Il ghigno amaro della risata con Arturo Cirillo nella sala delle torture del più turpe dei vizi, l’avarizia

Milano. Sabrina Scuccimarra e Arturo Cirillo in una scena di “L’avaro” di Molière al Teatro Carcano (foto di Marco Ghidelli)

Milano. Sabrina Scuccimarra e Arturo Cirillo in una scena di “L’avaro” di Molière al Teatro Carcano (foto di Marco Ghidelli)

(di Paolo A. Paganini) Suona sempre male la virtù in teatro. Il virtuoso sa di saccenteria, è antipatico come la prosopopea d’un moralista, si dà un sacco di arie o si dà toni di punitive autoflagellazioni per far vedere quant’è bravo, quant’è superiore alle sue stesse ricchezze morali. Vuoi mettere com’è ben più fornito di tocchi d’insostituibile teatralità il vizio? Il vizioso è l’unico grande personaggio della scena: interpreta il sangue, la carne, le pulsioni di tutti noi, poveri peccatori. Ladro, mentitore, ipocrita, traditore, puttaniere, falso. Nel suo bagaglio morale (immorale) c’è sempre qualcosa di noi.
Metti per esempio Molière, che di teatro (e di vizi) aveva capito tutto. Dalla cretina vanità di “Le preziose ridicole” alle scene di malata gelosia di “Il cornuto immaginario”, dal paradigmatico “trattato” sulla repressione morale di “La scuola dei mariti” alle tragicomiche inquietudini dell’altra scuola, quella “delle mogli”, dalle insopportabili adulazioni di “Tartufo” all’accidia del “Misantropo” e così via. Tutti strepitosi successi d’indimenticabili rappresentazioni. Tutti ci si son provati, con ciambelle più o meno riuscite, da Benassi a Moschin, da Servillo a Cecchi, da Tieri a Popolizio, da Romolo Valli a Bonacelli…
Ed ora Arturo Cirillo, che conclude una buona tournée a Milano, al Teatro Carcano, con un cupo “Avaro”, che – come tutte le descrizioni dei vizi – si presta così bene alla caricatura, alla forzatura dei toni, alla coloritura degli effetti comici. Personalmente, in passato, ricordo dell’Avaro solo una storica, superba e svettante interpretazione, fatta da Memo Benassi anni Cinquanta. Poi, da qui ad allora, ne abbiano viste anche di decenti, come quella (non memorabile) di Tognazzi nell’88; di Paolo Villaggio nel ’97, di Roger Planchon nel ’99 al Piccolo. Ora da sbellicarsi, ora cupe come si addice al più turpe dei vizi, il più asociale, amorale, quello che distrugge l’anima del tirchio, offusca la mente dell’usuraio, distoglie da ogni sentimento ed affetto, in tutti vedendo ladri e attentatori del proprio patrimonio, tutti da tenere alla larga, da guardare con perenne sospetto, con insanabile diffidenza. Ecco Arpagone.
Cirillo, che firma anche la regia, l’ha costruito in una scena da camera degli orrori, da sala delle torture. E la tortura c’è, quella che Arpagone infligge al figlio spendaccione, alla figlia succube ma infine disubbidiente a fronte di un matrimonio combinato con un ricco e vetusto amico del padre, che la raccaterebbe anche senza dote. Quando questo torvo personaggio passa di stanza in stanza, fa terra bruciata, un arido deserto. Conoscenti e famigli lo evitano come una mala pianta, contagiosa e purulenta, dal cuoco al cocchiere, dal cameriere a quant’altri abbiano l’impudenza di sfiorarlo, senz’altro per derubarlo! Cirillo, accentuando toni mimica voce ed espressioni, va talvolta fuori riga, ma risulta sempre di piacevole impatto nella sua draculesca interpretazione qua e là un po’ troppo invasiva. Ma quando per carattere e capacità s’incontra-scontra con interpreti che gli tengono testa, saltan fuori piccoli capolavori comici, come la scena adulatoria della sensale di matrimoni (Sabrina Scuccimarra, bravissima, e si merita il primo applauso a scena aperta) o come la scena affamatoria dell’allestimento del pranzo con ospiti che dovrebbero essere d’amore e di riguardo e che invece son visti come avidi sbaffatori dalle contenibili mascelle (e, che a suo dire, dovrebbero accontentarsi d’un sobrio brodino…)
Le quasi due ore di spettacolo senza intervallo sono state seguite con cordiale godimento. Alla fine, applausi per tutti, dai succitati Cirillo e Scuccimarra a Michelangelo Dalisi (il figlio Cleante), a Monica Piseddu (la figlia Elisa), a Rosario Giglio, Antonella Romano, Luciano Saltarelli, Giuseppina Cervizzi.
“L’avaro” di Molière, regia di Arturo Cirillo. Al Teatro Carcano, corso di Porta Romana 63, Milano. Repliche fino a domenica 13 aprile.

