Non il classico triangolo borghese, ma una incontrollabile partita di violenze e di soprusi, tra osceni pensieri malati

BAGNACAVALLO (RA), domenica 11 dicembre (di Andrea Bisicchia) Non siamo i soli a sostenere che lo Stabile di Torino sia il teatro più rappresentativo, tra i Teatri Nazionali, non solo per la coerenza delle scelte, ma anche per la qualità artistica delle sue realizzazioni che coinvolgono Valerio Binasco, Filippo Dini e il giovane Leonardo Lidi, tre registi che portano in giro tre spettacoli dello Stabile: “Dulan la sposa”, “Il Crogiuolo” e “Il Gabbiano”, che hanno riscosso successo di pubblico e di critica. C’è molta concretezza, nella programmazione, che si differenzia da quella, fin troppo teorica, del Piccolo, dove, appunto, si teorizzano: “Immersioni”, “Laboratori performativi”, “Residenze”.
Abbiamo visto al Teatro Goldoni di Bagnacavallo, esaurito, “Dulan la sposa”, di Melania Mazzucco, un radiodramma scritto circa vent’anni fa e interpretato proprio dallo stesso Binasco, il quale certamente fin d’allora ha pensato a come portarlo in scena, avendolo, quindi, elaborato per lungo tempo, fino a farne uno spettacolo decisamente inquietante, anche se, potrebbe sembrare, a prima vista, la storia di un “triangolo borghese”: marito, amante, moglie che, nel nostro caso, diventano: Lui, La sposa, La ragazza, ma che Binasco ha stravolto, creando un triangolo oscuro, sia perché è coinvolta una donna di colore, sia perché ha a che fare col genere noir, sia perché è il risultato di pulsioni ingovernabili che appartengono al lato più nero del nostro inconscio, dato che, quel che vien fuori, da questo triangolo, è uno strano rapporto di sessi, fatto di violenza, soprusi e passione incontrollabile.
Sono, pertanto, assenti gli elementi base del triangolo borghese: amore, seduzione, bisogno di una nuova relazione, desiderio, sostituiti da rapimento, violenza, sequestro, brama di possesso e predominio del maschile sul femminile, elementi che hanno a che fare con l’eros, piuttosto che col sesso tradizionale. Non si tratta, però, di una guerra dei sessi, come accadeva in Strindberg (vedi “Il padre”) o in Rosso di San Secondo (vedi “L’ospite desiderato”), ma di una guerra che coinvolge la psiche, soprattutto, del protagonista, che vive il suo amore per una giovane clandestina, senza nome, come una vera e propria patologia. La scena, tutta bianca, asettica, quasi l’interno di un luogo di cura, più che di una stanza dove la ragazza è segretata, è attraversata da lampi di luce oscura, ovvero dai pensieri malati di Lui che vive una attrazione conturbante, ai limiti dell’osceno.
Lo spettatore si trova dinanzi al “Teatro di coppia”, non quello già visto, bensì quello vissuto in una dinamica alla soglia dell’irrazionale e, pertanto, tragica, quasi sorretta da un principio distruttivo, per il quale, l’unico rimedio sarebbe quello di andare da un analista che non potrà, certo, offrire delle soluzioni, ma dei rimedi temporanei, perché l’ossessione erotica, ai limiti della libidine, è sorretta da impulsi celati che deformano le nostre relazioni e che portano all’irrimediabile, ovvero, al gesto estremo, che è quello dell’omicidio.
Il problema per Binasco, sia come regista che come attore, bravissimo nel rappresentare la sua volgarità, non è stato come risolvere il dissidio amare-tradire e neanche quello dello  scandalo, bensì, come risolvere scenicamente il rapporto eros e pathos che appartiene a una esperienza amorosa, le cui cause, spesso inconsce, escludono ogni forma di sentimento per donare, al corpo e alla fisicità, un apporto tra il realistico e l’onirico (si parla, spesso, di sogni nello svolgersi dell’azione), tra l’ambivalenza e la contraddittorietà, tra sofferenza e anelito di morte, perché l’attrazione fatale finisce per trasformarsi in angoscia, trasgressione, esasperazione, per le quali non esistono più margini di ricomposizione.
A questo punto, il regista ha dovuto lavorare molto sulle due attrici, Mariangela Granelli (La sposa) e Cristina Parku (La ragazza), molto applaudite dal pubblico, insieme a Binasco.
Lo spettacolo, che aveva debuttato al Gobetti di Torino il 30 ottobre, dopo una tournée di due mesi, da Terni a Perugia, a Genova, Bolzano, Pistoia, senza toccare Roma e Milano, ha concluso, il suo tour, al Goldoni di Bagnacavallo, in attesa della ripresa, nella Stagione prossima.

