Tavole, tele, incisioni, atlanti, topografie disegnate e dipinte da mani espertissime, che per secoli hanno costituito il solo, ma anche il più suadente e immediato mezzo per mostrare la bellezza e la ricchezza delle maggiori città d’Europa. Dall’8 febbraio, e fino al 18 maggio, questo straordinario repertorio iconografico, affascinante manifesto delle ambizioni di papi, principi e sovrani, viene esposto a Venezia, al Museo Correr, sotto il titolo “L’immagine della città europea dal Rinascimento al Secolo dei Lumi”. Un’ottantina di opere, provenienti da collezioni pubbliche e private, italiane e straniere, per condurre il visitatore, indietro nel tempo, in un ideale viaggio attraverso città che il tempo ha trasformato (o che in larga parte non esistono più), alla riscoperta, per ognuna, del tessuto urbano originale.
A partire dall’Italia, che per prima, agli inizi del Quattrocento, introdusse, grazie all’ideazione della prospettiva, un’imago urbis di grande impatto qualitativo e spettacolare. Un tema, quello del ritratto della città, che si colloca tra i soggetti privilegiati della pittura europea fin dal Medioevo, e che la mostra veneziana coglie soprattutto nel suo passaggio dal periodo (XVI-XVII secolo) nel quale arte e scienza vanno ancora a braccetto alla fase del loro lento divorzio quando, in pieno Settecento, la topografia diventa una vera disciplina e si passa dalla veduta di impianto prospettico alla vera e propria “pianta”.
Curata da Cesare De Seta, storico dell’arte e dell’architettura moderna e contemporanea, l’esposizione tocca, nel suo viaggio attraverso il tempo e lo spazio, le capitali di Spagna, Francia, Paesi Bassi, Inghilterra, Germania, Polonia, Russia. E gli splendori di Venezia, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Siracusa. Da quel “monumento xilografico” che è la Venetie del pittore e incisore veneziano Jacopo de’ Barbari alle vedute di città italiche dell’olandese, naturalizzato italiano, Gaspar van Wittel, alla Varsavia di un altro pittore e incisore veneziano, Bernardo Bellotto, alla Toledo di El Greco, alla Madrid di Goya. Fino agli scorci di Parigi e di Londra del XVIII secolo. In concomitanza, sempre al Museo Correr, si apre anche la mostra “Léger. La visione della città contemporanea 1910-1930”. (P. P.)
“L’immagine della città europea dal Rinascimento al Secolo dei Lumi”. Venezia, Museo Correr, 8 febbraio – 18 maggio 2014
A Venezia i “ritratti” delle grandi città d’Italia e d’Europa fra Rinascimento e Secolo dei Lumi
Vassily Kandinsky: a Milano la vita e le opere di un eclettico artista senza confini
(di Patrizia Pedrazzini) Non sono molti gli artisti che sono riusciti, nel corso della loro esistenza, a vivere come cittadini di tre Stati diversi. Vassily Kandinsky è stato uno di questi: nato in Russia, a Mosca, nel 1866; celebrato come tedesco al Bauhaus, la prestigiosa scuola di architettura, arte e design che fiorì in Germania fra il 1919 e il ’33; morto francese a Neuilly-sur-Seine, poco fuori Parigi, nel 1944. Un artista senza confini, il cui cammino di viaggiatore, di esploratore di culture, di analista delle ragioni che muovono linee e colori, viene ora riproposto, e ripercorso, nell’ambito della mostra che Milano gli dedica nelle sale di Palazzo Reale. Una grande retrospettiva monografica che, attraverso più di ottanta opere (oli, litografie, xilografie, tempere, linoleografie, linoleum, inchiostri, grafiti, acquerelli, guazzi, puntasecca), provenienti dalla Collezione del Centre Pompidou, racconta, toccandone in ordine cronologico i periodi principali della vita, il viaggio artistico e spirituale di uno dei pionieri dell’arte astratta. Da quando, nel 1896, fresco di studi di economia e diritto romano e russo all’Università, rimane “folgorato” dalla visione de “I covoni” di Claude Monet nella mostra degli Impressionisti che si tenne quell’anno a Mosca, alle esperienze raccolte negli anni trascorsi qua e là in Europa nei decenni fra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, fra Rivoluzione russa e affermazione del Nazismo, in un turbine di conflitti, venti di rivolta, instabilità. Ma anche, inevitabilmente, di nuove idee e nuove visioni, a contatto con le quali Kandinsky sviluppa il proprio pensiero artistico, che abbraccia peraltro più campi, dalla pittura alla musica al teatro. Nei quali cerca e difende lo “spirituale nell’arte”, come recita il titolo del suo scritto fondamentale (pubblicato a Londra nel ’14), dove affronta lucidamente, sul piano teorico, il rapporto tra forma e colore, e quello, per lui fondamentale, tra colore e suono, alla base dell’astrazione.