Le adorabile bizze dei giovani “innamorati” goldoniani, con una straordinaria Marina Rocco, da sberle!

Milano. Marina Rocco e Matteo De Blasio in una scena di “Gli innamorati” di Goldoni, al Teatro Franco Parenti (foto di Fabio Artese)

Milano. Marina Rocco e Matteo De Blasio in una scena di “Gli innamorati” di Goldoni, al Teatro Franco Parenti (foto di Fabio Artese)

(di Paolo A. Paganini) Bizze, dispetti, ripicche, smanie, permalosità, gelosie, cocciutaggini, orgoglio, rissosità… Se questo è amore! E invece sì. Goldoni, nel 1759, dopo molte distrazioni romane, ritornando a Venezia con sosta a Bologna, scrisse, in una quindicina di giorni, “Gli innamorati” (nei “Mémoires” dedica poche righe, ma enuncia anche il suo metodo di lavoro: auree riflessioni per chi vuol scrivere di teatro).
La commedia, in italiano, rispetta quel campionario di malagrazia bisbetica e tormentona che abbiamo appena enunciato. In una città di oziose e capricciose futilità, tra i pochi nobili e i molti “cittadini”, cioè tra nullafacenti con danée ed altri che s’industriano a farne, due giovani milanesi ventenni, Eugenia e Fulgenzio, la meglio gioventù meneghina, impiegano il loro tempo a tormentarsi, “per amore”. Uno perché antepone l’onore alla passione (il fratello, da lungo assente per lavoro, gli ha affidato la moglie perché ne avesse cura ed attenzioni, con ciò trascurando l’amante), l’altra perché, divorata dalla gelosia per l’odiata cognata dell’amato bene, antepone la passione a qualsiasi altro valore, senza rendersi conto – l’una e l’altro – dell’incoerenza e sproporzione delle loro parole e delle loro azioni.
Già, in passato, venne definita “una tragedia delle anime”, espressione d’un amore che “è una disperata impossibilità, un sogno vano di annullare due esseri per farne uno solo”. Commedia della gelosia e del puntiglio, è tutta giocata sul dialogo e precede la serie dei capolavori dialettali, ne è anzi una specie di esercizio propedeutico prima di arrivare al “massimo di raffinatezza espressiva”, come, che so, nella “Famiglia dell’antiquario”, nella “Bottega del caffè”, nella “Locandiera”.
Già, nel 1950, “Gli innamorati” fu una specie di banco di prova del giovanissimo Strehler, al Piccolo Teatro, allora atteso dai più, Dino Buzzati in testa, per vedere come se la sarebbe cavata, “senza capriole, saluti, girotondi e balletti”, senza cioè poter “sfogare il suo funambolismo”. Se la cavò, eccome. Così come adesso se l’è cavata Andrée Ruth Shammah nella Sala Grande del milanese Teatro Franco Parenti, con uno staff attoriale da encomio solenne.
Senza azione, tutta giocata sulla parola (in due tempi di un’ora e quindici e di 35 minuti: volati via d’un fiato), la commedia ha tre protagonisti assoluti: in successione di merito, Marina Rocco (Eugenia), Matteo De Blasio (Fulgenzio), Umberto Petranca (Fabrizio, zio e tutore di Eugenia), tutti attori di Filippo Timi in “sinergia” con la Shammah. La prima, trentaduenne attrice di cinema teatro e TV, è una simpaticissima amante viperina, scatenata in una performance ch’è un perfetto paradigma della gelosia, delle bizze e dell’arte di fare impazzire un uomo, che qui è un ormai fuori di zucca Fulgenzio, sempre al limite (oh, mio dio) di dare un solenne sganascione all’insopportabile amante. E, per fortuna, tra i due c’è Fabrizio, una delle più squisite macchiette dell’inventiva goldoniana, che stempera mitiga e diverte con i suoi assurdi esagerismi elogiatori.
Roberto Laureri, Elena Lietti, Alberto Mancioppi (personaggio “saggio” e squisito dicitore delle didascalie e di una sintesi della praefatio goldoniana), Silvia Giulia Mendola e Andrea Soffiantini (il simpatico servitore Succianespole) sono giusto corretto generoso contorno di un allestimento che piace, anche senza i vertici di ben più impegnate commedie di Goldoni, che qui ha trovato nella Shammah una garbata, onesta e tenera mess’in scena (costumi e scena di Gian Maurizio Fercioni: azzeccati, come sempre! Musiche di commento di Michele Tadini, appropriate e suggestive, senza sopraffare).
Tutti in scena in un gran finale di applausi. Mancava solo l’antica passerella di variettistica memoria!
“Gli innamorati” di Goldoni, regia di Andrée Ruth Shammah. Al Teatro Franco Parenti, Via Pier Lombardo 14, Milano. Repliche fino a domenica 6 aprile.

