In tre cartelloni di Emilia Romagna (Bagnacavallo, Faenza e Forlì) i più attesi spettacoli della prossima stagione 2023/’24

GINGER E FRED”, CON MONICA GUERRITORE E CLAUDIO CASADIO, INAUGURANO LE STAGIONI DI ACCADEMIA PERDUTA ROMAGNA/TEATRI, I CUI DIRETTORI HANNO PRESENTATO I CARTELLONI 2023/24 DEL GOLDONI DI BAGNACAVALLO, DEL MASINI DI FAENZA E DEL DIEGO FABBRI DI FORLÌ.

(di Andrea Bisicchia) Una Stagione molto impegnativa quella di Accademia Perduta Romagna/Teatri, con ben cinque produzioni, tra le quali svetta “GINGER E FRED” con Monica Guerritore e Claudio Casadio, programmata nei tre cartelloni del Goldoni di Bagnacavallo, del Masini di Faenza, dove debutta in Prima nazionale il 15 dicembre, e del Diego Fabbri di Forlì.
L’impegno, oltre che artistico, sarà anche economico, visto che la Compagnia ha un notevole numero di interpreti. Ci intratteniamo un po’ su questa novità perché sta interessando tutti i teatri della penisola e perché avrà una tournée di almeno due anni, viste le richieste. Chi non ricorda il film di Fellini (1986 ) scritto, insieme a Tonino Guerra e Tullio Pinelli, con Giulietta Masini e  Marcello Mastroianni? Chi non si è commosso dinanzi alla storia di Amelia Bonetti e Pippo Botticella, in arte Ginger e Fred, due vecchi ballerini di tip tap, ormai “fuori del giro”, essendo diventata, la prima, una signora borghese, che ben si addice a Monica Guerritore, ed essendo, il secondo una specie di emarginato, squattrinato, non in buona salute, tanto da essere ricoverato in manicomio,  ben adatto a Claudio Casadio, reduce del successo di “L’Oreste”, anche lui un matto, ricoverato nel manicomio di Imola, vincitore, per la sua interpretazione, del Premio Franco Enriquez.
A giudicare dai riscontri, c’è una grande attesa da parte del pubblico romagnolo che sta esaurendo i posti già in abbonamento, grazie anche alla ricca e variegata programmazione presentata da Ruggero Sintoni insieme ai Sindaci e agli Assessori dei vari teatri.
Al Goldoni di Bagnacavallo, si potranno vedere Marina Massironi e Maria Amelia Monti in “IL MARITO INVISIBILE” di Edoardo Erba, divertente commedia su un annuncio di matrimonio che non sarebbe straordinario se il marito non avesse il difetto di essere invisibile. Segue lo spettacolo di Simone Cristicchi “ FRANCISCUS, IL FOLLE CHE PARLAVA AGLI UCCELLI”, che porta al centro dello spettacolo il rapporto tra santità e follia. Molto atteso è anche “ZIO VANIA” con la regia di Leonardo Lidi, che ha debuttato al Festival di Spoleto. Chiara Francini è protagonista di “FORTE E CHIARA”, una biografia raccontata con ironia e sarcasmo, mentre alla comicità leggera sono dedicati gli spettacoli “ FUNERAL HOME”, con Giacomo Poretti e Daniela Cristofori, che interpretano una coppia di anziani che litiga in occasione di un funerale, mentre spetterà a Giorgio Lupano, Gabriele Pignotta, Attilio Fontana darci una loro versione di quello che ormai è considerato un classico del teatro leggero: “TRE UOMINI E UNA CULLA”.
Riteniamo importantissimi gli spettacoli che hanno come oggetto la drammaturgia contemporanea, si va da “ I CUORI BATTONO NELLE UOVA”, protagoniste tre donne in attesa del loro primo figlio, con tutte le paure e le ansie che accompagnano le loro previsioni,  a “ IL MINOTAURO”, con Roberto Anglisani, con la regia di Maria Maglietta, che narra del rapporto tra il Minotauro e un Icaro ragazzino, vissuto con quel tanto di fantasia che vedrà i due diventare amici al di là della mostruosità.
Particolare successo lo si deve a “LETIZIA VA ALLA GUERRA. LA SUORA, LA SPOSA, LA PUTTANA”, con Agnese Fallongo, anche lei vincitrice del Premio Franco Enriquez, per la sua interpretazione. Seguono “NOTTI”, da “LE NOTTI BIANCHE” di Dostoevskij, firmato da Rajeev Badhan, “P COME PENELOPE” di Paola Fresa, “SE CI SEI BATTI UN COLPO” di Letizia Russo, con Fabio Mascagni e ancora, Andrea Pennacchi co “POJANA E I SUOI FRATELLI”, uno spettacolo alquanto graffiante e ironico.
A base delle scelte di Accademia Perduta Romagna / Teatri c’ è sempre un equilibrio tra ricerca e innovazione, con molta attenzione alla propria comunità, come si evince dalle programmazioni del Diego Fabbri di Forli e del Masini di Faenza, dove si possono vedere spettacoli di grande qualità, come “MARIA STUARDA” con la regia di Davide Livermore, che vede scontrarsi sulla scena due grandi attrici: Laura Marinoni ed Elisabetta Pozzi, o come “MINE VAGANTI” di Ferzan Ozptek, con Francesco Pannofino, , oltre che: “STORIA DI UNA CAPINERA”, regia Guglielmo Ferro, con Enrico Guarnieri e “SCUSA, SONO IN RIUNIONE”, con Vanessa Incontrada.
Al Masini si potranno vedere alcuni spettacoli di cui abbiamo parlato, ai quali aggiungiamo “LA COSCIENZA DI ZENO”, con Alessandro Haber, “QUASI AMICI”, con Massimo Ghini e Paolo Ruffini, “UN CURIOSO ACCIDENTE” di Goldoni, con Gabriele Lavia e Federica Di Martino, “NATALE IN CASA CUPIELLO” con Vincenzo Salemme, un vero e proprio omaggio Eduardo, suo primo Maestro.
Sia al Diego Fabbri, che al Masini, non mancheranno spettacoli di drammaturgia contemporanea che vantano i nomi di Claudio Bisio: “LA MIA VITA RACCONTATA MALE”, di Angela Finocchiaro e Bruno Stori: “IL CALAMARO GIGANTE”, Valeria Solarino: “GERICO INNOCENZA ROSA”, “L’ESTINZIONE DELLA RAZZA UMANA” di Emanuele Aldrovandi.
Insomma, nei tre teatri, saranno programmati circa cento spettacoli, in una Stagione che offre molte sorprese.

