La famiglia secondo Erwitt. A Milano 60 scatti del grande fotografo: la commedia della vita, senza veli e senza giudizi

MILANO, mercoledì 16 ottobre ► (di Patrizia Pedrazzini) Non è un concetto facilmente definibile, quello di famiglia. Tanto riesce a essere, questa particolare realtà, al contempo solida e delicata, assoluta e relativa, universale e mutevole. A seconda dei periodi storici, ma anche delle situazioni geografiche, dei condizionamenti politici e sociali, della stessa genetica. E se fosse, la famiglia, solo più “soggettiva” di quanto promette?
Al Mudec di Milano, fino al prossimo 15 marzo, una particolare mostra cerca di darne un’immagine sfaccettata e insieme il più possibile variopinta e (quasi) completa. E lo fa attraverso sessanta scatti di uno dei massimi fotografi del Novecento: Elliott Erwitt, classe 1928, nato a Parigi da genitori ebrei russi, vissuto a Milano fino ai dieci anni, quindi approdato negli Stati Uniti. Fotografie tutte in rigoroso bianco e nero, cariche di affettuosa e umanissima ironia, di leggerezza e semplicità, ma anche di riservatezza, di dolore, di cupa e silenziosa disperazione. Situazioni privatissime e immagini pubbliche, ma sempre immortalate con sguardo acuto, brillante e anticonformista, lungo un arco temporale di circa settant’anni.
Eccola, allora, la “family” secondo Ervitt. Quella americana, ingessata e rigida, in posa sul sofà anni Sessanta, o seduta sul parafango del nuovo “bene”, l’automobile, o quella che sembra avere come perno il cane di casa (celebri i suoi spesso buffi cagnolini), eletto a membro-guida della piccola comunità.

Elliott Erwitt, “New York City”. Usa 1974

Ecco il celeberrimo scatto del matrimonio di Bratsk (Siberia, 1967): gli sposini curiosi e un po’ confusi che osservano un ospite, seduto vicino, dall’aria baldanzosa e di sfida, quasi custodisse chissà quale scomodo segreto. E la mamma del Ku Klux Klan che, sollevato il cappuccio bianco, stringe a sé il figlioletto.
Erwitt e la commedia umana: ecco i matrimoni nudisti e i nuclei “allargati”.
Ecco le famiglie già in atto e quelle ancora da venire: la bambina neonata sul lettone (che è poi Ellen, la sua primogenita) e i pancioni delle donne incinte, allegre e sorridenti dietro il bancone di un bar, elegantissime nei loro profili neri dolcemente arrotondati.
E le famiglie che c’erano e non ci sono più: Jackie Kennedy in veletta nera con il cognato Bob al funerale del marito, e la vecchia madre di Robert Capa accucciata, in uno strazio che ha ucciso anche la speranza, sulla lapide del figlio.
Visioni e angolazioni diverse, ma dietro, sempre, uno stile unico e potente, per un racconto che Erwitt (le sessanta immagini sono state da lui stesso selezionate) conduce, come sempre, senza tesi prefissate, nella più totale e libera sospensione di giudizio.
Da vedere.

“Elliott Erwitt. Family”, Milano, Mudec, via Tortona 56, fino al 15 marzo 2020

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A Milano l’arte, le collezioni, la storia dell’incontro fra due culture. Quando l’Europa si innamorò del Sol Levante

Domenico Tintoretto, “Ritratto di Ito Mancio”, 1585

MILANO, mercoledì 2 ottobre ► (di Patrizia Pedrazzini) – Il giovane, nemmeno ventenne, è ritratto di tre quarti, a mezzo busto. Ha i lineamenti orientali e veste un abito ispanico del XVI secolo, con una vistosa gorgiera bianca. L’espressione è regale, fiera ma non boriosa, con qualcosa di magnetico. La dicitura lo identifica con Ito Mancio, capo dell’Ambasceria del Tensho: quattro principi giapponesi convertiti che, scortati da gesuiti, giunsero in Europa, e in Italia, intorno al 1590.
Commissionato a Jacopo Robusti il Tintoretto (e in tempi recenti attribuito al figlio di lui, Domenico, ritrattista più abile del padre), il dipinto è ora esposto per la prima volta in Italia e in Europa nell’ambito del progetto “Oriente Mudec”: due mostre distinte e complementari che, fino al prossimo 2 febbraio, racconteranno, negli spazi espositivi del museo milanese, l’incontro culturale (artistico in primo luogo, ma anche storico ed etnografico), e i successivi reciproci scambi, fra il Paese del Sol Levante e il Vecchio Continente, Italia e Francia soprattutto.
Di particolare impatto, per rarità e bellezza, la sezione dedicata alla Collezione del conte Giovanni Battista Lucini Passalacqua: lacche, porcellane, bronzi, tessuti, armi e armature da samurai che, negli anni Settanta dell’Ottocento, il nobile collezionista raccolse all’interno del già allora favoloso Museo Giapponese da lui allestito nella propria casa sul lago di Como, a Moltrasio. Oggetti preziosi che evocano un immaginario dell’Oriente al tempo ancora più sognato che conosciuto, ma che proprio in quel periodo, anche in conseguenza delle forti relazioni che i commercianti lombardi della seta instaurano con l’Asia, inizia a delinearsi come vero, e fattivo, scambio culturale.