L’esposizione milanese ripercorre tutto questo. A partire dalla prima sala, rivestita di pitture parietali, per passare alle quattro vere e proprie sezioni della mostra (che a loro volta si sviluppano in otto sale): l’esperienza di Monaco (1896 – 1914), il ritorno in Russia (1914 – 1921), gli anni del Bauhaus (1921 – 1933), la permanenza a Parigi (1933 – 1944). Un percorso di evoluzione artistica che è già di per sé un viaggio, verso cambiamenti sempre più marcati e significativi, ma anche sempre ognuno nel solco della stagione precedente. E senza mai abbandonare le radici della tradizione russa. Ecco allora, dopo i primi studi artistici all’Accademia di Monaco, i paesaggi post-impressionistici e le tempere ispirate all’arte “popolare” del Paese natale. Ma anche un’opera come “Improvvisazione III”, del 1909, che già segnala il passaggio verso l’astrattismo. Ecco “Quadro con macchia rossa”, del 1914, l’anno nel quale lo scoppio della Grande Guerra lo costrinse a rientrare a Mosca. E l’ultimo dipinto berlinese, “Sviluppo in bruno”, del ’33, quando già sapeva di dover lasciare la Germania. Fino ad “Accordo reciproco” (1942), nel quale si leggono due figure, una maschile l’altra femminile, che venne esposto accanto al letto di morte del Maestro per volere della moglie Nina. La stessa che, fra il ’76 e l’81, fece dono della collezione al Centre Pompidou.
“Vassily Kandinsky. La collezione del Centre Pompidou”. Milano, Palazzo Reale, fino al 27 aprile 2014. Informazioni: Vassily Kandinsky
Disegni, incisioni e stampe di artisti delle Venezie del primo 900 in mostra agli Uffizi
A Firenze, nella Sala Edoardo Detti del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi – sotto la direzione di Marzia Faietti e di Giorgio Marini – è stata inaugurata la mostra “Una novella patria dello spirito. Firenze e gli artisti delle Venezie nel primo Novecento”. Rimarrà aperta fino al prossimo 9 febbraio 2014. Con questa mostra si è inteso indagare e valorizzare la speciale attrazione esercitata dalla città di Firenze su molti artisti veneti, friulani e giuliani nei primi decenni del Novecento, quando il capoluogo toscano rappresentò per molti aspetti la sintesi più compiuta della cultura italiana, e non solo figurativa e letteraria. Ne emerge quell’arte del “Bianco e Nero” che proprio allora andava ricevendo nuovo impulso grazie anche ai molti artisti, attirati dal fascino del glorioso passato d’arte della città. Essi contribuirono alla sorprendente vitalità di una stagione particolarmente felice per l’incisione: basti citare la Scuola d’Incisione presso l’Accademia di Belle Arti, guidata da Carlo Raffaelli e poi da Celestino Celestini che, raccogliendo l’eredità di Fattori, avviò nel 1912, prima in Italia, corsi ufficiali, o la Prima Esposizione Internazionale di Bianco e Nero (1914), e ancora la Seconda Esposizione Internazionale dell’Incisione Moderna (1927), esperienze tutte che fecero di Firenze, per alcuni lustri, l’autentica capitale dell’incisione in Italia. La città viveva la stimolante fioritura delle riviste storiche d’inizio secolo accogliendo un gruppo di intellettuali che dalle regioni non ancora “redente” vi convergevano seguendo il richiamo di una comune cultura “italiana”.
Ai nomi più noti di Saba, Slataper, Stuparich o Michelstaedter tra i letterati, fanno riscontro quelli dei giovani artisti loro conterranei che vi inseguivano la ricerca di un’identità culturale, trovandovi in alcuni casi una nuova patria d’elezione. Il più emblematico resta quello di Giannino Marchig, ma vanno ricordati anche Rietti, Croatto e Sbisà, cui si aggiunsero i trentini Disertori e Cainelli, e ancora Bianchi Barriviera e Balsamo Stella dal Veneto. La maggior parte di essi trascorse a Firenze gli anni fondamentali della propria formazione, con la conseguenza che molte delle loro opere furono acquisite direttamente alla loro epoca, mentre altre sono frutto di acquisizioni anche molto recenti. Il percorso muove attraverso 66 opere su carta, tra disegni e stampe, che rivelano come nella dimensione intima della lastra o del foglio questi artisti abbiano saputo sintetizzare in maniera mirabile i temi del ritratto, della figura e del paesaggio. Pur con percorsi diversi, tutti trovarono nella speciale valenza “segreta”, lenta e di meditata pazienza della pratica incisoria uno strumento consono a esprimere un loro personale “sentimento del tempo”, per molti ancora sotto gli influssi delle poetiche simboliste.