“DULAN LA SPOSA” di Melania Mazzucco, al Teatro Goldoni di Bagnacavallo, regia e interpretazione di Valerio Binasco, con Mariangela Granelli e Cristina Parku.

Ascanio Celestini, al Teatro Goldoni di Bagnacavallo. Virtuale guida in un immaginario Museo dedicato a Pasolini

BAGNACAVALLO (Ravenna), domenica 27 novembre ► (di Andrea Bisicchia) – Nel centenario della morte di Dante, le manifestazioni, in suo onore, sono state infinite, sia dal punto di vista accademico che teatrale e cinematografico. Lo stesso sta accadendo per il centenario della nascita di Pasolini (1922-1975) , a cui il teatro, in particolare, sta dedicando parecchia attenzione, a cominciare dall’idea di Walter Malosti di mettere in scena, prodotte da ERT, tutte le opere teatrali, affidando le realizzazioni a giovani registi, per continuare, sempre in Emilia Romagna, con il lavoro di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, che hanno creato, per RAI TRE, “Pasolinacci e Pasolini”, concentrandosi su scelte che riguardano la Poesia e  il Cinema. Anche Luigi Lo Cascio ha dedicato un assolo, con un monologo, diretto da Tullio Giordana, mentre un testo di Sergio Casesi, che ha ottenuto il Premio Enriquez, come novità italiana, messo in scena da Alberto Oliva, con Gea Rambelli e Stefano Tosoni, concluderà la sua tournée al Franco Parenti di Milano, nel mese di marzo.
Non poteva mancare Ascanio Celestini che, sabato 26 novembre, ha portato in scena “Museo Pasolini”, applauditissimo al Teatro Goldoni di Bagnacavallo, per la Rassegna organizzata da Accademia Perduta/ Romagna Teatri “Teatri d’inverno, sguardi sul teatro contemporaneo”.
Celestini si è chiesto come potrebbe essere un Museo, “Pier Paolo Pasolini”, di cui lui si ritiene il fondatore, il custode, oltre che la guida. Si tratterebbe, in fondo, di un museo immateriale, come lo è qualsiasi spettacolo, dentro il quale poter depositare, non solo le opere, ma anche ciò che non si trova più, come una poesia scritta quando l’autore aveva sette anni, la bandierina rossa che il Partito Comunista aveva nascosto durante le drammatiche giornate dell’occupazione di Budapest e, ancora, il corpo martoriato di Pasolini.
La guida introduce il suo pubblico in uno spazio minimalista, le scene, nel teatro di Celestini, sono semplicemente allusive, in questo caso, sono bastate delle luci naturali, distribuite in cerchio, al centro del quale c’è una sedia, da cui parte il racconto, decisamente cronologico, che inizia con la data di nascita 1922, l’anno della marcia su Roma. Nel 1929 scrive la sua prima poesia, dopo averne letto una della madre, l’anno coincide con la firma dei Patti Lateranensi, firmati dalla Chiesa con Mussolini, mentre, nella stessa data, Antonio Gramsci inizia a scrivere i “Quaderni dal Carcere”.
L’ intento della guida è quello di raccontare la vita del poeta, ma, nello stesso tempo, raccontare una fetta di Storia d’Italia, rifacendosi a quanto detto da Cerami: “Se noi prendiamo tutta l’Opera di Pasolini, dalla prima poesia che scrive a sette anni, fino al film su Salò, ultima sua opera, noi avremo il ritratto della storia d’Italia, dalla fine degli anni del fascismo, fino agli anni Settanta.”
In fondo, anche Celestini, facendosi complice della parola di Pasolini, oltre che interprete, con le sue continue digressioni, cerca di raccontarci, a suo modo, un pezzo della nostra storia, quella degli anni del fascismo, della resistenza, durante la quale perse la vita il fratello, quella degli anni Cinquanta, della periferia romana, con i suoi ragazzi di vita, con i giovani preti che fondano luoghi comunitari dove potere educare una gioventù sbandata, oltre che abbandonata a se stessa dalle istituzioni.
La parte più “scritta” è quella dedicata al golpe di Valerio Borghese, col rischio di una guerra civile, o quella che ha visto, da parte di alcuni facinorosi fascisti, caricare su una macchina una nota attrice, per violentarla e, magari andare, subito dopo, a brindare per l’accaduto. Sono immagini indelebili che stimolano la scrittura stessa di Celestini, costruita, non solo sulla improvvisazione, ma anche su una scrittura per immagine, un po’ automatica ed emotiva. Quando si arriva agli anni Settanta, i più turbolenti, quelli del fantomatico golpe, l’Italia sembra aver perso la sua identità e la sua capacità di reagire. In questi anni si consuma il delitto di Pasolini, i cui autori, sostiene Celestini, sono da ricercare in questa inettitudine e nell’aver vissuto un secolo di tragedie e di fragilità quasi inconsapevolmente.
Il compito del teatro è anche quello di spalancare le porte di questo secolo e mostrarlo senza cancellare nulla. Lo spettacolo, con il Goldoni esaurito, era fuori abbonamento.

