Milano e quei favolosi anni Sessanta. In mostra le immagini di un decennio “esagerato”. Fino al buio di piazza Fontana

MILANO, giovedì 7 novembre (di Patrizia Pedrazzini) Dieci anni quasi esatti. Dall’inaugurazione, il 4 aprile 1960, del grattacielo in calcestruzzo armato allora più alto d’Europa (e terzo nel mondo), quello che per i milanesi è stato fin da subito il “Pirellone”, al 12 dicembre 1969: la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, 17 morti, 87 feriti, l’inizio degli “Anni di piombo”. Un decennio indubbiamente “irripetibile” (ne sono convinti i curatori della mostra aperta a Palazzo Morando fino al prossimo 9 febbraio), ma anche qualcosa di più. Non saranno stati, quelli (giusto per parafrasare John Reed e i suoi “Dieci giorni che sconvolsero il mondo”), “I dieci anni che sconvolsero Milano”. Però una cosa è sicura: uscendo da quel decennio la città non era più la stessa che vi era entrata. Sarebbe cambiata ancora, e tanto, nel bene e nel male (gli anni Settanta, gli Ottanta), ma il solco scavato dai Sessanta non si sarebbe riproposto mai più. Irripetibili? Anche un po’ “epici”, magari.
E allora avanti con l’ennesima operazione nostalgia: fotografie, manifesti, arredi, riviste, oggetti. C’è tutto un mondo, in mostra a Palazzo Morando. La Torre Velasca e i primi palazzoni dormitorio di Quarto Oggiaro, del Gallaratese, del Gratosoglio, della Comasina (quest’ultimo intervento edilizio, ultimato nel ’60, si fregiava di 11.000 vani e 83 edifici). Le tangenziali e l’A1 Milano-Piacenza. La Metropolitana. Le grandi aziende: Brionvega, Kartell, Artemide, Danese. E il fervore artistico: Lucio Fontana e Piero Manzoni. Il design: Marco Zanuso, Bruno Munari, Vico Magistretti. La fotografia: Uliano Lucas, Fedele Toscani, Cesare Colombo.
Un dinamismo progettuale e creativo senza precedenti e letteralmente irrefrenabile.

Silenzio e commozione in Piazza del Duomo dopo il sanguinoso attentato di Piazza Fontana

Troppa era la voglia di lasciarsi alle spalle, e definitivamente, i dolori e i sacrifici della guerra e le distruzioni delle sue bombe. Peccato che tutto sarebbe sfociato, di lì a poco, in un’altra bomba, questa volta non degli anglo-americani.
Dieci anni meravigliosi ed esagerati, come cantava Giorgio Gaber (“coi grattacieli sempre più alti, e tante macchine sempre di più, sempre di più, sempre di più”), tuttavia non casuali, bensì frutto di un preciso intreccio fra uno sviluppo economico che non sarebbe stato possibile senza una forte inclusione sociale (l’immigrazione), la proiezione internazionale e la profonda connessione fra pensiero creativo e capacità produttiva. Senza contare che la maggior parte dei protagonisti di quegli anni non era nemmeno milanese di origine. Perché Milano non ha mai chiuso la porta a nessuno che avesse delle idee, volesse lavorare e costruirsi un futuro. E questo negli anni Sessanta era chiaro a tutti.
Come allora non riservare, all’interno della mostra, una sezione alla musica? Jannacci, Gaber, Celentano. E la stagione musicale e cabarettistica del Santa Tecla, del Lirico e del Derby. E i grandi concerti, con i quali la città accolse i protagonisti della musica pop e rock d’Oltremanica e d’Oltreoceano. Billie Holiday nel ’58 allo Smeraldo, e poi Duke Ellington, Chet Baker, Gerry Mulligan. E i Beatles al Vigorelli nel ’65, e due anni dopo i Rolling Stones al Palalido. Poteva, una città così, non conquistarsi il titolo di capitale ideale, e morale, del Paese?
Finirà tutto con la contestazione, le rivolte studentesche, l’occupazione dell’università Cattolica e poi della Statale, i picchetti davanti alle fabbriche, le cariche dei “celerini”. E la morte del poliziotto Antonio Annarumma, colpito a 22 anni da un tubo Innocenti mentre prestava servizio durante a una manifestazione il 19 novembre del ’69.
Di lì a poco, il buio di piazza Fontana. Che la mostra ricorda, in un apposito spazio, con quindici fotografie molto belle e di grande impatto: la città, tutta, assiepata in piazza del Duomo, l’aria fredda e livida, il silenzio. Sembra ieri. Ma quanto tempo è passato.

