L’Amazzonia di Salgado. In 200 foto la potente bellezza della Terra, perché non si trasformi in un mondo perduto

MILANO, lunedì 15 maggio (di Patrizia Pedrazzini)Il mio desiderio, con tutto il cuore, con tutta la mia energia, con tutta la passione che possiedo, è che tra cinquant’anni questa mostra non assomigli alla testimonianza di un mondo perduto”.
Missione impossibile? Magari anche no.
Ma è un dato di fatto che la sopravvivenza dell’Amazzonia, il tanto decantato “polmone verde” della Terra, fra deforestazione, incendi, cambiamenti climatici e scelte politiche, sia molto vicina a quel punto di non ritorno superato il quale la sola strada possibile che si delinea è quella che conduce all’estinzione.
Non solo per questo motivo, ma anche e soprattutto in quest’ottica, “Amazônia”, la mostra del settantanovenne Sebastião Salgado aperta alla Fabbrica del Vapore di Milano fino al prossimo 19 novembre, merita molto più di una semplice visita. Frutto di una serie di viaggi e di permanenze durati sette anni, l’esposizione è una sorta di coronamento del costante impegno con il quale il fotografo brasiliano ha sempre affrontato, nel lavoro come nella vita, i temi ambientali e sociali.
Il risultato sono oltre 200 fotografie in bianco e nero e di varie dimensioni capaci, nel loro percorso, di accompagnare il visitatore in una sorta di immersione totale nella foresta amazzonica, nella sua esuberante vegetazione come nella vita quotidiana delle sue popolazioni indigene, dentro e davanti a una natura di grande, impagabile bellezza.
Due i temi dell’esposizione. I paesaggi, prima di tutto. Dalle vedute aeree della foresta (con le immense cascate e i cieli tempestosi) alle montagne dalle cime avvolte nella nebbia; dall’immane foresta, un tempo chiamata “Inferno verde”, alle isole nella Corrente (l’arcipelago che conta fra i 350 e i 450 isolotti di ogni forma e dimensione che emergono dalle acque scure del Rio Negro). Fino ai cosiddetti fiumi volanti: la foresta amazzonica è il solo luogo al mondo il cui sistema di umidità non dipende dall’evaporazione degli oceani, ma nel quale ogni albero disperde, ogni giorno, centinaia di litri d’acqua, dando vita a fiumi aerei anche più grandi del Rio delle Amazzoni.
E poi, secondo tema, le popolazioni indigene: sono dodici i gruppi che l’obbiettivo di Salgado ha immortalato (in un centinaio di scatti, accompagnati da interviste video ai leader indigeni): uomini, donne, bambini, fieri e consapevoli, nei loro corpi, nelle acconciature, nei tatuaggi, nella loro gestualità, di rappresentare quel che resta di un mondo unico, proprio nel suo essere un mondo di sopravvissuti.
La mostra è inoltre accompagnata da una traccia audio immersiva che fa rivivere, per tutto il percorso, i suoni della foresta pluviale: il fruscio degli alberi, i lamenti degli animali, il canto degli uccelli, lo scroscio delle acque. E (tutti provenienti dagli archivi sonori del museo di Etnografia di Ginevra) la voce e i canti degli indigeni.
Molto più, quindi, di duecento immagini, seppure di grande tecnica e di innegabile potenza visiva. Ma, a ogni scatto, un tacito monito, una sorta di silenziosa e inascoltata domanda: perché tutto questo si sta avviando a scomparire?
Novità assoluta, inoltre, dell’esposizione milanese, il primo volume fotografico per non vedenti e ipovedenti: un libro che consente l’accesso alle fotografie grazie a immagini tattili, ventuno in tutto, realizzate su lastre di ottone.
“Sebastião Salgado. Amazônia”, Milano, Fabbrica del Vapore, via Procaccini 4, fino al 19 novembre 2023
www.salgadoamazonia.it

FOTO 1 (immagine esterna) Yara Ashaninka, territorio indigeno di Kampa do Rio Amônea, Stato di Acre, Brasile, 2016. (Foto Sebastião Salgado / Contrasto)

Robert Capa, la leggenda. Al Mudec di Milano oltre ottanta scatti del fotoreporter che immortalò la Storia del Novecento

