Expo 2015 celebra il Van Gogh della terra, dei contadini, del duro lavoro dei campi. Ma non ci sono i grandi capolavori

MILANO, sabato 18 ottobre 
(di Patrizia Pedrazzini)Vedi, mi sono proprio sforzato di rendere l’idea che queste persone che mangiano le loro patate alla luce di una piccola lampada abbiano vangato la terra con le stesse mani che allungano nel piatto. Quindi il quadro trasmette l’idea che si siano guadagnati onestamente il loro cibo”. L’opera alla quale Vincent Van Gogh fa riferimento, in questa lettera al fratello Theo del 30 aprile 1885, è “I mangiatori di patate”, una delle più celebri del pittore olandese. Davvero un peccato che il quadro, che ritrae, all’interno di una povera stanza, alcuni contadini intenti a consumare il pasto serale servendosi da un unico piatto di patate, mentre uno di loro sta versando il caffè, non sia presente, nella versione olio su tela, all’interno della mostra che Milano dedica (nelle sale di Palazzo Reale, fino all’8 marzo) al pittore. Anche se dell’opera, che in realtà non poteva mancare nell’ambito di un’esposizione dal titolo “Van Gogh. L’uomo e la terra”, è possibile apprezzare la litografia, che l’artista realizzò prima del dipinto e della cui idea era particolarmente entusiasta.
Curata da Kathleen Adler, e forte di prestiti provenienti in primo luogo dal Kröller-Müller di Otterlo, quindi dal Van Gogh Museum di Amsterdam, dal Museo Soumaya di Città del Messico, dal Central Museum di Utrecht, oltre che da collezioni private, l’esposizione intende celebrare, nel 125° anniversario della morte dell’artista, e in linea con il tema di Expo 2015 (che ne è partner), il profondo rapporto che fin dall’inizio legò il pittore alla natura e alla terra. Un uomo, Van Gogh, che, come scrive lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan, “si pone dalla parte dei diseredati, dei contadini cui l’industria non toglie solo la terra e il pane, ma la dignità di esseri umani, il sentimento dell’eticità e della religiosità del lavoro”.
Articolata in sei sezioni (L’uomo e la terra, Vita nei campi, Il ritratto moderno, Nature morte, Le lettere, Colore e vita), la mostra milanese celebra quindi il particolare legame, con la campagna appunto, e con le sue fatiche, di un pittore che, intrapresa la carriera artistica alla non giovanissima età di 27 anni, ebbe solo dieci anni di tempo (nato nel 1853, morì nel 1890) per trovare la propria strada e cercare di affermarsi, ma che in vita non conobbe mai il successo.
Delle 47 opere esposte, numerosi sono i dipinti e i disegni dedicati a ogni singolo aspetto del lavoro dei campi (la zappatura, la semina, la falciatura, la cura degli animali, il taglio della legna, nonché i ritratti, soprattutto delle donne della campagna), fra i quali spicca la grande tela “Pastore con gregge di pecore”, che più di altre esprime l’ambizione di Van Gogh di diventare un vero pittore di contadini, sulle orme dell’artista francese Jean-François Millet, che tanto ammirava. Di grande impatto anche la sezione dedicata alle Nature morte, dove frugali piatti di patate o di cipolle si alternano a nidi di uccelli, a semplici oggetti di uso quotidiano poggiati su un tavolino (“Natura morta con cappello di paglia”), a delicati fiori (“Rose e peonie”), questi ultimi nella più pura tradizione artistica olandese.
E poi, alla fine, il colore, che sembra quasi esplodere, in tutta la sua potenza, nell’ultima sezione, riservata ai lavori realizzati ad Arles, a Saint-Remy, nel sole della calda Provenza. Dove l’artista abbandona i bruni colori terrosi delle prime opere per accendere la tavolozza di arancione, di giallo, di azzurro, di blu, di tutte le sfumature del verde. Quadri che catturano per l’energia che trasmettono. Dall’incantevole “Veduta di Saintes-Maries-de-la-Mer” a “Uliveto con due raccoglitori di olive” (dipinto vicino all’ospedale di Saint-Remy, dove soggiornò nel vano tentativo di guarire le psicosi delle quali era preda) a “Paesaggio con covoni e luna che sorge”, del 1889, con le montagne blu e la luna che ha i colori del sole. E qui veramente si avverte l’assenza, nella mostra milanese, dei grandi capolavori. “Cosa altro si può fare, pensando a tutte le cose la cui ragione non si comprende, se non perdere lo sguardo sui campi di grano?”, scrive il 2 luglio dello stesso anno a Wilhelmien, la più giovane delle sorelle. Morirà il 29 luglio dell’anno seguente, a 37 anni, due giorni dopo essersi ferito con un colpo di pistola.
Il progetto espositivo di Palazzo Reale porta la firma dell’architetto giapponese Kengo Kuma che, ispiratosi al paesaggio rurale e ai suoi colori neutri, ha trovato nella iuta, della quale ha rivestito gli spazi della mostra, il materiale più adatto a ricreare la matericità, l’organicità e l’odore della terra, rimandando insieme, per il suo intreccio, alle linee libere e morbide che caratterizzano la pittura di Van Gogh.
“Van Gogh. L’uomo e la terra”, Milano, Palazzo Reale. Fino all’8 marzo 2015
www.vangoghmilano.it

