Frida Kahlo. Tutti i colori del Messico per il “caos dentro” di un’icona della pittura. In una mostra multimediale a Milano

MILANO, domenica 11 ottobre – (di Patrizia Pedrazzini) Per gli appassionati di Frida Kahlo – e delle mostre multimediali – c’è a Milano, alla Fabbrica del Vapore (sempre più attenta a coniugare arte e tecnologie), una coloratissima esposizione, o se si preferisce un “percorso sensoriale”, che consente al visitatore di immergersi nella vita della pittrice messicana. Esplorandone la dimensione artistica, ma anche quella umana e spirituale.
La mostra, che rimarrà aperta fino al prossimo 28 marzo, ha per sottotitolo “Il caos dentro”, e certamente mira anche a evidenziare – non potrebbe essere altrimenti – le appassionate e drammatiche vicende personali dell’artista, morta a 47 anni dopo che, appena diciottenne, era rimasta vittima di un incidente che le massacrò il corpo, costringendola a 32 interventi chirurgici, anni di riposo forzato a letto, busti di gesso e dolori lancinanti per il resto dell’esistenza.
Tuttavia, l’esposizione, fatti salvi gli aspetti multimediali, è anche e soprattutto un tuffo nei colori, nelle tradizioni e nella cultura del Messico. Cui appartengono, per esempio, gli sgargianti abiti che, in una sala, “raccontano” i vestiti dei quali Frida amava adornarsi: gonne lunghe, ampie e coloratissime, scialli, camiciole, e ancora copricapo e collane. In un tripudio di rossi, di gialli, di verdi, di azzurri e di blu. A far da contrasto al candore di una sottogonna di pizzo, o di una morbida blusa. Analogamente, pieni di colori e di vita sono i sette busti in gesso che altrettanti artisti contemporanei hanno voluto rielaborare ispirandosi ai corsetti che Frida era costretta a usare e che lei stessa dipingeva. Compreso quello, celebre, con il disegno della falce e martello e del bambino in grembo (la pittrice perse un bambino a causa dell’inadeguatezza del suo fisico e non ebbe mai figli, cosa che rappresentò il suo più grande dispiacere).
Ancora, all’insegna del colore sono gli ambienti, fedelmente riprodotti, della Casa Azul (Casa Blu) di Coyoacán, sobborgo di Città del Messico, dove Frida era nata, nel 1907, e che oggi è un museo aperto al pubblico. La camera da letto nella quale morì, nel 1954, a seguito di un’embolia polmonare, fedelmente riprodotta anche negli oggetti in essa raccolti: sculture in pietra e pupazzi di cartapesta, quadri, fotografie, libri, mobili e le stampelle personali. L’atelier, con la scatola dei gessetti colorati, le boccette dei colori, i pennelli, la sedia a rotelle e il cavalletto. Il giardino, con la vegetazione lussureggiante che Frida stessa curava, le aiuole con i muretti gialli e lo sfondo delle pareti blu con le finestre verdi.
Tanto colore, quindi, e tanto Messico. Inevitabilmente. Ma anche una sezione riservata alle intense fotografie in bianco e nero che le scattò il colombiano Leo Matiz. E una sala dedicata alla riproduzione, in formato modlight (una particolare forma di retroilluminazione) di quindici fra i suoi più conosciuti autoritratti. Mentre più spazi e momenti la mostra riserva alla figura del pittore e autore di murales messicano (noto per le tematiche politiche e sociali delle sue opere) Diego Rivera, che Frida sposò e risposò (nel 1929 e nel ’40): un rapporto fondamentale per la vita della pittrice, fatto di passione e di tradimenti reciproci. Ecco allora le lettere di lei a lui e di lui e di lei ai rispettivi amanti, le cartoline, i disegni, nonché le proiezioni di alcuni fra i più conosciuti murales che l’artista firmò in varie parti del mondo, dai 27 pannelli del “Detroit Industry Murals” di Detroit appunto, al “Pan American Unity Mural” di San Francisco, al “Sueño de una tarde dominical” di Città del Messico.
E ancora musiche, video ad altissima risoluzione, suoni ed effetti speciali. E una raccolta di francobolli emessi da diversi Paesi, in diverse ricorrenze, in omaggio alla Kahlo.
Un intero mondo e, in quel mondo, un’intera vita. “Non sono malata. Sono rotta. Ma sono felice, fintanto che potrò dipingere”.

