I “Sei personaggi”, trasposizione del Collettivo Macao: quasi un Pirandello da teatro politico

Milano. Alcuni attori del collettivo Macao durante leprove di “Sei personaggi in cerca d’autore”, da Pirandello (foto Fabrizio Garghetti).

Milano. Alcuni attori del collettivo Macao durante le prove di “Sei personaggi in cerca d’autore”, da Pirandello (foto Fabrizio Garghetti).

(di Paolo A. Paganini) 1921: dopo i “Sei personaggi in cerca d’autore”, di Pirandello, il teatro occidentale, con i suoi borghesi triangoli sentimentali, trasudanti gelosie, duelli, corna e melensi melodrammi, non fu più lo stesso. Fu la più incredibile rivoluzione, con la quale il teatro uscì definitivamente dall’Ottocento. Rivoluzione per rivoluzione, ora, all’Out Off, i “lavoratori dell’arte” del collettivo “Macao”, inseguiti dalle cronache nella loro tenace battaglia per il diritto a una dignitosa creatività, tra occupazioni sgomberi e polemiche, propongono una loro rivoluzionaria versione dei “Sei personaggi in cerca d’autore”. Scena spoglia, niente atti, azione anche al di fuori del palcoscenico, in odio alla veristiche messe in scena del teatro borghese, così volle Pirandello, che soprattutto si raccomandò di considerare il suo capolavoro come “commedia da fare” (il pubblico d’allora ne fu sconvolto), sono, ovviamente, anche adesso rispettate, con l’aggiunta – peraltro coerente – d’un linguaggio libero ma non stravolto.
La storia è ormai arcinota: sei personaggi, il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, il Giovinetto, la Bambina, si presentano in un teatro dove una compagnia di attori sta provando la commedia di Pirandello “Il gioco delle parti”. I sei raccontano di essere stati inventati da un autore che poi li ha abbandonati senza che lui risolvesse la loro storia nelle forme dell’arte. Ma ora sono creature vive, autonome (come ormai anche gli attori del collettivo Macao: singolare analogia, tant’è che questa loro messinscena potrebbe anche definirsi, senza offesa per Pirandello, “teatro politico”).
I sei dunque pretendono di mettere in scena la loro personale pièce, tratta dalle vicende della loro vita, anzi, lì, ora su quel palcoscenico, vita reale, vita autonoma, vita sconvolta da tragici avvenimenti, tra equivoci, baratri d’incesto, mortali conclusioni. No, non finzione, ma sangue e carni vive e pulsanti, né potrebbero affidare per finta teatrale la loro storia a degli attori…
E gli attori del collettivo ne rispettano la storia e non si discostano troppo dal canovaccio originale, pur con qualche trasfigurazione scenica che non ci è dispiaciuta. E sono gli stessi attori, che stan provando “Il gioco delle parti”, che come un giuoco, o uno scherzo, o una schizofrenica trasposizione d’identità, finzione della finzione, entrano nei panni dei Sei personaggi, portando avanti la loro tragedia esistenziale con punte di assoluta intensità drammaturgica. Vedasi, per esempio, la scena del mancato incesto nella casa di appuntamenti di Madama Pace: una particolare segnalazione della Figliastra interpretata da Valentina Cardinali, al centro di una tesa e coinvolgente scena con Marco Bellocchio, il Padre, personaggio-fulcro di convincente e generosa presenza scenica.
Ma diremo bene anche degli altri giovani interpreti, in questo allestimento ben orchestrato da Sandro Mabellini, i quali, pur con qualche forzatura espressionista, in poco più di un’ora danno una bella prova di maturità scenica. Ancora segnaleremo Francesca Golia (esuberante, presuntuosa e ottusa Regista della compagnia in prova) e Cecilia Elda Campani (la Madre, più orgogliosamente fiera che vittima), e poi Sebastiano Bottari e Diego Giannettoni. Calorosi applausi alla fine per tutti, con numerose chiamate in scena.
“Sei personaggi in cerca d’autore”, da Pirandello, prima nazionale del Collettivo Macao, al Teatro Out Off, Via Mac Mahon 16, Milano. Repliche fino a domenica 23 febbraio.