In concomitanza con la mostra la Fondazione Cineteca Italiana propone nel mese di dicembre 2014 una rassegna intitolata Van Gogh. L’uomo e la terra: i film. Le proiezioni si terranno presso lo Spazio Oberdan di Milano. Il programma completo su
www.cinetecamilano.it

Milano celebra Segantini: più di 120 opere per raccontare la luce e le emozioni di un gigante della pittura

collage segantiniMILANO, mercoledì 17 settembre
(di Patrizia Pedrazzini)La prima volta che presi in mano una matita per disegnare sul serio fu udendo una madre che, piangendo la bimba morta, diceva alle vicine: “Oh avessi almeno il suo ritratto! Era tanto bella…”. Una delle donne additò me dicendo: “Fatelo fare da quel ragazzo lì il ritratto! Egli è molto ingegnoso”. Non so se il lavoro sia riuscito artistico o no, ma mi ricordo di aver visto la madre un istante così felice, che pareami dimenticare il dolore. Io non ripresi a disegnare che molti anni più tardi; però fu forse questo il germe che mi fece nascere l’idea che con questo mezzo avrei potuto esprimere dei sentimenti”.
Giovanni Segantini (1858-1899) non si descrive. Si guarda. Si contempla. Si ammira. In silenzio. Con la lentezza che è dovuta alle cose grandi. Come davanti alla luce e alla pura bellezza dei paesaggi alpini, che nelle tele di questo gigante della pittura trovano la loro più autentica espressione. E, alla fine, possibilmente, si ama.
La grande mostra che il capoluogo lombardo ora gli dedica (a Palazzo Reale, fino al 18 gennaio) nell’ambito del progetto “Milano Cuore d’Europa” rappresenta, senza ombra di dubbio, un’occasione unica per ripercorrere l’evoluzione artistica di Segantini, rileggerne gli incontri con la Scapigliatura, il Divisionismo, il Simbolismo, infine il Liberty, perdersi nelle emozioni profonde e nella straordinaria sensualità delle sue opere.
Non staremo qui a soffermarci più di tanto sulle tappe della sua breve vita, che sembra uscita da un romanzo di Dickens: la nascita umile ad Arco di Trento, la madre che muore quando lui ha appena sei anni, l’affidamento a una sorellastra a Milano, le fughe, l’arresto per vagabondaggio, l’ingresso al Correzionale Marchiondi, l’aiuto di un buon prete che ne intravede l’ingegno, gli studi a Brera, gli anni dei riconoscimenti, l’evasione sui monti dell’Engadina, la morte per peritonite in una baita a quasi tremila metri sopra Pontresina, bloccato da una tempesta di neve mentre cerca di dare le ultime pennellate al maestoso “Trittico delle Alpi”.
Limitiamoci alla retrospettiva. Oltre 120 opere (64 i disegni, quasi tutti accostati ai relativi dipinti) provenienti da musei e collezioni private europee e statunitensi, e molte delle quali mai esposte in Italia, o esposte oltre un secolo fa; 1.500 metri quadrati di esposizione; un percorso tematico (non cronologico, quindi) suddiviso in otto sezioni. Manca, certo, per ovvie ragioni logistiche, il colossale “Trittico”, con i suoi “La vita”, “La natura” e “La morte” (i tre quadri hanno dimensioni che vanno dai 190×320 ai 235×400 cm.), visibile al Museo Segantini di St. Moritz, ma, di sezione in sezione, è un crescendo di capolavori. Dagli autoritratti al luminoso candore della neve che ammanta i Navigli milanesi; dai ritratti (valga per tutti quello di Barbara Huffer) alle nature morte; dai quadri destinati a immortalare la vita dei campi (“Dopo il temporale”, “Allo sciogliersi delle nevi”, “Ritorno all’ovile”, “I miei modelli”, “Sul balcone”, per non citarli tutti) ai grandi paesaggi (ed ecco “Alla stanga”, affiancato dal disegno). Dai disegni, appunto (come descrivere la perfetta poesia di “Pastore addormentato”?) alla natura che si fa simbolo: “Ritorno dal bosco”, “Mezzogiorno sulle Alpi”, e quel capolavoro assoluto che è “Ave Maria a trasbordo”, del quale sono esposti il dipinto a olio e le versioni a penna e inchiostro, gessi, carboncino e gesso, pastelli. E ancora “L’ora mesta”, “Le due madri”, “Pascoli di primavera”. E, a concludere, “L’angelo della vita”.
Una mostra monografica come non se ne vedevano da tempo a Milano. Certo, Segantini fu, ancora in vita, fra i pittori meglio pagati del suo tempo, e le sue opere già prima della morte erano entrate a far parte di collezioni pubbliche olandesi, belghe, tedesche, austriache, ungheresi e inglesi. Poi, però, il Futurismo, la Grande Guerra e il successivo Fascismo lo relegarono nel limbo del provincialismo. Fino alla seconda metà del Novecento. Ora la città, nella quale Segantini trascorse 17 anni, dal 1865 al 1881, e che rimase poi sempre per lui il punto di riferimento culturale, anche quando i toni caldi e i colori pieni delle opere lombarde lasciarono spazio alla luce rarefatta delle Alpi e alla polvere d’oro che utilizzava – antica tecnica rinascimentale – per conferire una ancora maggiore luminosità agli sfondi, gli rende pienamente omaggio. Da vedere.