“Milano anni ’60. Storia di un decennio irripetibile”, Milano, Palazzo Morando, via Sant’Andrea 6, fino al 9 febbraio 2020

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I Thannhauser, una storia d’arte e di collezionismo. A Palazzo Reale i capolavori dal Guggenheim di New York

Henri Rousseau, “I giocatori di football” (Les joueurs de football), 1908 – Olio su tela 100,3 x 80,3 cm – Solomon R. Guggenheim Museum, New York

MILANO, venerdì 18 ottobre ► (di Patrizia Pedrazzini) Corre l’anno 1909 quando, a Monaco di Baviera, Heinrich Thannhauser, ebreo tedesco mercante d’arte, apre in città la Moderne Galerie, con una mostra inaugurale che raccoglie circa duecento opere di artisti francesi e tedeschi.
Inizia così la storia di una famiglia di collezionisti tra i più noti d’Europa. Prima Heinrich, poi il figlio Justin. Dalla loro Galleria passano Kandinskij, Picasso, Degas, Van Gogh, Rousseau, i Futuristi italiani. Pochi anni, e già c’è spazio per altre due Gallerie: a Lucerna e a Berlino. Finché il Nazismo, e poi lo scoppio della seconda guerra mondiale, li costringono a lasciare la Germania e a rifugiarsi inizialmente a Parigi e subito dopo negli Stati Uniti. Dove nel 1963, prima di morire, Justin predispone il lascito di settantacinque opere della propria collezione privata alla Solomon R. Guggenheim di New York (altre dieci vi confluiranno nel ’91, come ultima volontà della moglie Hilde).
Un patrimonio raro e prezioso, parte del quale (45 dipinti e quattro sculture), dopo aver attraversato per la prima volta l’oceano, dà ora corpo, a Milano e fino al prossimo 1 marzo, alla mostra dedicata a una storia di collezionismo che ha segnato l’intero Novecento.
Nelle sale di Palazzo Reale (promossa fra gli altri da MondoMostre Skira, che ne ha anche curato il catalogo) l’esposizione propone una selezione di opere di grandi maestri impressionisti, post-impressionisti e rappresentanti delle avanguardie dei primi anni del XX secolo.
Fra queste, due dipinti di Pierre-Auguste Renoir, quattro di Georges Braque, sei di Paul Cezanne (tra i quali le nature morte “Bicchiere e brocca” e “Piatto di pesche”).
Edgar Degas è invece presente con tre sculture in bronzo, realizzate fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, periodo cui appartiene anche il bronzo di Aristide Maillot “Donna con granchio”.

Pablo Picasso, “Donna dai capelli gialli” (Femme aux cheveux jaunes), 27 dicembre 1931 – Olio e Ripolin (est.) su tela, 100 x 81 cm – Solomon R. Guggenheim Museum, New York – Thannhauser Collection, Donazione Justin K. Thannhauser

E ancora un dipinto di Paul Gauguin, due di Edouard Manet (incluso “Davanti allo specchio”, ritratto di una nota cortigiana, amante dell’erede al trono olandese, dipinta di spalle con il corsetto semiaperto), e un paesaggio italiano di Claude Monet. Quindi tre quadri di Vincent Van Gogh e tredici di Pablo Picasso, grande amico di Justin Thannhauser: da “Le Moulin de la Galette” a “Il picador”, a “Fernande con una mantiglia nera” a “Aragosta e gatto”, che fu tra l’altro il regalo di nozze dell’artista catalano ai coniugi Thannhauser.
Oltre ai capolavori della collezione, sono poi in mostra altri lavori, di altri grandi maestri, proprietà della Guggenheim Foundation.
Da non perdere, fra questi, “I giocatori di football” di Henri Rousseau e “Montagna blu” di Vasilij Kandinskij, pittore molto amato sia dai Thannhauser (al gruppo “Der Blaue Reiter”, “Il cavaliere azzurro”, del quale l’artista russo era stato tra i fondatori, Heinrich aveva riservato una prima mostra alla Moderne Galerie, nel 1911) che da Solomon Guggenheim, il cui museo ne possiede più di 150 opere.

