in scena “Aspettando Godot”, al Teatro Comunale di Russi (Ravenna), in una edizione che segna una svolta nelle interpretazioni del capolavoro di Beckett.

RAVENNA, sabato 28 gennaio (di Andrea Bisicchia) – Ciò che colpisce, entrando nel bellissimo Teatro Comunale di Russi (Ra), dove è andata in scena una nuova versione di “Aspettando Godot”, con la regia di Theodoros Terzopoulos, è il suono di una sirena, come se si volesse avvertire il pubblico di alzarsi e di affrettarsi a raggiungere i rifugi antiaerei per evitare un improvviso bombardamento.
In verità, il regista greco ha soltanto retrocesso la data di composizione (1948) di qualche anno, certamente, pensata da Beckett subito dopo il secondo conflitto mondiale, e non solo, perché appare evidente il rimando alle sirene che gli abitanti di Kiev e dintorni ascoltano tutti i giorni.
Per intenderci, il capolavoro di Beckett, in questa messinscena che segna una svolta nella storia delle sue interpretazioni, è ambientato in una atmosfera di guerra con le sue conseguenze sulla vita degli uomini, ed è paragonabile ai “Persiani” di Eschilo che racconta un’altra guerra, quella della disfatta della flotta persiana nella battaglia di Salamina. I due testi, pertanto, stanno a base di quello che oggi, con perfetta sintesi, viene chiamato Teatro Predrammatico e Teatro Postdrammatico.
I personaggi sono, in fondo, dei sopravvissuti che vivono in un antro o, come dice Estragone, in un “buco”. Così, la scena ideata dallo stesso regista, alterna l’elemento geometrico, trattandosi di un grande quadrato, diviso in quattro elementi che si aprono e chiudono in forma di croce e che, a volte, si spalancano su un enorme buco, da cui, spesso, entrano ed escono i personaggi. I quattro elementi rappresentano le quattro forme della vita, quella della sconfitta esistenziale, quella di chi spera in un forza soprannaturale, quella di chi utilizza il potere (Pozzo) per dare un senso all’esistenza e quella di chi sopravvive a tutto, con la convinzione di andare avanti, come indicano le ultime battute del testo, Vladimiro: “Allora andiamo”, Estragone, Andiamo”, non dicono dove, del resto non importa saperlo, perché è in quell’andare che va identificato Godot, anche se le sirene, proprio nel finale, ritornano a suonare e l’andare ci porta alla feroce guerra che si sta svolgendo in Ucraina.
Ci si trova dinanzi a uno spettacolo che accosta la realtà di oggi a quella di ieri e di un lontano passato, in particolare a quello della Grecia del quinto secolo, tanto studiata dal regista, noto per le sue messinscene di alcune tragedie greche e, in particolare, delle “Baccanti”. La dimensione del tragico è presente nel suo spettacolo, dato che ha dato alla trama un andamento da tragico quotidiano, benché fosse accompagnato da stridule risate di Vladimiro ed Estragone che ascoltiamo prima che il grande quadro si apra verso l’alto per farci vedere, attraverso una fessura, i due attori Stefano Randisi e Enzo Vetrano, nella prova più autorevole della loro lunga carriera, che recitano sdraiati, dei quali si percepiscono i suoni e i volti, ma si ascoltano le voci, molto chiare e robuste che arrivano direttamente al pubblico senza quei silenzi ai quali siamo stati abituati dalle edizioni precedenti. Sono voci senza microfono, essendo il risultato di un lavoro certosino fatto dal regista, anche pedagogo, che non ha mai dimenticato il potere del Logos. La voce diventa ancora più potente quando appare Pozzo, interpretato da Paolo Musio che si mostra come un dio greco della vendetta, con, in pugno, due lunghi pugnali, mentre tiene sotto controllo il mal capitato Lucky, interpretato da Giulio Germano Cervi, applaudito dopo il suo monologo.
C’è ancora da sottolineare l’assenza del famoso albero striminzito, sostituito da un bonsai che, però, viene portato via dal ragazzo, interpretato da Rocco Ancarola, di cui avevamo visto il suo volto, in precedenza, incorniciato in una croce bianca, arrivato, per dire che Godot è impossibilitato a venire.
Va lodato anche l’impegno dei produttori dello spettacolo, a cominciare da Emilia Romagna Teatro Ert Teatro Nazionale e Fondazione Teatro di Napoli.

