Lino Guanciale a mitraglia. Un testo caleidoscopico in un ottovolante di emozioni. Un’ora e mezzo di puro godimento

MILANO, mercoledì 22 marzo (di Emanuela Dini) Una montagna di magliette che potrebbe trovarsi in un magazzino, una discarica, un outlet; un leggio e una maschera anti gas, una bambola bionda in balconata e un’altra, una Barbie, che cala dall’alto; un fisarmonicista slavo che tenta di rubare la scena (e un po’ ci riesce); un testo caleidoscopio e martellante; un attore-voce narrante che inventa voci, personaggi, gesti, si trasforma indossando magliette diverse una sull’altra, recita e declama e ti fa salire su un ottovolante di emozioni che ti verrebbe voglia di urlargli: “Aspetta, fermati, cos’hai detto? Ma davvero è andata così? Ripeti, per favore, che sei andato troppo in fretta”.
È “Europeana-Breve storia del XX secolo” in scena al Piccolo Teatro di Via Rovello, con Lino Guanciale protagonista e regista, tratto dal libro di Patrik Ourednik, autore contemporaneo (è nato nel 1957) ceco naturalizzato francese.
Un libro – e uno spettacolo- che è un insieme frenetico di notizie sulla storia del XX secolo, raccontata senza ordine, alla rinfusa, un susseguirsi di scampoli, brandelli, flash della storia europea, entusiasmi, tragedie, slanci, efferatezze, passioni e guerre raccontati tutti insieme, un po’ come viene, con caustico sarcasmo, passando con disinvolta soavità dalla farsa alla tragedia e viceversa. E così stanno tutti insieme, i morti della Prima Guerra mondiale “15.508 chilometri di cadaveri, messi uno dietro l’altro” e l’invenzione del reggiseno (1914), le camere a gas dei nazisti e i rotoli di carta igienica (made in Svizzera, 1901); le dittature e le efferatezze dei regimi tutti uguali nelle loro atrocità e l’arrivo della Barbie (1959) “la prima bambola che si comporta da donna adulta”. E i vari sapientoni, storici, filosofi, linguisti, analisti, sociologi che tentano di dare definizioni e mettere le loro etichette, ma non riescono a capire né spiegare perché l’uomo non è ancora diventato migliore.
Il tutto – 156 pagine fitte fitte per un’ora e 20 di spettacolo senza intervallo – letto e recitato da un Lino Guanciale in splendida forma, che incalza al ritmo di un frullatore (“Vorrei proprio che il pubblico avesse la sensazione di essere finito dentro il vortice di un frullatore”), modula tempi e toni, dà vita a un pupazzo che sembra l’umarèl dal caro, vecchio buon senso, indossa a ogni storia diversa una maglietta diversa con i vari simboli e loghi – falce e martello, il ciuffo di Hitler, la stella ebraica, la Coca Cola, la mela della Apple e la spirale del DNA – e mette in scena un vero corpo a corpo tra attore e testo – lui, che in gioventù è stato nazionale di rugby e di corpo a corpo se ne intende – non si risparmia, duetta con il fisarmonicista sloveno Marko Hatlak, e non si capisce chi dei due si diverte di più. Puro godimento.
Sala piena, con tantissimi giovani, applausi anche a scena aperta, uno spettacolo da non mancare.

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“Europeana – Breve storia del XX secolo”, di Patrik Ourednik – Diretto e interpretato da Lino Guanciale – Musiche eseguite dal vivo da Marko Hatlak, fisarmonicista – Costumi ed elementi di scena di Gianluca Sbicca – Luci Carlo Pediani – Coproduzione Wrong Chikld Production e Mittelfest 2021 in collaborazione con Ljubljana Festival. Al Piccolo Teatro Grassi, via Rovello 2, Milano – Repliche fino a domenica 2 aprile. Informazioni e prenotazioni 02.21126116.

www.piccoloteatro.org

“Les Contes d’Hoffmann” alla Scala in formato musical. O avanspettacolo. Ma è proprio questo che voleva Offenbach?