MILANO, venerdì 11 novembre (di Patrizia Pedrazzini) – Che cosa c’è ancora da dire, di Robert Capa, che già non sia stato detto, scritto, spiegato, ripetuto, visto, scoperto, immaginato, in decine e decine di mostre a lui dedicate in tutto il mondo? Che è una leggenda? Certo che lo è. Per le sue fotografie, per la sua vita e la sua morte, perché se n’è andato giovane, a nemmeno 41 anni (era il 1954), saltando su una mina in Indocina, perché una guerra non era una guerra se non c’era lui a catturarla con l’obbiettivo, perché c’era lui, sulla prima ondata di mezzi da sbarco nelle acque davanti a Omaha, in Normandia, a immortalare la carneficina del D-Day. Perché “se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino”. Perché magari dopo di lui ne sono venuti di altrettanto bravi e forse di migliori, ma Capa è Capa. E davvero non c’è altro da dire.
Ed ecco allora al Mudec di Milano, fino al prossimo 19 marzo, “Robert Capa. Nella Storia”: oltre ottanta stampe del fotoreporter ungherese naturalizzato americano (che con Henri Cartier-Bresson e David Seymour fondò, nel 1947, l’agenzia Magnum Photos), sorta di racconto per immagini dei suoi maggiori reportages: dagli esordi a Berlino e a Parigi alla guerra civile spagnola, dall’invasione giapponese della Cina alla seconda guerra mondiale, dal viaggio in Unione Sovietica alla nascita dello Stato di Israele, fino all’ultimo incarico, come fotografo di guerra, in Indocina.
Scatti di guerra, soprattutto, ma anche di vita quotidiana, fatta di piccoli momenti di gioia e di voglia di riscatto. Tutti però legati da un unico fil rouge: l’azione, o meglio l’istinto che consente di cogliere l’istante decisivo. E allora poco importa se tecnicamente, magari, qualche fotografia non è perfetta, quando è intrisa di umanità. Come nel caso, clamoroso, delle sole undici foto sopravvissute dello sbarco in Normandia, tre delle quali sono presenti nella mostra milanese: immagini “mosse” (comprensibilmente, visto il contesto nel quale Capa lavorava), quindi di per sé non buone, tuttavia bellissime.
Da ricordare, al proposito, che il fotoreporter era partito con quattro rullini: 106 foto praticamente già vendute a “Life”, che tuttavia, per il tragico errore di un assistente che dimenticò di accendere la ventilazione dell’essiccatore, non videro mai la luce. Solo un rullino rimase in parte intatto, quello che permise di consegnare alla Storia le sole undici fotografie esistenti al mondo dello sbarco a Omaha Beach, subito ribattezzate le “Magnificent Eleven”.
Non mancano, nella mostra milanese, pezzi da novanta come quello del contadino siciliano che indica a un ufficiale americano la strada presa dai tedeschi (1943), o quello della morte di un miliziano lealista (1936), che lo consacrò come “il più grande fotoreporter di guerra del mondo”, parole del “Picture Post” (e nonostante lo scatto sia stato, in anni più recenti, al centro di una querelle intorno alla sua autenticità).
Ma nemmeno mancano i ritratti: quello di Trotsky sul palco di un comizio (“rubato” da Capa grazie alla piccola Leica che teneva in tasca, perché l’accesso ai fotografi era vietato), quello di Chiang Kai-Sheck, o dell’amico Steinbeck, lo scrittore con il quale intraprese, nel ’47, un difficile viaggio oltre la cortina di ferro, testimoniato al Mudec da una quindicina di scatti finora mai esposti in una mostra italiana. Le rovine di Stalingrado, le fattorie collettive, le facce serie dei moscoviti, le contadine che ballano, i bambini. Al rientro, dovette sottoporre al visto della censura oltre quattromila negativi, e non tutti “passarono”. Perché “più vai a Est, con una macchina fotografica, meno piaci alla gente, per molte ragioni: e la maggior parte non sono buone”.
E c’è, a chiusura del percorso, la sua ultima foto, scattata nell’attuale Vietnam il 25 maggio 1954, il giorno in cui morì. Si vedono, di spalle, alcuni soldati che camminano avanzando nelle risaie, preceduti, sullo sfondo, da un carro armato. Ma le figure erano ancora troppo lontane. Allungò il passo per avvicinarsi, cercando una posizione migliore. Aveva con sé una Nikon con pellicola a colori e una Contax per il bianco e nero. Dopo l’esplosione, gliela trovarono ancora stretta nella mano sinistra.

“Robert Capa. Nella Storia, Milano, Mudec, via Tortona 56, fino al 19 marzo 2023.