“Frida Kahlo. Il caos dentro”, Milano, Fabbrica del Vapore, via Procaccini 4, fino al 28 marzo 2021
www.mostrafridakahlo.it

Luciano Ventrone, il “Caravaggio del XX secolo”, al MART di Rovereto. Un realismo che appare più vero del vero

Luciano Ventrone nasce nel 1942 a Roma, dove vive e lavora. Frequenta il liceo artistico e dopo il diploma conseguito nel 1964 si iscrive alla facoltà di architettura che frequenterà sino al 1968; in quell’anno, decide di abbandonare gli studi per dedicarsi interamente alla pittura, in particolare al tema delle nature morte e ai vari aspetti della natura.

ROVERETO, sabato 10 ottobre – Contestuale alla mostra “Caravaggio.  Il Contemporaneo”, che offre ai visitatori l’opportunità di ammirare “Il seppellimento di Santa Lucia”, di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, al MART di Rovereto, viene data la possibilità di visitare anche la mostra dedicata a Luciano Ventrone, definito da Federico Zeri “il Caravaggio del ventesimo secolo”.
Le nature morte iperrealistiche di Luciano Ventrone (Roma, 1942), divenuto famoso per il suo virtuosismo e per le stupefacenti riproduzioni in pittura di una realtà che appare più vera del vero, innestano un dialogo indubbiamente stimolante in rapporto con l’opera di Caravaggio, laddove nelle opere di questi e di Ventrone – definito da Federico Zeri “il Caravaggio del ventesimo secolo” – si evidenziano, secondo Victoria Noel-Johnson curatrice della mostra, diversi ma complementari approcci al “non vero”: una percezione sottilmente velata di una realtà superiore, la grande illusione di una “ultra-realtà” in contrapposizione a una falsa impressione”.
Ecco allora che la mostra “Luciano Ventrone. La grande illusione”, ideata da Vittorio Sgarbi e Lorenzo Zichichi e concepita con le sue 18 opere tematiche come un Focus nell’ambito dell’esposizione “Caravaggio. Il contemporaneo” – con cui il Presidente del Mart di Rovereto intende mettere in luce l’assoluta attualità del Maestro lombardo per gli artisti e le società contemporanei – diventa l’occasione più appropriata per indagare questo singolare rapporto.
Le assonanze e i richiami a Caravaggio non mancano, come il richiamo puramente compositivo e stilistico di talune nature morte esposte al Mart – come “Il dono di Bacco” (2011) e “Strani compagni” (2012) fino al “Canestro di frutta” di Caravaggio; ma l’artista mira a bilanciare questi richiami sviluppando – come scrive la curatrice nel catalogo edito da Il Cigno GG Edizioni, Roma – un tipo di natura morta altamente unico, che vede l’applicazione di luce e colore come fulcro catalitico in grado di convertire gli apparentemente ordinari soggetti della tela in una visione impressionante di “non vero” metafisico”.
Sono dunque le distinzioni nell’approccio di luce e colore tra Ventrone e Caravaggio che vanno segnalate: da un lato l’uso drammatico, teatrale, emotivo dell’illuminazione da parte del Merisi, dall’altro la luce immanente in cui Ventrone immerge i suoi frutti e fiori: una luce che risiede all’interno e irradia verso l’esterno, diventando sostanza integrante di ciò che illumina.
Una luce che secondo la Noel-Johnson esalta il colore, facendo assumere alle sue tonalità proporzioni quasi magnetiche e ipnotiche, trasformando oggetti di uso quotidiano “in elementi soprannaturali”.
La luce – scrive Vittorio Sgarbi nell’introduzione al catalogo – si mette al servizio dell’oggetto e, attraverso il riflesso, diventa materia, diventa sostanza integrante di ciò che illumina. È la luce immanente, luce che sta dentro le cose, che proviene da esse. È la luce/materia che rimanda alle origini dell’arte italiana prospettica, a Piero della Francesca, ovvero al concetto neoplatonico di luce come emanazione, come contenuto della forma-idea, come fattore strutturale e decisivo della harmonia mundi.”
Una rappresentazione teatrale della realtà quella di Ventrone, che posiziona meticolosamente sulla tela i soggetti naturali assegnandogli un ruolo centrale e non relegato o secondario; “quasi una performance di natura barocca con un’enfasi drammatica” accentuata anche dalla mediazione della fotografia che nel processo creativo di Ventrone – consentendo di ricercare dettagli non visibili all’occhio umano – rafforza la visione “metafisica”.
L’artista – suggerisce Sgarbi – sembra cercare un assoluto, una essenza, che, nell’opera, cresce la realtà, non si limita a riprodurla. È di più. Ventrone è il pittore dell’iperbole. E iperboliche, esagerate, barocche appunto, sono le sue opere, piuttosto che iperrealistiche. Una grande illusione” o, per dirla con Victoria Noel-Johnson “la grande illusione della straordinaria metamorfosi dell’ordinario“.