MILANO, giovedì 16 marzo (di Carla Maria Casanova)Tre belle oracce e 45 minuti di spettacolo che hanno fatto provvidenzialmente anticipare l’inizio alle 19.30.
Les contes d’Hoffmann sono la sola opera seria (opéra fantastique)  di Jacques Offenbach, celebre  per le sue numerose brillanti operette.
Il musicista morì quattro mesi prima di averla ultimata (1881). Il compito fu assunto dall’amico Ernest Guiraud. La gestazione dell’opera fu assai travagliata ed anche in seguito di questo lavoro ci si permise di tutto: rimozioni, tagli, spostamenti. Spesso, fino a non molto tempo fa, l’opera terminava con l’atto di Antonia. L’edizione scaligera andata in scena ieri sera termina con l’atto di Giulietta, quello della barcarola,  l’unico motivo popolare e di cantabilità assai romantica (come vuole lo stesso termine musicale).
Anche la gestazione di questo spettacolo milanese pare abbia subito inenarrabili travagli e che molto sia stato tolto alla struttura scenica (chissà cos’era prima!).
E adesso sorge un problema. Stanotte, tornata dalla Scala dopo le 3 ore ecc. se mi fosse stato chiesto che cosa avevo visto/sentito, non avrei saputo cosa rispondere. Di questi Racconti non mi è rimasto addosso niente. A parte il ritmo della barcarola che si diceva.
Per la messa in scena si è scelta la chiave del musical, avanspettacolo, operetta se preferite. E trattandosi di Offenbach si può capire. Ma questa è un opéra fantastique ed è piuttosto seria, anche se il fantastico si armonizza con il sentimentale, il surreale con il satirico e il grottesco.
Ideatore è Davide Livermore, che in tale guazzabuglio (sfido chiunque a capire l’intreccio) si trova a suo perfetto agio. Dice il regista: “Tanti si lamentano perché i budget a teatro sono limitati, ma fare il teatro non è un problema di budget bensì di idee”. Giustissimo. E lui di idee ne ha un’infinità. Peccato che non riesca a selezionarle: le mette in scena tutte. Con l’aggiunta di altre, ottenendo un assoluto horror vacui. Di questo spettacolo, l’idea che mi rimane in mente è quella, all’inizio del terzo atto, di far stendere sopra gli spettatori della platea un enorme velo fluttuante, come a metterli nel mare (anche in scena c’è il mare). Dura poco perché gli spettatori non sono contenti di stare sotto al velo. Ricordo inoltre l’immissione, tra gli interpreti, di un personaggio diversamente alto (se qualcuno non si è ancora aggiornato, il dizionario dice nano), in smoking luccicante e tuba. Ovviamente non canta, lo si nota perché è diverso e fa scena e Livermore appena può (vedi corte di Mantova in Rigoletto) lo introduce nel cast. Fine.
Non vedo altro degno di nota, tra le immancabili proiezioni, lo sterminio di mimi danzanti in calzamaglia nera, i singolari stupri di gruppo (magari anche solo tra due di cui la donna non è ovviamente d’accordo), i faretti accecanti dritti sulla platea e gli spari: inizia con l’immagine di una rivoltella puntata e poi uno sparo furibondo con cui allo stesso modo si conclude l’ossessionata vicenda quando il protagonista viene messo in un baule (mi si dice una bara) e non se ne parla più. Significa che lui che ha cambiato vita.