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Bosch il visionario. A Milano gli incubi e i sogni del genio fiammingo (e dei suoi “eredi”). Guardando al Rinascimento

Copia da Jheronimus Bosch, “Scena con elefante”, XVI secolo. Olio su tela (Firenze, Gallerie degli Uffizi). In alto, a sin.: un particolare

MILANO, mercoledì 9 novembre ► (di Patrizia Pedrazzini) Jheronimus Bosch. Il Maestro dei mostri e degli incubi. Il pittore dei sogni e degli inferni. Del vizio e della redenzione. Le sue visioni oniriche fatte di incendi e di creature spaventose, i suoi mondi curiosi popolati di figure fantastiche, la grande ironia con la quale mise in scena, su tela, i conflitti dell’uomo rispetto alle regole imposte dalla morale religiosa, hanno scomodato, nel tempo, dottrine differenti, non ultima la psicoanalisi.
Rimane tuttavia arduo, nonostante le numerose “letture” della sua opera, perdersi nella visione di un dipinto di Bosch e percepirvi qualcosa di “rinascimentale”. Almeno per lo spirito, e il pensiero, che alimentarono il Rinascimento, e l’Umanesimo, in Italia e più in generale nel meridione europeo.
Per questo la ricca e preziosa mostra allestita (fino al prossimo 12 marzo) a Palazzo Reale e forte di alcuni celebri capolavori del genio fiammingo vissuto fra il 1453 e il 1516, appare inedita fin dal titolo: “Bosch e un altro Rinascimento”. Nel senso, spiegano i curatori, di un Rinascimento alternativo, lontano da quello governato dal mito della classicità, a riprova dell’esistenza di una pluralità di Rinascimenti, con centri artistici diffusi in tutta Europa. Ed è quanto il percorso espositivo si prefigge di spiegare e dimostrare.
Una “lettura” nuova e affascinante, che tuttavia in alcun modo riesce ad arricchire il limpido, incantevole, magico splendore delle opere esposte. A cominciare da quella che apre il percorso, totalmente immerso nel buio delle sale, e dal quale emergono, luminosi gioielli, i dipinti: il “Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio” (del quale esistono oltre quaranta repliche), che solo un paio di volte ha lasciato il museo di Lisbona che lo custodisce e che per la prima volta approda in Italia. Per passare al “Trittico del Giudizio Finale”, prestito da Bruges; alla tavola “Meditazioni di San Giovanni Battista”, dal museo Galdiano di Madrid; al “Trittico degli Eremiti”, dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Oltre all’intero ciclo dei quattro arazzi dell’Escorial e al cartone dell’Elefante, realizzato per il quinto arazzo della serie, andato perduto.
Sono in tutto cinque i dipinti di Bosch in mostra a Palazzo Reale (pochi sono infatti i lavori sicuramente attribuiti al Maestro, il che spiega come molto raramente lascino le sedi di appartenenza), ma, decisamente, bastano per sostenere l’intera esposizione. Che annovera anche “pezzi” di artisti della sua Bottega e della sua Scuola, oltre a opere di Jan Brueghel il vecchio, di Albrecht Dürer (“Il mostro marino”), dell’incisore Pieter van der Heyden, per dirne solo alcuni. In tutto 104 lavori, fra dipinti, sculture, arazzi, incisioni, bronzetti, volumi antichi, oggetti rari e preziosi.
Perché il linguaggio artistico di Jheronimus Bosch travalicò molto presto i limiti, geografici e culturali, del nord Europa per raggiungere, e contagiare, il sud del continente e arrivare persino oltreoceano. Anche se il Paese nel quale più trovò riscontro fu da subito la Spagna, dove non a caso ancora oggi si trova la maggior parte delle grandi opere del fiammingo, distribuite fra il Museo del Prado e il Monastero dell’Escorial. Tuttavia, pur affermatasi nella penisola iberica, la “moda” delle immagini “alla Bosch” ne oltrepassò presto i confini, toccando l’Italia e poi tutto il resto d’Europa. Grazie alla stampa, soprattutto, e ai grandi incisori fiamminghi che immediatamente si cimentarono a riprodurne i lavori.
Mentre, su un altro fronte, la tematica, sviluppatasi fra Cinque e Seicento inoltrato, dei riti magici e dei sabba infernali, a loro volta legati all’elemento diabolico e misogino della stregoneria, non poteva prescindere dall’immaginario boschiano e dalle sue invenzioni fantasiose e grottesche. Che, al termine della mostra milanese, è possibile rivivere grazie all’opera audiovisiva “Trìptiko. A vision inspired by Hieronymus Bosch”, che mette in scena un viaggio nel mondo onirico del pittore, riportandone in vita i dipinti grazie a tecniche di animazione digitale.
Da non perdere.