“Quartett” di Müller al Piccolo Teatro. E al centro dell’universo c’è solo la celebrazione del sesso

Milano. Laura Marinoni e Valter Malosti, licenziosi libertini in “Quartett”, di Heiner Müller, al Piccolo Teatro Grassi (foto Fabio Lovino)

Milano. Laura Marinoni e Valter Malosti, licenziosi libertini in “Quartett”, di Heiner Müller, al Piccolo Teatro Grassi (foto Fabio Lovino)

(di Paolo A. Paganini) È l’anno dei nudi a teatro. Risparmiamocene l’elenco. Dicono che sia il carattere distintivo di questa stagione. L’esaltazione del corpo. Meglio se nudo, dicono. Eppure, è la via più sicura per andare a sbattere contro una inutile volgarità. Il nudo richiama il sesso. Ahi, che argomento scabroso se non si hanno finezze, ironia, poesia. Diventa solo il pretestuoso mezzo di una sterile mediocrità senza idee, solo con lo scopo di rizzare il contropelo dell’istinto per épater les bourgeois. Pensavamo, per contrappasso, a tutto ciò delibandoci il piacere di vedere “Quartett”, di Heine Müller (1929-1995), un atto unico (1982) di poco più di un’ora, al Piccolo Teatro Grassi, con Laura Marinoni e Valter Malosti (anche regista). Personalmente ritengo che quando ci sono i caratteri di cui sopra – finezze ironia poesia – si possa dire qualsiasi cosa, si possa affrontare qualsiasi scabroso o pruriginoso o amorale argomento.
Questi ingredienti, in positivo (finezze ecc) e in negativo (scabroso ecc) “Quartett” li possiede in un’orgia di sbalorditivi stimoli intellettuali. L’elegante pubblicazione a cura del Teatro Stabile di Torino, che ha prodotto lo spettacolo, ce ne fa memoria, dove Agnese Grieco, che ha curato traduzione e drammatugia, fa giustamente notare che Müller, come sempre, ama contaminare i suoi testi. “Il montaggio, il collage, è una sua tecnica”. E qui la contaminazione stordisce, avvince, destabilizza in un vortice di geniali richiami, dal fascino immaginifico dell’opera verdiana all’avanspettacolo, da Shakespeare a Brecht.
Questo “Quartett”, dunque, la cui ispirazione, come si sa, è il licenzioso romanzo epistolare settecentesco di Choderlos de Laclos, “Le relazioni pericolose”, è dominato da due temi fondamentali, il tempo e la morte, che vengono in un certo senso esorcizzati dal più vitalistico tema che ne percorre e ne invade fibre e sangue: il sesso, non l’amore, il sesso crudo, impudico, così sfacciatamente prossimo al suo disfacimento fisiologico, al decadimento dei corpi, al degenerare dei tessuti, al cedimento delle carni, quando invano cercano appunto di contrastare il tempo e la morte.
Il testo di Müller, che riprende e ricalca Laclos, il quale, come fa giustamente notare Guido Davico Bonino “ha qualcosa di una sofisticata partita a scacchi”, è interpretato da due soli “giocatori”, che affrontano quattro ruoli, entrando e uscendo dalle spoglie delle vittime delle loro seduzioni. I due protagonisti sono dunque i vecchi amanti, esperti in tanti giochi di sesso e seduzione, il Visconte di Valmont e la Marchesa Merteuil, i quali, in un sadico gioco di rimandi, si scambiano l’un l’altra le identità di genere, oppure entrano nei ruoli della virginale nipote della Marchesa, Volanges, destinata a giuste nozze, che Valmont, istigato da Merteuil, seduce e deflora, oppure l’austera Madame de Tourvel, altra vittima sacrificale dei due cinici stupratori morali. I quali, nella realtà drammaturgica di Müller, pur negatori di anime e divinità, sono i cantori di una felicità tutta corporea, dove il sesso è il solo strumento di una idealizzata felicità, come nell’ingenuità d’un gioco fanciullesco, nel gonfiore d’una eterna pubertà. Fin che dura. Poi c’è la fine. E così sia.
Laura Marinoni e Valter Malosti sono semplicemente superbi, in questo finissimo e inquietante testo di Müller, nell’abbattere, da quel Settecento libertino a quest’oggi mercificato, i muri del bigottismo, dell’ipocrisia sentimentale, della superstizione religiosa, della presuntuosa vanità delle anime belle. Ovazioni finali.
“Quartett”, di Heiner Müller, con Laura Marinoni e Valter Malosti. Al Piccolo Teatro Grassi, Via Rovello 2, Milano. Repliche fino a domenica 16 febbraio.
Tournée
18 febbraio – 2 marzo – Roma, Piccolo Eliseo;
5 – 6 marzo – Ginevra, Théâtre du Galpon;
10 – 11 marzo – Lugano, Teatro della Cittadella;
13 – 16 marzo – Prato, Teatro Metastasio;
18 – 19 marzo – Correggio, Teatro Asioli;
20 – 21 marzo – Modena, Teatro Storchi;
24 – 25 marzo – Monaco di Baviera, Residenztheater (Marstall);
27 marzo – Cremona, Teatro Ponchielli;
28 marzo – Lecco, Teatro della Società.