La storia è quella narrata nel libretto di Jules Barbier a proposito di Hoffmann, giovanotto che rivive le vicende di tre suoi amori i quali, per un motivo o per un altro, sono solo sue fantasticherie. E l’amata sarebbe in realtà sempre la stessa, sotto tre diverse spoglie. Quindi è meglio che questo giovane metta la testa a posto e i piedi in terra.
Les Contes non sono opera di repertorio. Nella mia lunga vita ne avrò visti sì e no una dozzina. Però me li ricordo, accidenti se me li ricordo, o per l’allestimento (Carsen, De Ana…) o per qualche interprete (Domingo e la Sutherland, Kraus e June Anderson, e anche le più recenti Dessay e Rancatore splendide Olympia). Qui proprio niente.
Passo a volo d’uccello: il direttore Frédéric Chaslin, francese doc ed esperto del genere, è stato fischiato. Direi immeritatamente. Lui alcuni giorni fa si era lasciato scappare che nella precedente edizione scaligera dei Racconti (2012?) il francese (lingua) non era perfetto. Sarà. Qui la dizione è perfetta solo in Grigolo. È già qualcosa. Ma non credo che i fischi dipendano da un eccessivo campanilismo linguistico. Forse ci si è ricordati che il buon Offenbach, innamorato di Mozart al punto di farne aggiungere il nome ai suoi (Ernst, Theodor, Amadeus 1776-1822), di Mozart qua e là aveva anche la leggerezza. E in questi Contes di leggerezza non si parla proprio.  Fischi ovvi, ma moderati, per il regista Livermore coadiuvato da Giò Forma per le scene (ma ci sono delle scene, oltre alle proiezioni??) e Gianluca Falaschi per i costumi da avanspettacolo. Applausi ai cantanti, con ovazione per il protagonista Vittorio Grigolo: Hoffmann è personaggio che sembra composto per lui. Qualche anno fa gli stava ancora meglio.
Le donne. Olympia, la bambola, ha i famosi spericolati trilli che usano scatenare entusiasmi deliranti. Non qui. In effetti la voce di Federica Guida è un po’ troppo corposa per la svettante coloratura della parte. Antonia è Eleonora Buratto. Pur avendo fatto annunciare una indisposizione, si è comportata come al solito benissimo; Giulietta è la giovane promessa Francesca Di Sauro non ancora trentenne. A Nicklausse, ruolo en travesti, ha dato voce il mezzosoprano Marina Viotti, laureata in filosofia e diplomata in flauto, pregevole vocalmente e per presenza scenica.
La compagine maschile, tutti cattivi, addirittura diabolici (Lindorf/Coppelius/Dapertutto/Dottor Miracle) è stata affidata al basso Luca Pisaroni, e ci sono ancora, alternati in vari ruoli, François Piolino, Yann Beuron, Hugo Laporte, Alfonso Antoniozzi.
Grande impegno per il Coro della Scala, guidato da Alberto Malazzi, osannato come di dovere. Improbo lavoro hanno dovuto accollarsi il maestro delle luci (Antonio Castro) e la Compagnia Controluce (Teatro d’Ombre), settori inseriti da poco nei cast e che ci si dimentica sempre di citare.