La giustizia divina sta quasi per colpire l’ipocrita affarista dei “Pilastri” di Ibsen. Ma alla fine fa cilecca

Milano. Gabriele Lavia e Giorgia Salari in una scena di “I pilastri della società” di Ibsen, in scena al Piccolo Teatro Strehler (foto di Tommaso Le Pera)

Milano. Gabriele Lavia e Giorgia Salari in una scena di “I pilastri della società” di Ibsen, in scena al Piccolo Teatro Strehler (foto di Tommaso Le Pera)

(di Paolo A. Paganini) Le apparenze e la menzogna sono le fondamenta della civiltà e del progresso? Oppure bisogna innalzare monumenti e stendardi alla verità e alla libertà? Inutile girarci intorno. Da Caino e Abele fino a Machiavelli, dal misticismo dell’amore francescano fino al cinismo delle ragioni di stato, la nostra catechesiale formazione ci ha insegnato che non si transige sui doveri e sui valori morali. Bisogna sempre perseguire la retta strada della giustizia e della verità. Eppure, è l’eterno scontro tra teoria e pratica, tra bene e male, tra sentimento e ragione. Senza questa dicotomia non esisterebbero né idealismo né sentimento poetico o religioso. Non esisterebbe neanche tanto teatro. Shakespeare? Mah. Pirandello? Una questione di gioco delle parti. D’Annunzio? Forse che sì forse che no. Si salverebbero probabilmente solo il teatro comico, che non prende mai niente sul serio, e il teatro dell’assurdo, che continua ad aspettare Godot.
Senz’altro non esisterebbe Ibsen, con i suoi fervori moralistici, con i suoi slanci poetici, con la sua vindice passione provocatrice verso il cupo perbenismo norvegese, e sempre così in sospeso tra Lutero e Kierkegaard, tra simbolismo e Nietzsche, fra consolatoria speranza d’un mondo migliore e tormentata consapevolezza della tragedia del vivere umano. Anche perché, in fondo, Ibsen aveva un alto senso sociale e religioso. Non dimentichiamo che c’è un abisso fra i quasi contemporanei Ibsen e Strindberg. Ibsen, oggi diremmo, è un buonista. Gli piange il cuore far finire un dramma in tragedia. I colpi di pistola, appena può, preferisce farli sentire piuttosto che farli vedere. E magari concludere il dramma nell’eterno bacio d’amore.
Anche questo immenso e indimenticabile dramma, “I pilastri della società” (1877), con protagonista e regista Gabriele Lavia, quasi quattro ore con un intervallo, in scena al Teatro Strehler di Milano, dove conclude la propria trionfale stagione, non smentisce il carattere caritatevole. Il dramma avrebbe potuto concludersi con il giusto finale d’un dio vendicativo e giustizialista. Shakespeare l’avrebbe fatto. L’armatore Bernick, cinico e spregiudicato affarista, moralista perbenista, considerato universalmente un esemplare campione di virtù civili e cittadino d’integerrima moralità, amato rispettato invidiato, in realtà aveva costruito