Fragilità del teatro. Riflessioni in occasione del dibattito sul declino del teatro. Un corpus di idee che dura da due mesi

(di Andrea Bisicchia) Il teatro è fragile, come sono fragili coloro che lo hanno scelto per professione, sempre attenti alle parole degli altri e a confutarle nel caso fossero contrarie dalle loro. La fragilità è tipica dell’essenza stessa del teatro, poiché il farlo coincide con l’esserne parte, interamente. Il regista, l’attore portano sul palcoscenico non solo una propria interpretazione del testo, ma anche una loro realizzazione, perché, nel testo scelto, si sono riconosciuti, o, meglio, hanno riconosciuto la loro fragilità nell’interpretarlo, nell’avergli dato una seconda vita, magari mettendo in crisi la propria, come avviene, in modo particolare, durante le prove, quando la fragilità si fa sentire maggiormente, perché conseguenza di incertezze, di paure di sbagliare per non essere andati fino in fondo, di rabbia, di speranze, sentimenti contrastanti che coinvolgono il fattore umano, con tutte le crisi che ne conseguono.

Il rischio. Mettere in scena un testo comporta un rischio, forse per la contraddittorietà delle idee che sta a base di ogni interpretazione. Il rischio vale, sia per la messinscena di un classico, che di un autore contemporaneo, specie se si tratti di una novità assoluta. Il concetto di rischio comporta nuovi sviluppi, dal punto di vista intellettuale, se si sbaglia, le reazioni possono essere di tipo diverso, come lo sono, in fondo, le giustificazioni, quelle che i teatranti sono bravissimi nel trovare. Se esistono dei rischi di sbagliare, esistono anche delle colpe che, spesso, si addebitano ad altri. C’è chi se la prende con qualche attore che si ritiene inadeguato, c’è chi se la prende con i pochi mezzi economici che ha a disposizione, coinvolgendo il potere di turno. Solo che la vera creativià è proprio l’opposto del potere, essendo la sua vera funzione quella di criticarlo.

La creatività, però, vince sempre e ha poco a che fare con le cause del declino che possono essere di tipo materiale o spirituale, nel primo caso si ha a che fare con la realtà economica degli allestimenti che ha poco a che fare con la spiritualità, nel secondo caso la ricerca è rivolta verso la dimensione del fantastico, di cui il vero teatro ha bisogno.