E l’esile fanciulla coreana, Eun Sun Kim, eccola sul podio a dirigere Bohème. Con violenza inaudita da energumena

MILANO, domenica 5 marzo ► (di Carla Maria Casanova) Non occorreranno molte parole per la 24ma ripresa di Bohème di Puccini (e parlo solo della Scala) per un totale di 241 recite (+ le 8 di quest’anno se ho contato bene) avvenute nell’arco di 60 anni. Un record assoluto.
Questa Bohème “di” Zeffirelli, del quale si commemorano i 100 anni della nascita, esordì il 31 gennaio 1963 e fu subito trionfo. Tanto per dire, era diretta da Karajan e il cast comprendeva Mirella Freni, Gianni Raimondi (tenore eccelso mai abbastanza ricordato), Rolando Panerai, Eugenia Ratti, Ivo Vinco. Se lo spettacolo è immortale, purtroppo gli interpreti “vita immortal non hanno”. E si fa con quello che passa il convento.
Ieri sera alla Scala si è avuto un attimo di smarrimento (perpetrato però per tutta la durata della esecuzione) al primo colpo di bacchetta. Colpo nel senso che chi stava sul podio si è avventato sulla partitura generando un’accozzaglia di suoni di violenza inaudita, laddove i cantanti, per tutto il primo atto, a voglia sgolarsi. Impossibile farsi sentire, soverchiati da un’orchestra tonitruante. Poi si è scoperto che si tratta di una direttrice, la esile e delicata coreana Eun Sun Kim, la quale, forse proprio per sopperire al femmineo aspetto, ha creduto bene improvvisarsi in una sorta di energumeno. Non bene. Forse il nuovo glossario correct non permette più di dare informazioni intime, tipo precisare il sesso di una persona. Di solito il nome illumina ma qui no. Fatto sta che sul podio c’era una persona che dirigeva con estrema violenza. Fate un po’ voi.
Nelle 7 repliche che seguiranno si alterneranno vari interpreti. Ieri sera Mimi era Marina Rebeka, soprano lituano di prestigioso curriculum. Al suo fianco nomi meno noti (accuratamente celata la data di nascita), che si sono messi in valore negli ultimi anni anche in campo internazionale: Freddie de Tommaso (Rodolfo) tenore, vincitore del Concorso Placido Domingo e del Viñas di Barcellona; Luca Micheletti (Marcello)  baritono, debutto a Cagliari nel 2018 in Escamillo ma ha alle spalle un bel tirocinio con Ronconi, Orsini e Bellocchio come interprete di prosa, qualità che emergono anche nel suo ruolo di cantante; Irina Longu (Musetta) soprano che voci di corridoio volevano cagliaritana, mentre è russa, nata in Moldavia (ma la Moldavia non faceva parte della Romania? Almeno lo era quando ci sono stata io… qui i confini vanno e vengono e non si riesce più a stargli dietro), comunque la Longu si è perfezionata all’Accademia del Teatro alla Scala dove ha debuttato  giovanissima, nel Moise et Pharaon diretta da Riccardo Muti (2003); Alessio Arduini (Schaunard) baritono, si è fatto le ossa, cioè le corde vocali, cantando molto Mozart, con debutto nel  Don Giovanni, produzione del Pocket Opera, al Sociale di Como, poi ha calcato scene importanti, dalla Scala al Metropolitan, alla Royal Opera House al Maggio fiorentino; il coreano Jongmin Park (Colline) basso, formatosi all’Accademia della Scala. Dire che questo cast abbia riservato grandi emozioni è dire molto. Anche lo spettacolo, in 60 anni di rimaneggiamenti (la regìa di Zeffirelli è ripresa da Marco Gandini, gli originali costumi di Piero Tosi sono stati ripresi da Anna Biagiotti) non ha più la freschezza originale e comporta qualche licenza (quando mai Mimi entra al Café Momus con già in capo la “cuffietta rosa”? Rodolfo ha avuto il tempo di correre a comperarla ed omaggiarne Mimì, fin dalla la prima sera?).
Ma beninteso è una signora Bohème, con tutti i suoi 60 anni sul gobbo.
Teatro esaurito. Successo scontato (senza esagerazione).

Repliche: 7, 11, 14, 16, 19 (ore 14,30), 22, 26 (ore 14.30) marzo

“Aida” al Regio. Trionfale grandiosità d’un regista dell’horror. Ma con rispetto. In punta di piedi. Senza stravolgere nulla