la propria fortuna sulla menzogna e sul sacrificio d’un amico che, innocente, si era addossato la responsabilità di una tragica vicenda di sesso e di soldi… L’amico però ora torna dall’America, dov’era – diceva la buona società – fuggito per sottrarsi alla vergogna e alla giustizia, e l’improvvido arrivo getta nel panico Bernick sul più bello d’una mastodontica transazione commerciale (anche questa abbastanza truffaldina). Per farla breve, l’imbarazzante amico, schifato dal marciume norvegese e dall’infame vigliaccheria di Bernick, decide di ripartire a bordo di una carcassa di nave, marcia e dallo scafo sfondato, che sta per salpare verso l’America dai cantieri del cinico armatore, che la condanna al naufragio. Bernick, ora, è quello che vuole: la scomparsa dell’amico gli sgraverà la coscienza da ogni imbarazzo di tragiche rivelazioni. Ma non sa che anche l’adorato figlio, fuggito di casa, s’è nascosto nella stiva della nave maledetta. Infine, quando è troppo tardi per fermare in porto la nave, scoprirà la terribile fatalità. Disperazione del padre. Giusta punizione per le sue malefatte, colpito al cuore nel suo affetto più caro. Ma invece tutto è bene quel che finisce bene. La nave non parte. Le vite sono salve. I cittadini in festa. E Bernick, finalmente pentito, confessa in pubblico le sue terribili menzogne e malefatte.
Facile intuire che il popolo perdonerà, in nome di uno spudorato successo, che porterà ricchezza a tutti. E che lascia insoluto il terribile quesito posto da Ibsen: è giusta la menzogna quando è a fin di bene? Son doverose le apparenze quando i propri interessi coincidono con quelli pubblici? Perbacco, dopo quasi un secolo e mezzo siamo ancora qui a chiedercelo.
Gli interpreti sono formidabili. Un po’ eccessiva la Lona americana di Federica Di Martino, ma di una potenza espressiva eccezionale. Ma tutti – una ventina di interpreti, sulla geniale e suggestiva scena di Alessandro Camera, costumi ottocenteschi di Andrea Viotti – applauditissimi: da Graziano Piazza ad Andrea Macaluso, da Michele De Maria a Giorgia Salari. Semplicemente perfetti.
E, per ultimo, per una giusta sottolineatura, un ineguagliabile Gabriele Lavia, nella parte di un armatore Bernick dalle molte anime, equivoco eppure trasparente, spregiudicato eppure ingenuo, riflessivo eppure d’incontenibile iracondia, ipocrita fino alla spudoratezza eppure fanciullescamente entusiasta della vita, abile manipolatore di uomini eppure fanaticamente convinto di essere uno dei “pilastri della società”. Eh sì, nella Storia sono tanti gli uomini importanti convinti di essere unti dal signore…
“I pilastri della società” di Henrik Ibsen. Con Gabriele Lavia, anche regia. Al Piccolo Teatro Strehler, Largo Greppi, Milano – Repliche fino a domenica 6 aprile.