La fantasia fa rima con poesia, proprio quella che è venuta a mancare negli ultimi decenni, caratterizzati da un continuo ricorso ai fatti di cronaca che contengono un alto livello drammatico, ma che nei testi che ad essi si ispirano, si trovano dei racconti che ripetono, senza alcuna sublimazione, ciò che la cronaca ha raccontato molto meglio.

Ecco il motivo per cui tutto ciò che accade sul palcoscenico ha bisogno di una continua verifica che appartiene soltanto alla creatività e alla fantasia. Ed è, a questo punto, che si avverte un senso di colpa, che si combatte contro un vulnus che rende fragile qualsiasi operazione, a meno che fare cronaca col teatro non sia considerata una colpa. La comunità teatrale è certamente un microcosmo rispetto alla comunità sociale, benché abbia una sua storia millenaria, una sua appartenenza, un suo linguaggio, ma non la rendono unitaria, essendo formata da una molteplicità di artisti che, a loro volta, producono forme estetiche diverse, in alcuni casi, anche rischiose, che mettono in concorrenza istituzioni diverse, le cui colpe sono quelle di non vedere quanto accade sotto i loro occhi.

La fragilità è qualche volta compensata dal successo di uno spettacolo, si tratta di una fragilità che è anche produttrice di forme artistiche che appartengono non solo alle capacità dei registi o degli attori, ma anche al loro talento, senza il quale, non ci sarà grande arte.

I lettori dello Spettacoliere sono, in gran parte, professionisti del teatro che partecipano volentieri a quanto scriviamo, sono consapevoli che continuare a discutere, come scrive Umberto Ceriani, “fa parte del copione, perché se si mettesse una parola definitiva e inappellabile sui motivi della crisi del teatro, significherebbe una sola cosa, la fine dello spettacolo” e che, come osserva Rino BizzarroBisognerebbe trovare un autentico scatto di orgoglio che porti il teatro al vero auspicabile cambiamento”. C’è chi, come Angelo Colosimo, parlando degli spettacoli che invadono anche i piccoli borghi, osserva che “Il Teatro, ogni estate, produce la Sagra della Retorica”, c’è chi, come Maria Procino, fa parlare Eduardo: “Ritengo che chi fa teatro debba battersi per liberarsi dalle catene e pastoie burocratiche che gli impediscono di fare senza star troppo a pensare se il teatro muore o no, giacché, in effetti, esso non morrà finché ci sarà chi lo ama abbastanza da farlo”. C’è chi, come Daniele Timpano, dice di non essere mai contento, anche questa è una forma di fragilità.

La scomparsa di Renata Scotto (89 anni). Meravigliosa, forse insuperabile. Era considerata l’erede della Callas