MART-Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. 9 ottobre / 14 febbraio 2021 – “La grande Illusione” da un’idea di V. Sgarbi e L. Zichichi – Corso Bettini 43– Tel. 800 397760.
www.mart.trento.it

A Forte Marghera. Le Divine della Mostra del Cinema in 92 fotografie (1932-2018). Poi, tutti gli altri settori ai Giardini

VENEZIA MESTRE, giovedì 16 luglio – Rimarrà aperta fino all’1 novembre a Forte Marghera (Polveriera austriaca, via Forte Marghera 30, Venezia Mestre) la mostra fotografica “DIVINE. Ritratto d’attrici dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 1932 – 2018”, a cura del Direttore artistico della Mostra del Cinema Alberto Barbera e organizzata dalla Biennale di Venezia con il suo Archivio Storico.
La mostra comprende 92 fotografie provenienti dall’Archivio Storico della Biennale, divise cronologicamente in quattro periodi, dal 1931 al 1952, dal 1953 al 1967, dal 1970 al 1991 e dal 1993 al 2018, con immagini di alcune delle più celebri dive italiane e internazionali “catturate” da scatti speciali al Lido durante la Mostra del Cinema, o protagoniste nei film presentati in Sala Grande, nel corso della storia del Festival cinematografico più antico al mondo.

Sfilano ad esempio, in ordine di apparizione e in ritratti indimenticabili, “divine” quali Ingrid Bergman e Greta Garbo, Michéle Morgan e Bette Davis, Lauren Bacall e Machiko Kyô, Anna Magnani e Gina Lollobrigida, Sophia Loren e Brigitte Bardot, Claudia Cardinale e Jeanne Moreau, Julie Christie e Catherine Deneuve, Hanna Schygulla e Ornella Muti, Nastassia Kinski e Meryl Streep, Gong Li e Isabelle Huppert, Michelle Pfeiffer e Nicole Kidman, Charlize Theron e Monica Bellucci, Emma Stone e Natalie Portman, Valeria Golino e Alba Rohrwacher, Scarlett Johansson e Cate Blanchett.