TOURNÉE

Dopo la replica al Teatro Goldoni di sabato sera a Bagnacavallo, lo spettacolo di Ascanio Celestini andrà in scena:
27 novembre al Teatro Diego Fabbri di Forlì;
4 dicembre al Teatro Salvini di Pitigliano (GR);
3 febbraio 2023 al Teatro Excelsior di Reggello (FI);
4 febbraio 2023 al Teatro dell’Osservanza di Imola (BO);
15 e 16 febbraio 2023 al Teatro Alighieri di Ravenna;
17 febbraio 2023 al Teatro Sociale di Bergamo;
13 e 14 aprile 2023 al Teatro Storchi di Modena;
21 aprile 2023 al Teatro Torti di Bevagna (PG).

Due spettacoli comici: Vito (al Teatro “Masini” di Faenza) e Vincenzo Salemme (al Teatro “Diego Fabbri” di Forlì)

FAENZA/FORLÌ, domenica 20 novembre (di Andrea Bisicchia) – Senza barare, Accademia Perduta/Romagna Teatri, distingue, sempre, nelle Stagioni programmate per il Masini di Faenza, il Diego Fabbri di Forli’, il Goldoni di Bagnacavallo, il teatro di Prosa dal teatro Comico, la Danza, dalle Favole, si tratta di percorsi diversi che permettono allo spettatore di scegliere lo spettacolo che più gli aggrada.
Questo fine settimana, abbiamo visto “La felicità è un pacco”, con Vito al Masini, e “Napoletano? E famme ‘na pizza”, con Vincenzo Salemme, al Fabbri.
Abbiamo potuto, pertanto, sperimentare due forme di comicità diverse, una legata al modello romagnolo, tanto da poter parlare di una vera e propria scuola di cui, oltre Vito, fanno parte Maria Teresa Timo, Paolo Cevoli e Giacobazzi, l’altra a quello napoletano, di cui Salemme è il comico più accreditato, non solo per il suo talento, ma anche perché ha avuto, come maestro, Eduardo, nella cui compagnia si faceva ben notare accanto a Luca e a Salemme.
C’è da dire che la comicità, nei momenti di crisi della prosa, assume una sua capacità di rappresentare il presente, essendo il prodotto di un particolare momento storico e culturale, fatto di contaminazioni, di trasmigrazioni da un genere all’altro, da quello ironico e farsesco a quello grottesco e umoristico, dal “riso” in rivolta e ribelle del proprio tempo, a quello oscuro, se non drammatico, tipico dell’umorismo.
Vito ha portato in scena la storia di un commerciante dei nostri giorni, costretto a chiudere il proprio negozio di elettrodomestici, perché i suoi clienti comprano solo su Amazon e sono felici di aprire il pacco che “ride”. L’argomento riguarda la recente attualità, dato che gli acquisti, tramite Web, hanno reso la nostra vita sempre più sedentaria, incapace di reagire a un mondo dove si può ordinare di tutto, basta un click sul