MILANO, mercoledì 16 agosto ► (di Carla Maria Casanova) – È scomparsa stanotte a New York, dove risiedeva da tempo, Renata Scotto, soprano tra le grandissime della scorsa generazione. Piccola e rotondetta, a 17 anni quando debuttò (La Traviata a Savona) ci fu qualcuno che tentò di chiamarla affettuosamente “Renatina” per distinguerla dall’imperante Tebaldi, ma lei diede subito a vedere che non le si addiceva nessun diminutivo. E fu “la Scotto”.
Apparve sulla scena lirica nazionale al concorso AsLiCo 1953, che vinse debuttando nello stesso autunno ne “La Traviata” (Milano, Teatro Nuovo) per arrivare due mesi dopo alla inaugurazione della Scala con la Wally di Catalani, accanto alla grande sua omonima e a Mario del Monaco, direzione di Carlo Maria Giulini. Lei, vestiva i panni del ragazzino Walter (aveva 19 anni).
Renata Scotto un po’ anomala fu, in quanto, al di là della voce di grande estensione, soprattutto nel registro alto, ma anche forte di un centro perfetto, si espresse in un repertorio vastissimo (oltre 60 ruoli) e poi in campi alterni come la regìa, i costumi (Madama Butterfly all’Arena di Verona), la direzione di una scuola di canto.
Aveva una tecnica inattaccabile (“l’ho dovuta imparare rimettendomi a studiare da capo, su consiglio del mio grande collega ed amico Alfredo Kraus – ricordava- che mi consigliò di farmi sentire dalla sua maestra, la celebre Mercedes Llopert. E fu la mia salvezza!”  Voce inconfondibile, la sua, a volte un po’ vibrata nell’acuto, ma sostenuta da intensa espressività della parola. Erede Callas? Sì, forse la sola. Certo a quel livello. Lo si capì fin dalla tournée della Scala a Edimburgo (1957) quando sostituì la Callas nell’ultima recita di Sonnambula. Aveva 23 anni ed era praticamente sconosciuta. Comunque all’estero. Qualcuno arricciò il naso davanti alla sostituzione di questa pivellina, però, a recita ultimata, qualcuno azzardò persino che era stata migliore della titolare. Non esageriamo, ma vi assicuro che quella interpretazione (c’ero, all’inseguimento della Callas) anche a me questa Scotto risultò meravigliosa. E credo di non aver mai più sentito un’altra Sonnambula come lei (Callas a parte ovviamente). Amina è ruolo difficilissimo, trasparente, di assoluta leggerezza pur nella perizia stratosferica della cabaletta finale.
Renata Scotto è stata artista eccelsa. Ricordate la sua Lucia di Lammermoor alla Scala con Gianni Raimondi? Poi Riccardo Muti la portò anche a cimentarsi in Lady Macbeth! – Ho avuto la grande fortuna di sposare un musicista (Lorenzo Anselmi, violinista dell’Orchestra della Scala). Ho preparato tutti miei ruoli con lui.
Se la vicenda artistica della Scotto è stata fortunata, lo è stata anche la sua vita privata e questo per grande merito suo. Nel pieno della sua carriera, mi disse un giorno: “Adesso mi fermo per qualche mese. Voglio un figlio, anzi due. Vedi, adesso sono osannata da tutti ma un giorno non canterò più, dovrò dire addio al palcoscenico e allora? Non voglio diventare una vecchia signora con rimpianti. Voglio preparami una vita piena anche domani”.
Detto fatto: due figli, un maschio e una femmina (ora ci sono i nipoti).
Una linea analoga anche nel suo percorso. Ad un certo punto lei e il marito decisero di trasferirsi in America. “Ci abbiamo pensato molto, è stato anche doloroso, ma è stato bene così.”  Guarda caso, non ci ha messo molto a diventare regina del Met (“ho avuto la fortuna di trovare nel maestro Levine un perfetto collaboratore”). Anche lì, una grande intelligenza: “non ho mai voluto che i miei figli dovessero subire i ritmi della vita di una cantante. Ho preso uno studio fuori dalla mia casa di Manhattan, dove non c’è nemmeno un pianoforte. Né una foto di me in scena. La vita privata l’ho salvaguardata bene.”
Renata Scotto aveva lo sfizio di non truccarsi in scena. “Nella vita di tutti i giorni sì, altrimenti si corre il rischio di sembrare appena usciti dal letto” – diceva. “Ma in teatro, quei ceroni, quegli occhi cerchiati stravolgono l’espressione. Io non trucco mai.
Dicevo, di minuscola statura, eppure in scena era un gigante, e bellissima! Ricordo cos’era come Carlotta in Werther, di commovente femminilità. Accanto a Kraus, un altro del suo stesso pensiero: Niente tamburi, niente strombazzamenti. Eppure, in teatro, quali trionfi!
E le regìe di oggi trasgressive? “Secondo me tutto va, se c’è il rispetto per il compositore e il librettista. Non occorre lavorare alla vecchia maniera, però la tradizione va salvata. L’opera lirica ha un suo linguaggio da cui non si può prendere il largo.”
Se non avessi fatto la carriera di cantante lirica, cos’avresti fatto?
Avrei cantato comunque…”
E adesso, della vecchia guardia del melodramma chi resta? Ho paura nessuno.

Canto, direzione, regìa, messinscena. Tombola! “Aureliano in Palmira”: sublime. Questa volta, tre ore tutte al massimo