Dopo aver vissuto per cinquecento anni in Germania – aveva detto Justin dopo aver perso tragicamente i due figli – la mia famiglia è ora estinta. Per questo desidero donare la mia collezione. Così l’opera di tutta la mia vita trova infine un suo significato”.

“Guggenheim. La collezione Thannhauser. Da Van Gogh a Picasso”, Milano, Palazzo Reale, fino all’1 marzo 2020
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La famiglia secondo Erwitt. A Milano 60 scatti del grande fotografo: la commedia della vita, senza veli e senza giudizi

MILANO, mercoledì 16 ottobre ► (di Patrizia Pedrazzini) Non è un concetto facilmente definibile, quello di famiglia. Tanto riesce a essere, questa particolare realtà, al contempo solida e delicata, assoluta e relativa, universale e mutevole. A seconda dei periodi storici, ma anche delle situazioni geografiche, dei condizionamenti politici e sociali, della stessa genetica. E se fosse, la famiglia, solo più “soggettiva” di quanto promette?
Al Mudec di Milano, fino al prossimo 15 marzo, una particolare mostra cerca di darne un’immagine sfaccettata e insieme il più possibile variopinta e (quasi) completa. E lo fa attraverso sessanta scatti di uno dei massimi fotografi del Novecento: Elliott Erwitt, classe 1928, nato a Parigi da genitori ebrei russi, vissuto a Milano fino ai dieci anni, quindi approdato negli Stati Uniti. Fotografie tutte in rigoroso bianco e nero, cariche di affettuosa e umanissima ironia, di leggerezza e semplicità, ma anche di riservatezza, di dolore, di cupa e silenziosa disperazione. Situazioni privatissime e immagini pubbliche, ma sempre immortalate con sguardo acuto, brillante e anticonformista, lungo un arco temporale di circa settant’anni.
Eccola, allora, la “family” secondo Ervitt. Quella americana, ingessata e rigida, in posa sul sofà anni Sessanta, o seduta sul parafango del nuovo “bene”, l’automobile, o quella che sembra avere come perno il cane di casa (celebri i suoi spesso buffi cagnolini), eletto a membro-guida della piccola comunità.

Elliott Erwitt, “New York City”. Usa 1974

Ecco il celeberrimo scatto del matrimonio di Bratsk (Siberia, 1967): gli sposini curiosi e un po’ confusi che osservano un ospite, seduto vicino, dall’aria baldanzosa e di sfida, quasi custodisse chissà quale scomodo segreto. E la mamma del Ku Klux Klan che, sollevato il cappuccio bianco, stringe a sé il figlioletto.
Erwitt e la commedia umana: ecco i matrimoni nudisti e i nuclei “allargati”.
Ecco le famiglie già in atto e quelle ancora da venire: la bambina neonata sul lettone (che è poi Ellen, la sua primogenita) e i pancioni delle donne incinte, allegre e sorridenti dietro il bancone di un bar, elegantissime nei loro profili neri dolcemente arrotondati.
E le famiglie che c’erano e non ci sono più: Jackie Kennedy in veletta nera con il cognato Bob al funerale del marito, e la vecchia madre di Robert Capa accucciata, in uno strazio che ha ucciso anche la speranza, sulla lapide del figlio.
Visioni e angolazioni diverse, ma dietro, sempre, uno stile unico e potente, per un racconto che Erwitt (le sessanta immagini sono state da lui stesso selezionate) conduce, come sempre, senza tesi prefissate, nella più totale e libera sospensione di giudizio.
Da vedere.