“Bosch e un altro Rinascimento”, Milano, Palazzo Reale, fino al 12 marzo 2023.

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Andy Warhol. A Milano oltre 300 opere del genio della Pop Art. Che prese un barattolo di zuppa e ne fece un’icona

MILANO, sabato 22 ottobre ► (di Patrizia Pedrazzini) – Chissà se, fra cento, duecento anni, Andy Warhol sarà passato alla storia (dell’arte) come “il Raffaello della società di massa americana” (parole del critico e saggista Achille Bonito Oliva), oppure, molto più prosaicamente, come colui che prese un barattolo di zuppa (Campbell’s) e lo fece diventare un’icona. Sta di fatto che, comunque, questo newyorkese figlio di modesti immigrati slovacchi nato a Pittsburgh, in Pennsylvania, e morto nel 1987 a 58 anni, si annovera a pieno titolo come figura predominante della Pop Art nonché fra i più influenti artisti del XX secolo.
Così, dopo un’assenza di oltre dieci anni, ora Milano alla sua arte unica, coraggiosa e innovativa dedica, nelle sale della Fabbrica del Vapore, una bella e ricca mostra, che rimarrà aperta fino al prossimo 26 marzo. Oltre trecento opere, suddivise in sette aree tematiche, dai lavori degli anni Cinquanta (che realizzò come illustratore commerciale) al suo ultimo decennio di attività, connotato, nel pieno degli anni Ottanta, dal rapporto con il sacro.
Si tratta per la maggior parte di opere uniche: dai primi disegni alle icone di Liz, Jackie, Marilyn, Mao, Flowers, Mick Jagger, ai ritratti. Tele, carte, sete, fogli di latta, foto Polaroid, acetati. E l’intuizione vincente, che lo rese celebre e ricco: ripetere la medesima immagine più e più volte, in modo da farla entrare per sempre nella mente del pubblico. Così la sua celebre Monna Lisa si trasformò, ripetuta per ben trenta volte, da esclusiva opera d’arte in un’opera di tutti e per tutti, e il linguaggio della pubblicità si fece arte.
Come accadde, nel 1962, per la serie “Campbell’s Soup Cans”, composta da 32 piccole tele, tutte delle stesse dimensioni, raffiguranti ognuna l’iconico barattolo di zuppa. Per passare ai ritratti delle celebrità dell’epoca, inclusi Che Guevara, Michael Jackson, Elvis Presley, Brigitte Bardot, Marlon Brando, Liza Minnelli, fino a Grace Kelly, Farah Diba, Elisabetta II, Gianni e Marella Agnelli, gli stilisti Valentino e Armani. Emblematica, su tutte, la “Gold Marilyn Monroe”, conservata al Moma di New York, dove una delle donne più affascinanti della storia americana viene rappresentata su uno sfondo oro, come in una tavola del Trecento raffigurante una Madonna.
Per non parlare delle Brillo Box, sculture identiche alle scatole di pagliette saponate Brillo in vendita nei supermercati.
C’è tutto questo, e molto altro ancora, nella mostra milanese, inclusi “pezzi” storici come il computer Commodore Amiga 2000 con le sue illustrazioni digitali, la BMW Art Car dipinta dallo stesso Warhol (con video), e la ricostruzione fedele della prima Factory, lo studio al 231 East 47th Street di Manhattan, punto di ritrovo per artisti nonché sede di feste d’avanguardia, dove i collaboratori di Warhol davano corpo e vita alle famose serigrafie. Riproducendo su grosse tele, più e più volte, la stessa immagine e alterandone i colori, allo scopo di svuotare l’immagine stessa del suo significato originario, in omaggio al principio per il quale l’arte deve essere “consumata”, come qualsiasi altro prodotto.
Per dirla con lo stesso Warhol: “Ogni cosa ripete se stessa. È stupefacente come tutti siano convinti che ogni cosa sia nuova, quando in realtà altro non è se non una ripetizione”.

“Andy Warhol. La pubblicità della forma”, Milano, Fabbrica del Vapore, fino al 26 marzo 2023 

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