Léon François-Comerre, “Ritratto della signorina Achille-Fould in abito giapponese”, 1885 circa. Photo Michiel Elsevier Stokmans

Lo stesso dal quale deriva quella sorta di profonda fascinazione che va sotto il nome di Giapponismo, vero e proprio modello per i nascenti movimenti modernisti in Europa, oggetto di crescente interesse in campo letterario, artistico e musicale. E ora testimoniato, nelle sale del Mudec, da oltre 170 fra dipinti, stampe, oggetti d’arredo, sculture, fotografie. Con particolare riguardo agli artisti italiani, da De Nittis a Chini, a Segantini, ma senza dimenticare i pittori francesi che nel medesimo periodo subirono, e trasmisero attraverso le loro opere, l’incanto del lontano Oriente: Van Gogh, Gauguin, Fantin-Latour, Toulouse-Lautrec, Monet. E senza trascurare dipinti quali il purpureo “Ritratto della signorina Achille-Fould in abito giapponese”, di Comerre, o “La giapponesina”, di Induno, o ancora i lavori del mercante, poi critico d’arte, quindi pittore milanese Vittore Grubicy de Dragon.
Mentre, in parallelo, si susseguono opere di differenti scuole e movimenti artistici giapponesi attivi tra il 1890 e il 1930, raramente oggetto di esposizione. Una su tutte, l’incantevole “Notte di neve”, xilografia del 1923 di Ito Shinsui.
Né poteva mancare, in una mostra di questo calibro, la testimonianza delle influenze che il mondo orientale, giapponese in particolare, ha avuto sulla musica occidentale. Inevitabili quindi i rimandi a Puccini e alla sua “Madama Butterfly”. Grazie alle videoinstallazioni, che accompagnano il visitatore lungo tutto il percorso museale, e soprattutto a una selezione, frutto della collaborazione con il Teatro alla Scala, di alcuni fra i più bei costumi di scena dipinti a mano e indossati, fra il 1925 e il 1986, dalle cantanti liriche che hanno dato voce, sul palco scaligero, all’immortale vicenda della piccola Cho Cho San.

“Quando il Giappone scoprì l’Italia. Storie d’incontri (1585-1890)” e “Impressioni d’Oriente. Arte e collezionismo tra Europa e Giappone”, Mudec, Museo delle Culture di Milano, via Tortona 56, fino al 2 febbraio 2020

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Incontri e abbracci: centoventi sculture per esplorare la condizione umana. L’attesa, la lontananza, la compassione

Arturo MARTINI, Figliol prodigo, 1926, Bronzo a patina verde Dimensioni cm 219 (h) x 149 x 100. Casa di Riposo Jona Ottolenghi, Acqui Terme (AL)