Le attività della Biennale 2020 prendono avvio con la Mostra fotografica Divine. Ritratto d’attrici dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 1932–2018 – dichiara il Presidente della Biennale, Roberto Cicutto – Un segno importante in un anno speciale: dopo aver accompagnato i mesi del lockdown mettendo a disposizione in rete molto del suo patrimonio, l’Archivio Storico della Biennale”.
Nell’ambito delle altre esposizioni, organizzate dalla Biennale, dal prossimo 29 agosto sarà inaugurata, ai Giardini della Biennale, una Mostra a cura di tutti i Direttori dei sei Settori (Arte, Architettura, Cinema, Teatro, Musica, Danza) in cui si potranno rivivere i momenti chiave dei 125 anni dalla fondazione della Biennale di Venezia.
DIVINE apre nel segno del femminile e racconta il ruolo fondamentale delle donne nella storia della Settima Arte”, spiega ancora il Presidente Roberto Cicutto. “DIVINE rievoca subito la bellezza, il glamour, il fascino e l’emozione del tappeto rosso. Oggi, grazie al talento e alle storie di queste donne (non solo delle attrici ma anche delle protagoniste in tutti i “mestieri del cinema”), molte più donne e uomini hanno imparato ad assumersi responsabilità ignorate per molti secoli. Attraverso di loro, capiamo di più e meglio i cambiamenti della nostra società”.
Tra i tanti fili rossi che corrono lungo la storia di successi, cadute e resurrezioni della Mostra del Cinema di Venezia, ne abbiamo scelto uno per questa mostra temporanea al Forte Marghera, il cui titolo non lascia adito a interpretazioni incerte”, dichiara il Direttore artistico della Mostra del Cinema, Alberto Barbera. “Non c’è dubbio che la storia del cinema, sin dal momento in cui quest’ultimo abbandonò i panni della curiosità da baraccone per rivestire quelli di industria più fiorente della comunicazione e dell’intrattenimento di massa, questa stessa storia appare indelebilmente intrecciata con quella dei divi e delle divine che sono stati una delle principali attrattive per il pubblico di tutto il mondo. Non a caso, inoltre, i primi ‘divi’ furono per lo più figure femminili: il processo di trasformazione degli attori in star sembra infatti essere strettamente connesso alla femminilità e a quell’immagine di una Eva futura, nata dalla sintesi tra la figura della primadonna dell’opera e la rappresentazione femminile offerta dalla cultura europea del XIX secolo (in particolare in pittura, letteratura e poesia). Concediamoci allora al piacere di ripercorrere, in un breve itinerario composto dalle 92 immagini provenienti dall’Archivio Storico della Biennale di Venezia, la storia della Biennale Cinema attraverso il filtro di fascino e glamour offerto dai ritratti di alcune fra le tantissime Divine che hanno trasformato ogni anno, per dieci giorni, il tratto di strada che dall’Hotel Excelsior conduce al Palazzo del Cinema. In attesa che i riflettori si accendano sulla 77ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, il primo festival dopo il lungo e doloroso periodo di chiusura che ha messo in ginocchio il mondo intero…

La mostra DIVINE è a ingresso libero, con orari d’apertura dalle 13 alle 21 fino al 21 settembre, e dalle 10 alle 18 dal 22 settembre all’1 novembre (chiusura lunedì). La mostra fa parte del programma di esposizioni che la Biennale di Venezia organizza, a cura dei direttori artistici dei diversi Settori, per valorizzare i materiali del suo Archivio Storico e per portare alla luce periodi ed episodi significativi della propria storia.

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A Milano la luce e il buio di La Tour, il Caravaggio francese. Popolani, santi, mendicanti. Al bagliore fioco di una candela