TORINO, lunedì 27 febbrai ► (di Carla Maria Casanova)È tornata, al teatro Regio di Torino, l’applaudita edizione 2005 (già ripresa nel 2015) di Aida firmata da William Friedkin, il regista premio Oscar di capolavori genere poliziesco e horror (Il braccio violento della legge, L’esorcista). Il nome incuteva rispetto ma anche timore. Avrebbe sprofondato il solare ambiente egizio in un girone dantesco? Beh, pochi registi hanno mantenuto l’ambientazione originale dell’opera più di quanto ha fatto Friedkin.
Appassionato di melodramma da tempo, non si era mai posto il problema di portarne in scena uno lui, poi fu Zubin Mehta, una sera a cena, a proporglielo, offrendogli anche la scelta del titolo. Dal suo punto di vista, Friedkin non poteva scegliere che Lulu o Wozzeck. E fu Wozzeck, a Firenze, con il successo che si sa.
Ci prese gusto e si azzardò ad approdare all’opera di repertorio, quella proprio che più popolare non si può: l’Aida di Verdi. Ma in punta di piedi, con rispetto, cioè non osando proprio stravolgere niente. L’unica difficoltà stava nel riuscire a coniugare la grandiosità (vedi trionfo) con l’intimità (il rapporto tra le due donne rivali, Aida ed Amneris, che amano lo stesso uomo; la lacerazione tra l’amor per la patria e l’imposto tradimento del l’amante; l’estasi della consumazione estrema, sotto alla “fatal pietra”). Perché Aida, contro a una certa tradizione, è (eccetto la scena del trionfo) un’opera intima, quasi da camera.
Friedkin l’ha capito bene e la sua realizzazione, coadiuvata validamente da Carlo Diappi per scene e costumi, ha agito in questo senso. È una Aida strettamente egizia, con colonne possenti ma anche una deliziosa cameretta allietata da leggeri affreschi per descrivere le stanze di Amneris. E la feluca che aspetta sul Nilo la notte dl veglia nuziale di Amneris. Tutto si svolge in ossequio alle precise indicazioni del libretto.
A due passi dal più importante Museo Egizio, dopo quello del Cairo, come avrei potuto operare un tradimento?” dice il regista. Forse, nella ripresa (di Riccardo Fracchia) dopo tanti anni, c’è qualche svarione: vedi un Radames con baffi hitleriani (quando mai??) e un Re che incede come un ragazzaccio sfaticato, ma sono svarioni che potrebbero derivare da questo cast.
Qui entriamo nello spettacolo attuale: sono dieci recite più una anteprima giovani, che si susseguono giorni dopo giorno, con alternanza di interpreti, e improvvise sostituzioni dell’ultimo momento. A occhio e croce, i loro nomi assicurano onesti professionisti che girano il mondo, magari senza suscitare emozioni indimenticabili. Signori, le Tebaldi e i Bergonzi sono morti. Facciamocene una ragione.
Ieri, al matinée domenicale, io ho sentito: Anna Nechaeva (Aida), Stefano La Colla (Radames), Anastasia Boldyreva (Amneris), Gevorg Hakobyan (Amonasro), Evgeny Stavinsky (Ramfis), Marko Mimica (il Re). Direttore Michele Gamba. Se all’orchestra (del Regio) sono stati impressi tempi molto lunghi che non hanno aiutato i cantanti, da loro speravamo qualcosa di più. La Nechaeva (classe 1976) specialista del repertorio russo, ha la tipica vocetta dai suoni vibrati. Ha regalato però qualche bel filato. Stefano La Colla, torinese, forse condizionato dalle molte recite a Verona, manifesta poca attitudine al passaggio, lanciando qua e là gli alti squilli che tanto piacciono al pubblico delle Arene; Gevorg Hakobyan (Armenia 1981) è baritono di voce possente; la più completa, per presenza scenica e qualità vocale, è parsa Anastasia Boldyreva, mezzosoprano russo formatasi a Mosca e poi al Maggio Musicale Fiorentino. Accanto ai due bassoni (Re e Ramfis) mi pare giusto segnalare Thomas Cilluffo (messaggero) e Irina Bogdanova (Sacerdotessa) che nelle loro piccole parti si sono comportati senza pecca. Questi due nelle critiche non vengono quasi mai neppure citati, avendo ruoli insignificanti: lei addirittura tra le quinte e lui che irrompe nel primo atto per dire tre (di numero) frasi. Sono quasi sempre giovani delle Accademie ed anche qui provengono dal Regio Ensemble. Oso dire che sono quelli che mi sono piaciuti di più. E così il Coro, molto applaudito.
A conti fatti, questa Aida si potrebbe dimenticare, fuorché per l’allestimento, che è cosa egregia, una volta di più dimostrando quanto non siano necessarie le stravaganze dei Fura del Baus per produrre un buono spettacolo di opera lirica. Anzi, quelle sarebbero proprio da evitare.
Questa Aida è in atto al Teatro Regio tutti i giorni fino all’8 marzo. Lo spettacolo dura 3 ore e 40 minuti, con due intervalli. Per la recita domenicale è da segnalare la novità della istituzione di un Bimbi Club dove i giovani genitori possono parcheggiare i figlioletti mentre loro ascoltano l’opera. Una novità molto sensata. Da tenerne conto, per gli altri teatri.