PADOVA, lunedì 16 settembre – “Incontro e Abbraccio”, mostra d’arte a sviluppo tematico, al Palazzo del Monte di Pietà, a Padova, esporrà – dal 16 novembre al 12 gennaio 2020 – una rassegna di ben 120 sculture del Novecento, esplorando le molteplici singolarità della condizione umana. Tra queste 120 opere, spesso capolavori, saranno esposte sculture di Auguste Rodin, Vincenzo Gemito, Arturo Martini, Pietro Canonica, Jacques Lipchitz, Agenore Fabbri, Virgilio Guidi, Luciano Minguzzi, Fernad Legèr, Henry Moore, Marcel Duchamp, George Segal, Salvator Dalì, Lorenzo Quinn, Igor Mitoraj, fino alle tendenze iconiche di fine secolo. Tutte incentrate sul senso delle attese. “Attese” di persone che chiedono il sostegno di una parola, il riconoscimento di uno sguardo, la condivisione di un gesto. Per offrire una visione dell’uomo, aperto e positivo, in contrapposizione a chiusure, indifferenza o disimpegno.
In ragione di questo obiettivo, la scelta delle opere e la loro collocazione in mostra non risponde ad una cronologia di realizzazione, a ragioni di assonanza stilistica o ad altri criteri che afferiscono alla storia e critica d’arte. La scelta è condotta su tutt’altro registro, persino più affascinante e certo coinvolgente: a fare da filo conduttore sono precisi temi in dialogo tra loro: il cammino della vita, la formazione, l’incontro, la relazione, la lontananza, l’attesa e la compassione.
Tra le espressioni artistiche, – scrive Maria Beatrice Autizi curatrice della mostra insieme con Alfonso Pluchinotta – , la scultura è quella che riesce a rappresentare meglio le problematiche dell’uomo, per la tridimensionalità e per la relazione dei corpi e delle forme nello spazio: quello spazio intimo della materia che racconta il corpo trasformandolo in forma e luogo di accadimenti nelle più diverse modulazioni, ora armoniche in una compostezza classica, ora enfatizzando il movimento con cui la materia racconta se stessa, ora sollecitando le superfici con tonalità impressioniste, o ripiegando su narrazioni liriche, o simboliste, o metafisiche”.
L’opera d’arte scultorea si fa qui sollecitazione, introspezione, ricerca delle forme e dei gesti. L’arte plastica esalta la complessità dei volumi e richiama l’attenzione sul dettaglio, aspetto valorizzato dalla possibilità data ai visitatori di rigirare e toccare alcune delle opere in mostra.
Soprattutto la figura umana a più dimensioni suscita osservazioni diverse, invita a riflettere sulla vita, le sue grandezze e le sue fragilità, più di quanto potrebbero le immagini bidimensionali di uso comune. “Ci stiamo diseducando alla tridimensionalità, al tatto, alla durata che genera rappresentazione, avvertendoci così del rischio di diventare osservatori frettolosi, meno capaci di cogliere le disposizioni dell’animo e dell’affettività”, sottolinea Alfonso Pluchinotta. “Nell’epoca digitale, l’Umanesimo appare sempre più lontano, scavalcato (ma non domato) dalla velocità e dalle nuove possibilità di comunicazione, che limitano l’esercizio dell’attenzione e della riflessione, il farsi della sedimentazione e della memoria, la dimensione reale e rispondente dei contatti”.
Una mostra dalla forte attualità sociale, quindi. E, non a caso, a promuoverla è la Fondazione Salus Pueri, onlus creata nel 1992, a Padova, per far sì che la Pediatria del locale Policlinico sia sempre più “casa”, naturalmente temporanea ma familiare, per i più piccoli.

Alfredo SASSO, Man and mirror, 1980, Bronzo, firmato alla base (A. Sasso) e datato.  Dimensioni cm 67 (h) x 31 x 20

Al progetto hanno aderito l’Università agli Studi di Padova, la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, la Solgar farmaceutici, Inartis, Poligrafo, Assicurazioni Generali, con il patrocinio della Commissione Europea e di Regione, Provincia e Comune.
Per il valore sociale oltre che culturale della grande rassegna, l’ingresso sarà gratuito, salvo una donazione libera a sostegno delle attività della Fondazione Salus Pueri.
“Incontro e abbraccio” non è solo questa grande mostra. Il progetto le affianca infatti una serie di incontri con Vittorino Andreoli, psichiatra, già Direttore del Dip. di Psichiatria dell’Università di Verona; Barbara Volpi, docente al Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica de La Sapienza, Roma; Salvatore Piromalli, filosofo, operatore sociale, Responsabile Associazione Le Città Invisibili; Patrizia Manganaro, docente di Storia della Filosofia Contemporanea alla Lateranense di Roma. Chimati ad approfondire i temi della grande mostra.