MILANO, sabato 8 febbraio (di Patrizia Pedrazzini) Oggi che il mondo artistico internazionale lo ha ormai da decenni ampiamente riscoperto e studiato (anche se ancora non completamente), non stupisce che venga definito il “Caravaggio francese”. Ma, fino al primo Novecento, di Georges de La Tour, nato in un borgo della Lorena nel marzo del 1593 e morto il 30 gennaio del 1652 in un paese poco lontano della stessa regione, si conosceva ben poco. Se non fosse stato per lo storico dell’arte tedesco (e grande esperto del barocco italiano) Hermann Voss, che nel 1915 pubblicò un articolo nel quale gli assegnava la paternità di alcuni dipinti, il pittore francese sarebbe rimasto quello che fino ad allora era stato: un nome senza opere. Al più corredato dalla fama di uomo dal carattere difficile e dalla vita agitata, facile alla violenza (un po’ alla Caravaggio), padre di dieci figli, e abituato a condividere la casa con un gran numero di cani randagi.
Ma, appunto, non è andata così, e ora Milano dedica a quella che è a tutti gli effetti una gloria nazionale francese la mostra “Georges de La Tour. L’Europa della luce”, nelle sale di Palazzo Reale fino al prossimo 7 giugno.
Un’ottima occasione per ammirare i lavori di questo maestro della luce, i suoi bagliori al lume di candela, le sue suggestioni, la sua tavolozza fatta di ombre e di profili illuminati, modelli assorti e silenziosi. Ma anche le sue figure crudamente realistiche, i volti segnati dalla miseria, dall’ignoranza e dalla povertà, oltre che dall’inesorabile scorrere del tempo. In tutto 33 opere, 16 delle quali del pittore lorenese, le altre di altri artisti del tempo.
Promossa e prodotta dal Comune di Milano, da Palazzo Reale e da MondoMostre Skira (che ne ha curato anche il catalogo), l’esposizione ha come polo d’attrazione la bellissima “Maddalena penitente”, prestito della National Gallery of Art di Washington D.C. (ve ne sono altre tre attribuite a La Tour, a New York, a Los Angeles e a Parigi). Diversamente dai contemporanei, più portati a sottolineare, della donna, i lati popolani e carnali, il pittore colloca Maddalena in una stanza austera, nella quale il profilo nitido e delicato, i capelli scuri e lisci e lo sguardo assorto di chi è profondamente immerso nei propri pensieri emergono dalla penombra creata dalla fiamma esile e tremolante di una candela. La mano destra a sostegno del viso, la sinistra a sfiorare un teschio. E un piccolo specchio, a ricordare la natura effimera della vita terrena.

Georges de La Tour, “Giobbe deriso da sua moglie”, 1650 ca – olio su tela, 145 x 97 cm (Musée départmental d’Art ancien et contemporain – Epinal, Francia)

Più orientati invece al drammatico realismo della vita popolare, attraverso anche il ricorso a modelli presi dalla strada, gente di basso rango, mendicanti, altri dipinti in mostra. Da “La rissa tra musici mendicanti” a “I giocatori di dadi”, e soprattutto a “Il denaro versato”, dove ancora l’artista – qui per sottolineare la tensione che accompagna il rapporto fra gli uomini e i soldi – fa ricorso alla luce di una candela, conferendo alla tela un chiaro impatto caravaggista (anche se ancora non si sa se La Tour abbia mai avuto modo di vedere le opere di Michelangelo Merisi, vissuto fra il 1571 e il 1610).
Né potevano mancare i quadri di argomento religioso, su tutti il singolare, per certi versi moderno, “Giobbe deriso dalla moglie”: una donna alta, maestosa e vestita di un raffinato abito rosso, che occupa con la sua figura la gran parte del quadro e che sovrasta, illuminandolo con una candela che tiene nella mano destra, un povero uomo nudo, vecchio e malato seduto su uno sgabello. Mentre ancora lampi di luce accarezzano il corpo immerso nella solitudine di “San Giovanni Battista nel deserto”. E sempre il lume fioco di una candela è il protagonista dell’elegante “Educazione della Vergine”: la piccola Maria che, in un interno domestico intimo e frugale, con discrezione si avvicina alla madre, per attendere educatamente alle attività femminili cui è destinata: la tessitura e la lettura delle Sacre Scritture.
In Italia non è conservata alcuna opera di Georges de La Tour. La mostra è stata resa possibile grazie ai prestiti concessi da 26 musei, fra Europa e America.

“Georges de La Tour. L’Europa della luce”, Milano, Palazzo Reale, fino al 7 giugno 2020.
www.latourmilano.it