La mostra, coprodotta da Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e Skira Editore, in collaborazione con Fondazione Mazzotta, è curata da Annie-Paule Quinsac e da Diana Segantini, pronipote dell’artista.

www.mostrasegantini.it

Sette fotografi in Pinacoteca. E anche Brera, per una volta, non resiste alla tentazione di fare selfie

Desktop2MILANO, lunedì 8 settembre
(di Patrizia Pedrazzini) “Sperimentale”. Basterebbe questo aggettivo, utilizzato in sede di presentazione dalla soprintendente Sandrina Bandera a proposito della mostra “Sette fotografi a Brera” (fino al 2 novembre nelle sale della Pinacoteca), per definire senza troppi giri di parole l’iniziativa. Che consiste nell’aver affidato a sette professionisti non necessariamente milanesi, tuttavia legati al capoluogo lombardo per cultura e formazione, ma insieme diversi fra loro per natura, generazione e orientamenti, il compito di mettere in mostra, per una volta, non le opere d’arte del museo, ma il museo stesso, inteso come luogo di lavoro, di riposo, di svago, dotato insomma di vita propria.
“Sperimentale”. E mai aggettivo fu più pertinente. In tutto, un’ottantina di scatti, firmati Luca Carrà, Mario Cresci, Paola Di Bello, Mario Dondero, Carlo Orsi, Giovanni Ricci, Annalisa Sonzogni, i sette fotografi a ognuno dei quali è riservata una sala. In una sorta di ideale percorso lungo tutta la Pinacoteca nel quale l’occhio del visitatore può soffermarsi sulle non prive di fascino ombre bluastre che riempiono gli spazi semibui del museo dopo la chiusura al pubblico, come sulle nere stampe a getto d’inchiostro di immagini che, a ben guardare, emergono lentamente in superficie. Sulle sale ritratte ora in bianco e nero, ora a colori (a seconda che il pubblico ci sia o non ci sia), come sugli scatti che documentano il lavoro dei restauratori. Sulle fotografie dei ritratti, a loro volta incorniciate, come su quelle che hanno per oggetto visitatori che osservano e ammirano, si immedesimano e si sbaciucchiano (ma Doisneau non abita qui), si fanno immortalare in gruppi di famiglia o di amici. O anche da soli. E le immagini finiscono proiettate su una parete.
Nell’insieme, una mostra che raramente cattura (fatti salvi i lavori di Mario Dondero e Annalisa Sonzogni), chiamata a inserirsi in un rapporto, quello tra la fotografia e la Pinacoteca milanese, insieme storico e controverso. Se la prima campagna fotografica sulle sale del museo allora appena riallestito dal soprintendente Corrado Ricci risale infatti al 1903, per l’ultima, dedicata alla riedificazione dopo la seconda guerra mondiale, bisogna riandare fino al 1950. Dopo, iniziative, sforzi, acquisizioni, come quella dell’Archivio fotografico Emilio Sommariva (poi passato alla Biblioteca Braidense), ma anche ostacoli e insuccessi, come la mancata assegnazione dell’Archivio di Ugo Mulas.
Ora, questa iniziativa. “Sperimentale”, appunto. Alla quale risulta, nelle intenzioni, affidato l’arduo compito, non solo di “aprire la Pinacoteca alle forme artistiche contemporanee di cui la fotografia è parte”, ma anche di dar vita a un “inevitabile confronto, o meglio, dialogo”, sala dopo sala, fra le opere dei sette fotografi e quelle dei maestri della pittura esposte alle pareti. Con quale esito? E perché? Ai visitatori la risposta. Evidentemente, anche questa è Brera.
“Sette fotografi a Brera” – Pinacoteca di Brera, Milano – Fino al 2 novembre 2014 (Catalogo Skira editore)
Per informazioni:
www.brera.beniculturali.it