La “Celestina” di Luca Ronconi al Piccolo Teatro tra erotismo e pornografia

Milano. Lucrezia Guidone in una scena di “Celestina”, regia di Luca Ronconi, al Piccolo Teatro Strehler (foto Luigi Laselva)

Milano. Lucrezia Guidone in una scena di “Celestina”, regia di Luca Ronconi, al Piccolo Teatro Strehler (foto Luigi Laselva)

(di Paolo A. Paganini) C’era una volta, sul finire del Cinquecento, “La commedia di Calisto e Melibea”. Autore? Mistero. Un po’ come per Shakespeare. Di edizione in edizione, circa cinque (dal 1499), la commedia passò dai sedici atti iniziali a ventuno. Con la quinta edizione, dal titolo “Tragicomedia de Calixto y Melibea y de la puta vieja Celestina”, venne definitivamente chiamata semplicemente “Celestina”, personaggio motore di tutta la mastodontica opera. E con questa, finalmente, si conobbe l’autore, “El Bachiller” Fernando de Rojas. Se di lì a quasi un secolo dopo non fosse arrivato Cervantes, De Rojas sarebbe ricordato oggi in assoluto come il più grande e celebre autore spagnolo. Rimane tuttavia come iniziatore del teatro moderno, colui che influenzò tutta la letteratura iberica, compreso Cervantes, compreso Lope de Vega.
Celestina, mezzana, tenutaria di bordello, mammona, vecchia perversa, lucidamente perfida, genio del male, ruffiana, temerariamente impudica in quel periodo di rigida moralità, è al centro di una trama semplicissima, fatta di intrighi, di filtri magici, di passioni, e quindi fatalmente destinata a finire tragicamente in lutti e sangue. Calisto, dunque, impazzisce d’amore per la bellissima Melibea, che lo respinge. Sempronio, servo di Calisto, lo consiglia di rivolgersi a Celestina, la vecchia malafemmina, intrigante e capace di ogni sortilegio d’amore. E Celestina, con ingegnosi pretesti, riesce a convincere la recalcitrante e bellissima fanciulla, vergine e pudica, a darsi al giovane, in un gorgo di travolgente e irrefrenabile passione. Ma una notte, Calisto, lasciando la ragazza, mette malamente un piede sulla scala che lo portava di nascosto all’amato bene, cade e muore. Melibea, disperata, si getterà dall’alto di una terrazza. Nel frattempo, in rapida successione, i due servi di Calisto, per non aver avuto giusto compenso da Celestina, la uccidono; e, a loro volta, vengono giustiziati.
Tutto questo emerge in pagine di plebei e bassi capitoli di altissima letteratura, con finezze psicologiche e sottigliezze stilistiche, pur nella licenziosità dell’opera, che penetrano con abilità sconcertante negli abissi dell’anima umana. “La Celestina” è stata tradotta in tutte le lingue europee, ed ha avuto svariate trascrizioni e riduzioni. L’ultima (1991), di Michel Garneau, con il titolo “Celestina, laggiù vicino alle concerie in riva al fiume”, in scena al Piccolo Teatro Strehler, tre ore e mezzo con un intervallo, è ora firmata da Luca Ronconi. E farà molto parlare.
In bilico fra erotismo (carica di sensualità nell’attrazione sessuale) e pornografia (raffigurazione di soggetti erotici che offendono il pudore), l’azione drammaturgica, lenta e tuttavia solenne, nella tipica estetica ronconiana di estenuare recitazione e plastiche gestualità, analitici passaggi psicologici e dinamici scatenamenti d’irrefrenabile sensualità, è posta su tre precise e scandite accentuazioni narrative e figurative: 1) l’infoiamento dell’erotomane Calisto, che nella sua foga masturbatoria si farebbe il mondo intero; 2) il fin troppo brusco passaggio alla scoperta del sesso da parte della timorata fanciulla Melibea; 3) la sovrastante presenza di Celestina, che tutto avvolge e condiziona con la sua mefitica esaltazione del sesso, centro motore di ogni piacere, di ogni desiderio, dove non c’è posto per sentimento e spiritualità, ma tutto è vizio e corruzione. Di questo passo, non ci si meraviglierà delle varie orge onanistiche, di umide deflorazioni di vergini, di nudità femminili e maschili in copule, di iterate frequentazioni in postriboli e anfratti compiacenti.
E, a proposito di anfratti, la scena è un vero campionario di botole e porte semoventi, sempre così amate da Ronconi.
Dei quattrodici interpreti, almeno nomineremo – e come astenersi? – Maria Paiato, ch’è una Celestina tragicamente perversa e tuttavia capace d’un alone di ingenua animalità con quella sua spicciola santificazione plebea di soldi e sesso. Paolo Pierobon sarà ricordato come una delle massime espressioni di erotomania scenica. Lucrezia Guidone, nel ruolo di Melibea, nuda, innocente vittima sacrificale per troppo amore e per null’altro, è stata tenera e convincente. Bene anche il servo Sempronio, interpretato da un eccellente Fausto Russo Alesi. Apprezzabili tutti gli altri. Applausi cordiali alla fine per tutti, regista e collaboratori compresi.