cellulare. Icilio, così si chiama il protagonista, non ci sta e si inventa una forma di resistenza, dopo aver chiuso il negozio e aver firmato un contratto con Amazon, che consiste nel non consegnare i pacchi, creando discredito nei confronti del datore di lavoro. Non per nulla, alla fine, durante gli applausi, si sentirà “Bella ciao”, per volere sottolineare il suo gesto resistenziale.
A questo punto, bisogna distinguere la comicità del solista, tipica di Vito, dalla comicità di complesso, tipica dello spettacolo di Salemme, ovvero il gesto comico, dal testo comico. Lo spettacolo di Vito è tutto costruito sul gesto comico, quello di Salemme sul testo comico, il primo sulla battuta pungente, il secondo su un concertato ben definito, che ha per oggetto i cliché della napoletanità, come dire che la comicità è sempre conseguenza del contesto in cui nasce, oltre che dell’attualità e delle varie forme di gergalità.
In fondo, il comico, non fa altro che rappresentare il corpo sociale del proprio tempo, spesso, di origine dialettale, o con inflessioni dialettali, tanto che la risata diventa sempre più corposa, se non coprotagonista, dato che il pubblico applaude continuamente, specie quando si trova dinanzi a figure eccentriche, accompagnate da una mimica ben coltivata.
Sono tante, oggi, le declinazioni del comico, c’è quello ribelle, quello amaro, quello un po’ sboccato, proveniente dal cabaret, dove si è fatto le ossa Vito, e c’è quello che oscilla tra la farsa scarpettiana e l’umorismo, tipico di Salemme. Un fatto è certo, i due teatri erano esauriti e il pubblico non smetteva di applaudire, dimostrando come la formula di Accademia Perduta, funzionasse perfettamente.

Info: 0543 26355 – accademiaperduta.it

TOURNÉE
“LA FELICITÀ? È UN PACCO”, con Vito:
Il 20 novembre 2022 – Teatro Comunale Walter Chiari, Cervia (RA)
Dal 28 dicembre 2022 all’1 gennaio 2023 – Teatro delle Celebrazioni, Bologna
21 febbraio 2023 – Teatro Borgatti, Cento (FE)
7 marzo 2023 – Teatro Dragoni, Meldola (FC)
4 aprile 2023 – Teatro Manzoni, Milano
5 maggio 2023 – Teatro Fanin, San Giovanni in Persiceto (BO) 

“NAPOLETANO? E FAMMI ‘NA PIZZA”, con Vincenzo Salemme:
Dal 25 al 27 novembre 2022 – Teatro delle Celebrazioni, Bologna
Dall’1 al 4 dicembre 2022 – Teatro Verdi, Firenze
Dal 13 dicembre 2022 all’8 gennaio 2023 – Teatro Manzoni, Milano
Dal 13 al 29 gennaio 2023 – Teatro Olimpico, Roma

 

Faenza. Il “Servo” affascina e commuove. E tutti in piedi ad applaudire Gleijeses, Maurizio Micheli, Lucia Poli & Co