PESARO, domenica 13 agosto ► (di Carla Maria Casanova)
Aureliano in Palmira è il secondo titolo andato in scena ieri sera al Rof.
È una ripresa del 2014, regìa di Mario Martone, con cast vocale interamente rinnovato. Se il cast di allora fu, a mio ricordo, eccellente, con una straordinaria Jessica Pratt, quest’anno siamo nell’ordine del sublime. Una simile compagnia di canto non so dove la si potrebbe trovare altrove. Cito solo i quattro interpreti principali:
Sara Blanch, soprano (Zenobia), Raffaella Lupinacci, mezzosoprano (Arsace), Alexey Tatarintsev, tenore (Aureliano), Marta Pluda, mezzosoprano (Publia).
Le due signore (Zenobia e Arsace), nell’opera coppia innamoratissima (Arsace è en travesti) cantano per tutta l’opera ed è tanto cantare giacché sono due atti per un totale di oltre 3 ore e mezza. Magari un niente di recitativi del primo atto (105 minuti) poteva essere eliminato ma l’edizione critica – a cura di Daniele Canini e Will Crutchfield – ha fatto aprire tutto l’apribile, e d’altronde Rossini era molto sicuro del fatto suo se nei due mesi di preparazione (tempo per lui insolitamente lungo che non gli capiterà più di avere per dieci anni) scriveva a sua madre “scrivo musica divina”.
Eppure fu un fiasco solenne, il 26 dicembre 1813, inaugurazione della stagione di carnevale della Scala. Rossini aveva 21 anni, è vero, ma a suo attivo già molte opere di successo di cui le trionfali “Tancredi” e “Italiana in Algeri” di quello stesso anno. E allora come mai? Anche questo Aureliano fu tacciato di centone, per via di alcune arie prese da opere precedenti. Ed anche noi, saputelli, appena sentiamo le prime note della sinfonia esclamiamo con sussiego “Barbiere di Siviglia!” e ancora dopo, con altre parole – il libretto segna la prima collaborazione di Rossini con Felice Romani – riconosciamo le note pari pari di “una voce poco fa”. Solo che, particolare non trascurabile, il Barbiere verrà tre anni dopo (1816) ed anche se per lui ci fu alla prima un fiasco iniziale, il successo clamoroso delle repliche e la popolarità mondiale dell’opera oscurarono qualsiasi precedente, ivi compreso l’Aureliano.
E ad Aureliano torniamo adesso, lasciando dire al suo Autore che si trattava di “musica divina”. Tre i grandi ruoli, di cui quello di Arsace composto per il celebre castrato Velluti, qui sostenuto da contralto, mentre soprano e tenore hanno parti di “agilità di forza”. Merita citazione anche l’ultima bella aria di Publia (Non mi lagno che il mio bene) cantata con grande proprietà da Marta Pluda.
Ma che dire dei primi tre, dotati dell’impareggiabile dono di timbri morbidi, mai stridenti nemmeno nel registro superacuto e aiutati da uno stile belcantista che li porta a cantare apparentemente sempre privi di sforzo. Il personaggio del duce romano tutto patria e onore, per il quale la pax romana prevale anche sull’amore assoluto sarebbe un po’ melenso senza il canto avvincente del russo Alexey Tatarintsev. Zenobia, regina di Palmira, fiera e indomita ma perdutamente succuba dell’amore, al secolo la spagnola Sara Blanch, possiede acuti e sopracuti vertiginosi ed anche pause liriche ammalianti; Raffaella Lupinacci, che nel 2014 vestiva i panni di Publia, è passata al grande ruolo di Arsace, difficilissimo, più ancora che per la tessitura, per il duplice versante del personaggio, di guerriero, principe di Persia e di amante di Zenobia. Sarà questa dicotomia a prevalere anche nella storia, che a tutto antepone l’amore. Persino il dux Aureliano ne rimane soggiogato: i due, pur nemici e vinti, egli perdona e offre loro la libertà.
Nello spettacolo del Rof c’è alla fine un certo sbigottimento perché i due amanti perdonati (Zenobia e Arsace) si abbandonano a un interminabile amplesso così intenso da far pensare che tra i due ci sia qualcosa per davvero. O è tutto potere della regìa di Martone?
La regìa, valendosi delle scene di Sergio Tramonti e dei costumi di Ursula Patzak – trio presente al Rof dal 2004 – sortisce anche all’Arena Vitrifrigo uno spettacolo inebriante, rivisitando l’edizione del 2014 allora allestita al teatro Rossini. Siparietti trasparenti dividono lo spazio che viene occupato dal coro in pittoreschi costumi orientali con immagini alla Delacroix. Nel secondo atto, dove il libretto segnala una “amena collina alle sponde dell’Eufrate” Martone imbandisce una scena bucolica, con pastori e villanelle e persino tre capre (vere) che brucano sale e non mancano di lasciare le immancabili palline di sterco, spazzate con solerzia. Martone dice che questi “magici animali” lo accompagnano spesso nei suoi lavori. Animali in scena attori difficili da gestire ma sempre meno ingombranti degli elefanti di Aida.
Aureliano in Palmira è diretta dal maestro greco George Petrou, all’occorrenza anche regista di opera, operetta e musical. Qui autorevole gestore dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini e del coro del Teatro della Fortuna di Fano.
Il successo delirante che ha coperto di applausi tutti i fautori di questo Aureliano dimostrano che le lunghezze a teatro non contano, quando l’esecuzione è perfetta.

Repliche 15, 18, 21 agosto, ore 20.