Una Gioconda di Botero nella grande mostra di Palazzo Reale dedicata a Leonardo, ma per l’Expo anche Giotto

collage giottoMILANO, 4 settembre
Un Leonardo inedito durante il semestre milanese di Expo 2015 nel programma di Palazzo Reale, dal 15 aprile al 19 luglio 2015. Non saranno esposti solo i trenta già annunciati e preziosissimi disegni di Leonardo provenienti dalle collezioni reali inglesi, non solo il Musico dalla Pinacoteca Ambrosiana, il S. Gerolamo dai Musei Vaticani, la Scapigliata dalla Galleria Nazionale di Parma e la Madonna Dreyfuss dalla National Gallery di Washington, ma anche opere di artisti moderni e contemporanei come Marcel Duchamp, Enrico Baj, Andy Warhol, Stefano Arienti, Franco Bulletti, Fulvio Di Piazza, Agostino Arrivabene e Francesco Pignatelli, che rappresentano un Leonardo riletto e rivisitato dalla sensibilità moderna, a dimostrare un’eredità artistica sempre vitale.
Inoltre, i due curatori della mostra, Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio, hanno annunciato che è già stato chiesto al Maestro Fernando Botero di realizzare ad hoc una sua personale interpretazione della Gioconda. Ed è anche stato confermato che il cavallo dell’artista messicano Gustavo Aceves, ispirato ai disegni leonardeschi, presentato in anteprima a Pietrasanta nella primavera 2014, sarà collocato in piazzetta Reale a Milano come “monumentale”  invito alla mostra.
Inoltre è prevista, dal 2 settembre 2015 al 10 gennaio 2016, la mostra “Giotto, l’Italia”.
“Questa mostra è un progetto per l’Italia, non solo per Milano, perché Giotto ha avuto la capacità di coinvolgere grandi committenze e di condizionare in modo definitivo l’espressione artistica con una vastissima diffusione su tutto il territorio italiano”, hanno dichiarato i curatori Serena Romano e Pietro Pietraroia, che hanno altresì fatto notare che “Giotto, il pittore italiano per antonomasia, ha concluso la sua attività lavorando per i Visconti proprio nel Palazzo che oggi è il Palazzo Reale di Milano, sede della mostra”.
Queste le opere in esposizione (nella foto sopra):
Il Polittico Stefaneschi, oggi ai Musei Vaticani, è stato realizzato da Giotto per l’altare maggiore della Basilica di S. Pietro e testimonia della lunga e importantissima attività dell’artista a Roma.
Il Polittico di Bologna, conservato presso la Pinacoteca Nazionale del capoluogo emiliano, opera importante anche per dimensioni (340 cm di lunghezza per 191 di altezza) che è stata realizzata nella fase più matura dell’attività di Giotto, probabilmente verso al 1332 in connessione con la presenza del plenipotenziario pontificio a Bologna, il cardinale francesce Betrando Dal Poggetto.
Il Polittico di Badia, invece, appartiene all’attività fiorentina di Giotto. Oggi conservato agli Uffizi, attesta, insieme ai frammenti d’affresco che pure saranno testimoniati in mostra, l’opera dell’artista per la Chiesa benedettina di santa Maria a Firenze, detta la Badia.