PROSSIMI DEBUTTI
21 gennaio-5 febbraio, Teatro Vascello di Roma,
8 febbraio, Teatro Comunale di Narni,
14-16 febbraio, Teatro Chiabrera di Savona,
18 febbraio, Teatro Comunale di Belluno,
24 febbraio – 8 Marzo, Teatro Bellini di Napoli.

Differenza tra relativo e assoluto, tra nuovo e novità, tra bello e bellezza. E a cosa mirare fra teatralità e teatralismo?

(di Andrea Bisicchia) Cosa chiediamo al teatro? Delle domande o delle risposte? Pur essendo consapevoli che, le risposte, siano più difficili da dare perché, dovendo presupporre conoscenze storiche, in particolare, quelle che hanno lasciato i Maestri, risultano, a volte, indecifrabili.
Ormai tutti gli artisti tendono, più che all’insegnamento, alla ricerca della novità che però è ben diversa dal nuovo, così come la bellezza è ben diversa dal bello. Il nuovo e il bello appartengono all’assoluto, la novità e la bellezza, al relativo. Il vasto repertorio lasciato dai Maestri, non va inteso come vastità, perché, spesso, si annulla nella sua stessa dismisura.
Oggi, stiamo assistendo, a un fenomeno di dismisura, sia in teatro che nelle arti figurative, dovuto a una eccessiva attività produttiva, dinanzi alla quale si rimane attoniti o indifferenti, perché ci si sente assediati da un facile eclettismo e da una incomprensibile provvisorietà. In questa vastità, tutti vanno in cerca di possibili varianti che però non raggiungono mai l’archetipo, ovvero la prima forma di creatività. Manca, in costoro, l’esercizio critico che non cercano neanche in coloro che, della critica, hanno fatto la propria professione anche perché, nella loro folle ansia di libertà, la considerano una categoria appartenente al passato, oppure in fase di esaurimento, senza riflettere che fu proprio la critica a confrontarsi con i Maestri, contribuendo alla loro creazione, oltre che alla nascita di un periodo che appartiene ormai alla storiografia teatrale e che vanta una ricchissima bibliografia.
Erano gli anni in cui il teatralismo era ben diverso dalla teatralità che richiedeva conoscenze e competenze che, a loro volta, facevano della scatola magica il luogo del mistero da rivelare allo spettatore, il quale viveva le stesse emozioni dell’artista.
Oggi, lo spettatore è indirizzato verso forme di disimpegno che hanno trasformato la complessità del teatro in faciloneria, visti i gusti particolari che risultano ai limiti dell’infantilismo. I giovani artisti vanno in cerca della provocazione, rinunziando alla vera narrazione, ma, soprattutto, dimenticando il passato, ribaltandone ogni giudizio di valore, perché si interessano ben poco del risultato da raggiungere. Insomma, non hanno “durata”, si smarriscono facilmente, perdendo i contatti, persino con quel presente nel quale hanno cercato una loro affermazione o, se vogliamo, ciascuno una propria iconicità, ovvero il principio a cui deve tendere un artista, non solo di teatro, se non vuole che i risultati siano deludenti. L’iconicità produce la popolarità che va considerata una virtù che conferma la “durata” dell’attore o del regista, però, se viene a mancare la virtù, la iconicità diventa breve quanto la popolarità, tanto da diventare, in poco tempo, invisibile, proprio perché la riconoscibilità vive vere e proprie forme di smottamento.
Nel periodo aureo, erano i nomi ad essere subito riconoscibili: Visconti, Strehler, De Lullo, Ronconi, Enriquez, Castri erano immediatamente riferibili a spettacoli di qualità artistica elevata. Seguì, negli anni Settanta, il periodo dei Gruppi, delle Cooperative, dei Collettivi, di Nuova Scena, anch’essi facilmente riconoscibili. Nel teatro del terzo millennio le Sigle, con cui certe compagnie si presentano, sono oscure, difficili da decifrare, da ricordare o da individuare, mancano delle vere personalità a cui fare riferimento, mentre i loro spettacoli risentono di una certa provvisorietà, essendo costruiti su contaminazioni, anche troppe, su ibridismi che non aiutano la comprensibilità. Quel che si nota è una specie di protervia intellettuale costruita su poche letture e su linguaggi sempre più omologati, che hanno dato vita a una nuova retorica, riconosciuta dallo stesso sistema politico che cerca di provvedere con aiuti economici che si differenziano ben poco dai sussidi o dal reddito di cittadinanza.
Per concludere, il teatralismo alletta ben poco, perché, al contrario della teatralità, vive di transitorietà.