“Celestina, laggiù vicino alle concerie in riva al fiume”, di Michel Garneau, da Fernando de Rojas, regia di Luca Ronconi. Al Piccolo Teatro Strehler, Largo Greppi, Milano. Repliche fino a sabato 1 marzo.

Pirandello, giustiziere dei peccati dell’inconscio commessi “non si sa come”

Milano. Pia Lanciotti e Elena Ghiaurov in una scena di “Non si sa come” di Pirandello al Piccolo Teatro Grassi (foto Norberth)

Milano. Pia Lanciotti e Elena Ghiaurov in una scena di “Non si sa come” di Pirandello al Piccolo Teatro Grassi (foto Norberth)

(di Paolo A. Paganini) Non c’è storia, non c’è azione. C’è un finale appiccicaticcio, che risolve il dramma nella più consunta delle soluzioni del teatro borghese, un colpo di pistola d’un marito tradito contro l’amico fraterno. Eppure, questo “Non si sa come” di Pirandello (ultimo dramma compiuto del girgentese, nel ’34, prima dell’incompiuto “I giganti della montagna”), vive solo come teatro di parola, e affascina. Oltre il climax della parola, non c’è nessun’altra incursione (che non sia registica). Infiniti monologhi, logorroici travasamenti psichici su come e perché, attanagliano, in un continuo trapanamento delle coscienze, un quintetto di amici della buona società nobil/borghese, che non hanno altro a cui pensare (non avevano certo problemi di disoccupazione, di IMU, di deflazione, termini allora sconosciuti. Il fascismo guardava alle glorie dell’impero e il futuro appariva come un radioso sole che sorge. Anche per Pirandello).
Ebbene, una serena villa di campagna viene travolta da un cascata di parole, di confessioni, di sospetti e gelosie (in tre atti, quasi due ore con un intervallo più un buio per cambio di scena). E continua ad avvincere, a tenere gli spettatori agganciati agli arzigogolamenti mentali del protagonista Romeo Daddi (Sandro Lombardi).
Egli, avendo ucciso, non si sa come, un coetaneo trent’anni prima, e avendo ora tradito, non si sa come, il suo migliore amico, facendosi la di lui consorte in un meriggio di afa, di cicale impazzite, di corpi senza coscienza, questo secondo “delitto” scatena in lui, non si sa come, feroci rigurgiti di penitenziali aspirazioni al martirio per punire le debolezze della carne, che ha ceduto, non si sa come, senza che lui lo volesse. Una stordita e fugace passata di sesso, senza amore, senza desiderio. Un colpo e via andare. E non dovrebbe rimanere nella coscienza se non un’ombra senza ricordi. Senza conseguenze. La temporanea amante Ginevra (Elena Ghiaurov) ritornerebbe così all’amore del marito (Francesco Colella). E Romeo a sua moglie, la fedele Bice (Pia Lanciotti).