Il godereccio Plauto dei “Menecmi”: come parlare alla pancia (e giù di lì) senza tanti problemi

Milano. Tato Russo protagonista di “Menecmi” al Carcano

Milano. Tato Russo protagonista di “Menecmi” al Carcano

(di Paolo A. Paganini) C’è poco da essere schizzinosi. È Plauto, bellezza. A volte non ci si rende conto che il teatro, e lo spettacolo in genere, ha due linguaggi, ben diversi uno dall’altro: uno parla alla pancia degli spettatori, l’altro alla testa. Uno si propone di solleticare nel popolino l’istintualità più becera, irrispettosa, volgare e malandrina. L’altro si rivolge ai più raffinati cultori dello spirito, dell’intelligenza, della buona creanza, della cultura. Uno ama la risata grassa, godereccia e sguaiata, coinvolgendo pancia e sotto pancia, l’altro predilige semmai il sorriso di testa, apprezza le sfumature psicologiche e la profondità dei caratteri. Insomma, duemila e duecento anni fa, o giù di lì, da una parte c’era il geniale e cialtronesco Plauto, dall’altra c’era il raffinato e riflessivo Terenzio. Indovinate chi era il beniamino del popolo.
Tenendo presente questa premessa, e cercando di non fare confusione con i due generi di cui sopra, abbiamo assistito nel milanese Teatro Carcano ai “Menecmi” di Plauto (e ribadiamo per l’ultima volta che un conto, anche cinquant’anni fa, era andare a vedere chiassosi varietà di provincia, con comici dal doppio senso facile e donnine più affamate che famose, un altro conto era andare a vedere Pirandello o Goldoni). In scena, Tato Russo nel doppio ruolo dei gemelli del titolo, in una sua personale commistione con “La commedia degli equivoci” di Shakespeare, intrusione legittimata dal fatto che lo stesso drammaturgo inglese aveva fatto man bassa dei Menecmi plautini.
In questo tutt’uno di caratteri e riferimenti, si snoda la scontata e furbesca vicenda del Gemello n. 1, ben accasato e puttaniere, e del Gemello n. 2, semplicione e ingenuotto, che, rapito in giovane età, capita con il proprio servo proprio nella città (qui, una Napoli pompeiana) dove vive il fratello, entrambi all’insaputa uno dell’altro. L’integerrima moglie e l’amante sgualdrina del n. 1 diventano ovviamente il pretesto degli inevitabili qui-pro-quo, tra lazzi e battutacce, che rimbalzano dall’una all’altra donna, in abbondanza di copule e di crapule, a beneficio soprattuto del n. 2. Con l’incontro finale dei gemelli, che dopo due ore di spettacolo (con un intervallo), finalmente si riconoscono, chiarendo equivoci e malintesi, si conclude lo scontato tormentone di risate in libertà, spedendo a casa, felici e contenti, tanti giovani e meno giovani, come allora, nell’antica Roma, se ne saranno tornati, felici e contenti, plebe e quiriti.
Tato Russo, protagonista dei due gemelli, ne dà fregolistiche prove di piacevole humour partenopeo, in ciò coadiuvato (ah, l’antica tradizione comica della “spalla”) dai servi, dell’uno e dell’altro, Massimo Sorrentino e Rino Di Martino. La cortigiana Erozia è generosamente interpretata da Clelia Rondinella, e al loro posto anche tutti gli altri. Il coro di prostitute, ancelle e femminielli, compresa una scena di nudi femminili (le donnine del nostrano varietà non arrivavano a tanto, ma a Roma, ai tempi di Plauto, forse sì). La regia di Livio Galassi ci guazza senza tanti problemi con gaudiosa voluttà, mischiando disinvoltamente le carte di Plauto e di Shakespeare.
“Menecmi”, con Tato Russo. Al Teatro Carcano, Corso di Porta romana 63, Milano. Repliche fino a domenica 30 marzo.

Poi, sarà a Napoli, Teatro Augusteo, dal 4 al 13 aprile