FAENZA (Ravenna), giovedì 27 ottobre (di Andrea Bisicchia) Una recensione dovrebbe iniziare dall’analisi dello spettacolo, noi cominceremo dal pubblico che non è quello” immersivo” decantatato dalle avanguardie che sanno di retroguardie, un pubblico che non ama abbandonare la propria poltrona per essere, fintamente, coinvolto, bensì un pubblico che partecipa attentamente, che giudica e che, alla fine, applaude, se lo spettacolo merita.
Ebbene, il pubblico che, per tre sere, ha esaurito il Teatro Masini di Faenza, dove è stato rappresentato “Servo di scena” di Ronald Harwood, considerato un classico del teatro contemporaneo, non ha smesso di applaudire, alzandosi, persino, in piedi. Il testo che, nel passato, ha avuto degli interpreti eccezionali, sia in teatro che nella versione cinematografia, con Albert Finney, è uno di quei “miracoli” di composizione che riesce ad affascinare e commuovere.
L’argomento, abbastanza noto, sfrutta una particolare situazione storica, quella del secondo conflitto bellico, durante il quale, in Inghilterra, alcuni teatri furono rasi al suolo. L’autore ha dato voce a un gruppo di attori che non intendono mollare, per portare avanti il proprio repertorio shakespeariano.
Si tratta di una compagnia capocomicale che, da circa trent’anni, recita capolavori di Shakespeare, ne conosciamo la lunga carriera da alcune battute che riguardano la Direttrice di scena che dice di seguire Ser da vent’anni, ma che riguardano anche Norman che afferma di essere al “servizio” di Ser da quindici anni. Ser Roland è alquanto invecchiato, essendo al tramonto della carriera, Norman è più giovane, si presenta come un personaggio tipicamente inglese, una specie di assistente, quasi un alter ego del protagonista, “Miledy” ha il volto e il corpo di una splendida Lucia Poli, mentre la Direttrice di scena, un po’ scorbutica, perché vuole che tutto funzioni, persino la salute di “Ser”, è interpretata, con assoluta sicurezza e professionalità, da Roberta Lucca. All’inizio dello spettacolo, scopriamo che Ser si trova in ospedale, per accertamenti, e c’è chi lo esorta a saltare la recita, cosa mai accaduta. L’azione prende il via da una specie di smemoratezza di Ser che confonde l’”Otello” con la “Tempesta”, l’”Amleto” con “Romeo e Giulietta”, tanto basta per creare dei momenti di raffinata comicità.
Lo spettacolo vive in funzione dei suoi interpreti che, nel 1981, erano stati Gianni Santuccio e Umberto Orsini, con la regia di Lavia e che un decennio dopo, ebbe come interpreti Turi Ferro e Piero Sammataro, con la regia di Carmelo Ferro che firma anche quella di Geppy Gleijeses, la cui maturità interpretativa è senza precedenti e di Maurizio Micheli che , come un attore anglosassone, rispetta, però, tutti i tempi del “brillante” italiano.
Ciò che si nota, in particolare, è un forma di distanziazione, necessaria per evitare il pericolo dell’immedesimazione, e che è diventata uno “stile” recitativo da parte di Geppy che potrebbe, addirittura, interpretare “Arturo Ui“.
Come si è capito, non si tratta dell’ennesima commedia del Teatro nel Teatro, benché la scena tripartita, con un grande camerino in proscenio, con un retro palco, dove accade di tutto e con un telo bianco che lo separa dal palcoscenico dove vengono recitati alcuni passi della “Tempesta”, come ombre cinesi, ma si tratta di una commedia che porta, al centro della scena, l’Attore, genio e sregolatezza, come “Kean”, evocato da una battuta di Ser, mentre firma l’autografo a una giovane attrice. Un vero e proprio inno al Teatro.

Lo spettacolo debutterà a Bologna, Teatro Duse, il 28-29-30 ottobre, successivamente, dopo un giro in Provincia, sarà in scena, al Carignano di Torino, dal 15 al 27 novembre.