Ma se l’uomo è capace di ogni misfatto, senza volerlo, un delitto innocente, insomma, allora tutti sono colpevoli, perché non c’è uomo che non abbia commesso un suo inconsapevole delitto, non si sa come, un delitto perpetrato per debolezza della carne, non dello spirito, magari perfino in sogno, in un sogno di libidini inconfessabili. O in sogno o di fatto, nulla cambia. Se è così, questa cappa di colpevolezza deve calare per forza su tutti: su di sé, sulla moglie fedele, sull’amico fraterno e sua moglie (che ci ha già messo una pietra sopra), sull’innocente amico Nicola Respi (Marco Brinzi), che non c’entra per niente, o quasi, e si prende ogni tipo di colpa, soprattutto come presunto artefice della “pazzia” di Romeo, che ora, in un delirio di purificazione, vuol rivelare a tutti, come appunto farà, il proprio non voluto secondo delitto della carne. Amen.
Con la regia di Federico Tiezzi, al Piccolo Teatro Grassi, il dramma ha avuto un generale consenso di applausi, nonostante qualche squilibrio formale. Avremmo preferito che l’algida atmosfera metafisica rispettasse ancor più una recitazione più interiorizzata, meno passionale, meno espressionisticamente esasperata. Il Romeo Daddi di Sandro Lombardi, con baffi alla Salvador Dalì, figura subito con eccessivi caratteri di patologica esaltazione. È, sì, fuori di sè, come dev’essere, ma è pur sempre uno sciagurato trafitto dai tormenti di un’autocoscienza critica (rimorso?) sulla via dell’espiazione. Ma è piaciuto così. Come sono piaciuti tutti gli interpreti, anche se, a mio giudizio, m’è parsa in parte soprattutto Pia Lanciotti. Ma che forza la Ghiaurov. Un plauso per le voci bene impostate e comprensibili. Finalmente.

“Non si sa come”, di Pirandello. Regia Federico Tiezzi. Al Piccolo Teatro Grassi, Via Rovello, Milano. Repliche fino a domenica 2 febbraio.

Tournée
CUNEO, Teatro Toselli, 4 febbraio; RHO (Milano), Auditorium Comunale, 6 febbraio; LIMBIATE (Milano), Teatro Comunale, 7 febbraio; SAN CASCIANO V.di P. (Firenze), Teatro Niccolini, 11 febbraio; VIAREGGIO, Teatro Politeama, 12 febbraio; EMPOLI (Firenze), Teatro Excelsior, 13 febbraio; LUCCA, Teatro del Giglio, 14/16 febbraio; CORTONA (Arezzo), Teatro Signorelli, 19 febbraio; RECANATI (Macerata), Teatro Persiani 21 febbraio; ASCOLI PICENO, Teatro Ventidio Basso, 22-23 febbraio; FIRENZE, Teatro della Pergola, 4/9 marzo; SCANDIANO (Reggio Emilia), Cinema Teatro Boiardo, 11 marzo; VIGNOLA (Modena), Teatro Fabbri 12-13 marzo; PISTOIA, Teatro Manzoni, 14/16 marzo