A Brera nuova sistemazione per Bellini e Mantegna. Secondo Ermanno Olmi

Milano. Visitatori in ammirazione davanti alla “Pietà” del Bellini alla Pinacoteca di Brera (foto p.a.p.)
(di Patrizia Pedrazzini) Alla Pinacoteca di Brera si è consumata una sfida. Fra tre Maestri. Due grandi pittori del Quattrocento padano, Andrea Mantegna e Giovanni Bellini. E un grande regista dei giorni nostri, il bergamasco Ermanno Olmi, il poeta de “L’albero degli zoccoli”, “La leggenda del santo bevitore”, “Il mestiere delle armi”. Tre Maestri del silenzio e del dramma ora accomunati, nella sala VII del museo milanese, da una particolare visione, o se si preferisce lettura, del dolore. Perché l’ottantaduenne Olmi è stato chiamato dalla Soprintendenza a ideare un nuovo allestimento per due dei suoi maggiori capolavori, finora “penalizzati da collocazioni che non ne mettevano bene in risalto l’eccellenza”: il “Cristo morto” di Mantegna e la “Pietà” di Bellini. Una vera e propria sfida, che il regista ha raccolto e affrontato con lo strumento a lui più consono: la cinepresa. Prendendo i due capolavori e mettendoli letteralmente in scena, lungo un percorso fatto di pietoso riserbo, raccoglimento, muto dolore. Ecco allora il “rivoluzionario” allestimento (realizzato con il sostegno di Skira Editore e con Van Cleef & Arpels come partner principale).
Ecco, in fondo al luminoso corridoio della Pinacoteca dedicato al colore della pittura veneta, la saletta, buia, all’inizio della quale, appoggiato su una mensola di metallo e protetto da due lastre di cristallo, spicca nella giusta luce, in tutta la sua bellezza e nella cornice originale, il capolavoro di Bellini. Un mezzo giro intorno al quadro ed ecco apparire, dietro, nel nero della stanza, senza cornice, fissato a 67 centimetri da terra a un grande pannello altrettanto nero, il “Cristo morto” di Mantegna, illuminato da
un fascio di luce. Un allestimento finalizzato, al di là della visione poetica e insieme drammatica che lo contraddistingue, anche a dar vita a un ideale dialogo fra i due dipinti (tra l’altro i due pittori erano cognati), entrambi appartenenti alla categoria dei “compianto”. E la cui lettura può sicuramente avvalersi degli esiti di recenti ricerche grazie alle quali è possibile ipotizzare, nel viso del Cristo di Mantegna, l’autoritratto del pittore, e in una delle tre figure a lato del corpo (quella meno visibile) il viso di uno dei suoi due figli scomparsi, il più giovane e più caro. Un percorso, quindi, di dolore privato e di sofferenza profonda, che trova sublimazione nella fede e nell’arte. E che l’allestimento di Olmi sottolinea fino all’estrema conseguenza: la scelta di occultare quasi alla visione immediata il capolavoro di Mantegna. In fondo, il quadro (una pittura a tempera su tela) non venne dipinto per essere esposto, ma per restare nascosto a sguardi estranei e, per volontà testamentaria dello stesso autore, essere deposto nel medesimo sepolcro nel quale erano già stati tumulati i due amati figli. Ecco allora la “rivoluzionaria” idea di Olmi, il suo “andare al di là” del rigore accademico e dei tradizionali criteri museali. Una scelta coraggiosa, sicuramente, ma non per questo immune dal destare perplessità.
Perché, contrariamente al capolavoro di Bellini, sul quale inevitabilmente si focalizza l’attenzione del visitatore fin dall’inizio del corridoio che conduce alla sala, quello di Mantegna ne esce, pur considerato nella sua essenzialità e nella “solitudine” chiamata a esaltarne la potenza e la bellezza, quasi sacrificato. Il livido cadavere di Cristo, che niente ha di divino, il vertiginoso scorcio prospettico che ne fa uno dei capolavori del Rinascimento, è nascosto, quasi rarefatto. Come il dolore che vuole raccontare. Fatto di penombre e di silenzi. Ma questo è Ermanno Olmi.