“Elliott Erwitt. Family”, Milano, Mudec, via Tortona 56, fino al 15 marzo 2020

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A Milano l’arte, le collezioni, la storia dell’incontro fra due culture. Quando l’Europa si innamorò del Sol Levante

Domenico Tintoretto, “Ritratto di Ito Mancio”, 1585

MILANO, mercoledì 2 ottobre ► (di Patrizia Pedrazzini) – Il giovane, nemmeno ventenne, è ritratto di tre quarti, a mezzo busto. Ha i lineamenti orientali e veste un abito ispanico del XVI secolo, con una vistosa gorgiera bianca. L’espressione è regale, fiera ma non boriosa, con qualcosa di magnetico. La dicitura lo identifica con Ito Mancio, capo dell’Ambasceria del Tensho: quattro principi giapponesi convertiti che, scortati da gesuiti, giunsero in Europa, e in Italia, intorno al 1590.
Commissionato a Jacopo Robusti il Tintoretto (e in tempi recenti attribuito al figlio di lui, Domenico, ritrattista più abile del padre), il dipinto è ora esposto per la prima volta in Italia e in Europa nell’ambito del progetto “Oriente Mudec”: due mostre distinte e complementari che, fino al prossimo 2 febbraio, racconteranno, negli spazi espositivi del museo milanese, l’incontro culturale (artistico in primo luogo, ma anche storico ed etnografico), e i successivi reciproci scambi, fra il Paese del Sol Levante e il Vecchio Continente, Italia e Francia soprattutto.
Di particolare impatto, per rarità e bellezza, la sezione dedicata alla Collezione del conte Giovanni Battista Lucini Passalacqua: lacche, porcellane, bronzi, tessuti, armi e armature da samurai che, negli anni Settanta dell’Ottocento, il nobile collezionista raccolse all’interno del già allora favoloso Museo Giapponese da lui allestito nella propria casa sul lago di Como, a Moltrasio. Oggetti preziosi che evocano un immaginario dell’Oriente al tempo ancora più sognato che conosciuto, ma che proprio in quel periodo, anche in conseguenza delle forti relazioni che i commercianti lombardi della seta instaurano con l’Asia, inizia a delinearsi come vero, e fattivo, scambio culturale.

Léon François-Comerre, “Ritratto della signorina Achille-Fould in abito giapponese”, 1885 circa. Photo Michiel Elsevier Stokmans

Lo stesso dal quale deriva quella sorta di profonda fascinazione che va sotto il nome di Giapponismo, vero e proprio modello per i nascenti movimenti modernisti in Europa, oggetto di crescente interesse in campo letterario, artistico e musicale. E ora testimoniato, nelle sale del Mudec, da oltre 170 fra dipinti, stampe, oggetti d’arredo, sculture, fotografie. Con particolare riguardo agli artisti italiani, da De Nittis a Chini, a Segantini, ma senza dimenticare i pittori francesi che nel medesimo periodo subirono, e trasmisero attraverso le loro opere, l’incanto del lontano Oriente: Van Gogh, Gauguin, Fantin-Latour, Toulouse-Lautrec, Monet. E senza trascurare dipinti quali il purpureo “Ritratto della signorina Achille-Fould in abito giapponese”, di Comerre, o “La giapponesina”, di Induno, o ancora i lavori del mercante, poi critico d’arte, quindi pittore milanese Vittore Grubicy de Dragon.
Mentre, in parallelo, si susseguono opere di differenti scuole e movimenti artistici giapponesi attivi tra il 1890 e il 1930, raramente oggetto di esposizione. Una su tutte, l’incantevole “Notte di neve”, xilografia del 1923 di Ito Shinsui.
Né poteva mancare, in una mostra di questo calibro, la testimonianza delle influenze che il mondo orientale, giapponese in particolare, ha avuto sulla musica occidentale. Inevitabili quindi i rimandi a Puccini e alla sua “Madama Butterfly”. Grazie alle videoinstallazioni, che accompagnano il visitatore lungo tutto il percorso museale, e soprattutto a una selezione, frutto della collaborazione con il Teatro alla Scala, di alcuni fra i più bei costumi di scena dipinti a mano e indossati, fra il 1925 e il 1986, dalle cantanti liriche che hanno dato voce, sul palco scaligero, all’immortale vicenda della piccola Cho Cho San.

“Quando il Giappone scoprì l’Italia. Storie d’incontri (1585-1890)” e “Impressioni d’Oriente. Arte e collezionismo tra Europa e Giappone”, Mudec, Museo delle Culture di Milano, via Tortona 56, fino al 2 febbraio 2020

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