INCONTRO E ABBRACCIO nella Scultura del Novecento da Rodin a Mitoraj. Padova, Palazzo del Monte di Pietà, Via Monte di Pietà, 8 (Piazza Duomo); 16 novembre 2019 – 12 gennaio 2020; ore 9:30 18:30 – chiuso il lunedì. INGRESSO GRATUITO (donazione libera alla Fondazione Salus Pueri).
www.incontroabbraccio.it

Al Palazzo Ducale le ceramiche che gli inglesi ritennero di Raffaello (“Raffaello ware”). Ma lui ne fu solo l’ispiratore

URBINO, mercoledì 4 settembre – Al Palazzo Ducale di Urbino dal 31 ottobre 2019 al 13 aprile 2020, saranno esposti 147 esemplari di maiolica rinascimentale italiana: una raccolta di altissimo livello, appartenente a un colto collezionista che ha concesso di esporre questa eccezionale collezione, in concomitanza con la grande mostra “Raffaello e gli amici di Urbino” promossa dalla Galleria Nazionale delle Marche al Palazzo Ducale dal 3 ottobre 2019 al 19 gennaio 2020.
Ciascuna delle 147 maioliche testimonia, a livelli altissimi, come la grande stagione rinascimentale italiana sia riverberata su ogni forma artistica e, nello specifico, in quella della maiolica. Tecnica, o meglio arte, che esprime in pieno la ricerca estetica, il clima culturale, ma anche il modus vivendi, che fanno dell’Italia e dei suoi artisti, tra Quattrocento e Cinquecento, il faro culturale dell’Occidente.
Già dal Seicento, nei paesi europei, la maiolica cinquecentesca italiana diventa una vera e propria passione collezionistica e, a quella istoriata, da considerarsi a pieno titolo un aspetto della pittura rinascimentale, viene associato il nome del grande pittore e architetto urbinate Raffaello Sanzio, morto ancora giovane a 37 anni, Raffaello Sanzio (Urbino 1483 – Roma 1520).
A Raffaello si ispira, ora, la stessa mostra di maioliche, in inglese “Raphael ware” (le maioliche di Raffaello). Scrisse Claudio Paolinelli (scrittore, conferenziere e “operatore culturale addetto al restauro dei beni archeologici, e curatore della stessa mostra, insieme con Timothy Wilson): “In Inghilterra, nel corso del Settecento, con il crescente interesse mostrato dai collezionisti per le maioliche rinascimentali italiane, si diffuse l’appellativo di Raphael ware, ad indicare le ceramiche ritenute dipinte dalla mano di Raffaello, aumentandone di conseguenza il prestigio ed il commercio, che ne determinò la dispersione verso le principali collezioni pubbliche e private d’Oltralpe… (In realtà) lo studio del corpo, del panneggio, della composizione” delle opere di Raffaello, ispirò l’arte della ceramica, più di ogni altro pittore.
Più genericamente, seguendo il gusto rinascimentale per la decorazione figurata, i pittori di maiolica – tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento – iniziano a coprire ogni superficie disponibile dei loro oggetti, con istorie di ogni sorta. Le composizioni possono essere invenzioni originali degli stessi maestri ceramisti o riecheggiare quelle delle arti maggiori, ed ancora, essere estratte da xilografie o incisioni.
Nel ducato di Urbino, Casteldurante, Gubbio, Pesaro ma, soprattutto, il capoluogo, divengono famosi per l’istoriato. Urbino è infatti la città che, nella seconda metà del Quattrocento, il Duca Federico trasforma in una delle capitali del Rinascimento, richiamandovi i massimi esponenti della cultura del tempo ed edificandovi il Palazzo Ducale, capolavoro indiscusso della storia dell’architettura di ogni tempo. La città, in questo contesto artistico e culturale, dà i natali a Raffaello, il pittore la cui levatura ancora giganteggia nel panorama artistico universale. Ma, in questo humus creativo, a Urbino si formarono anche alcuni dei più grandi artisti della maiolica italiana: Nicola da Urbino, Francesco Xanto Avelli e Francesco Durantino.
Ad accogliere la mostra al secondo piano del Palazzo Ducale di Urbino sarà la luminosa Loggia del Pasquino, con l’intenzione di mostrare questi raffinati oggetti nella piena luce naturale poiché la maiolica, come quando uscì dalla bottega del ceramista – più di ogni altra forma d’arte del tempo – mostra i suoi colori perfettamente conservati come all’origine.

(p.a.p.)

Galleria Nazionale delle Marche – Palazzo Ducale di Urbino – Piazza Rinascimento 13, 61029 Urbino (PU) – Telefono: 0722 2760. Mostra a cura di Timothy Wilson e Claudio Paolinelli. Direzione di Peter Aufreiter.

www.gallerianazionalemarche.it