Entusiasmante Mozart alla Fenice con una neoclassica “Clemenza” tra il serio e l’ironico

Venezia. Una scena d’impronta neoclassica alla Fenice con “La clemenza di Tito” (foto Michele Crosera)

Venezia. Una scena d’impronta neoclassica alla Fenice con “La clemenza di Tito” (foto Michele Crosera)

(di Carla Maria Casanova) Lo spettacolo – un allestimento del teatro Real di Madrid e già comparso a Bruxelles, Salisburgo, Londra, Parigi – era oramai noto anche in Italia, o per lo meno agli aficionados che non si lasciano sfuggire niente, in qualsiasi parte del mondo tali eventi compaiano. E questa mozartiana “Clemenza di Tito” era certamente titolo di alto richiamo. È ora approdato a Venezia, alla Fenice (fino all’1 febbraio) con l’esito entusiastico che si merita. È lavoro registico della premiata coppia Ursel e Karl-Ernst Herrmann, mentre scene, costumi e luci sono firmati dal solo Karl. Il versante musicale è assicurato da Ottavio Dantone, a capo dell’orchestra e coro del Teatro La Fenice. Gli interpreti principali sono Carlo Allemano, Carmela Remigio, Julie Mathevet, Monica Bacelli.
È vicenda seria, molto seria, però lascia campo anche a una possibile lettura un po’ ironica, da commedia dell’arte, e sono questi gli spunti che il regista coglie per alleggerire l’impegno e dare a vedere che dei delitti, spasimi, trame non si cura poi molto, e che così esagerata clemenza dell’imperatore alla fine risulta un po’ fasulla. Per giocare sull’ambiguità dei sentimenti c’erano i recitativi secchi, unico punto debole dell’opera. Per scarsità di tempo, Mozart diede tale incombenza a un allievo. I recitativi sono innumerevoli e tediosi. È questo lo spiraglio in cui interviene il gioco avveduto dell’intonazione delle frasi, dando loro un nuovo senso di indubbio interesse. Anche scene e costumi (e regia, beninteso) collaborano a sdrammatizzare la situazione: il palcoscenico è un vasto spazio limpido e pulito, con alcuni elementi neoclassici (la colonna, il sacello, la fuga prospettica con la statua alata che si accende di fiamme nell’incendio del Campidoglio). I costumi delle dame sono colorate ricchissime sfruscianti vesti di seta e taffetà.
Filo conduttore dell’opera dovrebbe essere (è) l’amore, ahimè oltremodo tradito (nell’amicizia, nel cuore, nel sesso). Ma l’imperatore, dopo essere sfuggito a un orribile attentato, perdonerà tutti. Persino la nera “mente” di ogni complotto, Vitellia, interpretata e cantata in modo magistrale da Carmela Remigio. Superba anche Monica Bacelli nell’ingrato ruolo en travesti di Sesto. Il clemente Tito, autorevole di presenza e di voce, è Carlo Allemano. Per il Maestro Dantone, Mozart è un invito a nozze. E qui a nozze bene o male si arriva, anche se non è chiaro, alla fine, chi sposa chi.

Arriva l’Ispettore, che ridere. Quintessenza di disinvolta allegria del regista Damiano Michieletto

Padova. Un’immagine dell’“Ispettore generale” di Gogol, con la regia di Damiano Michieletto. Nella scena: il signor ispettore (Stefano Scandaletti) si dà molto da fare per sedurre la poco integerrima moglie del sindaco (Silvia Paoli). Foto di Serena Pea.

Padova. Un’immagine dell’“Ispettore generale” di Gogol, con la regia di Damiano Michieletto. Nella scena: il signor ispettore (Stefano Scandaletti) si dà molto da fare per sedurre la poco integerrima moglie del sindaco (Silvia Paoli). Foto di Serena Pea.


(di Paolo A. Paganini) Si entra in platea a scena aperta, occupata da un bar a tutto palcoscenico. Un ambiente tra il saloon e un italico bar di nostrane periferie. Una tivù aldisopra del bancone parla russo, e la parola BAR è scritta in cirillico. Siamo infatti in una commedia di Gogol. Alla spicciolata entrano i clienti di una singolare cittadina lontana dalla capitale. Quando ci son tutti, lo spettacolo comincia. E così prende il via “L’ispettore generale” (quasi tre ore con un intervallo), visto al Teatro Verdi di Padova, con un manipolo di scatenati attori pronti a tutto, in una divertentissima cagnara tra l’opera rock, la disco music, la farsa, la commedia dell’arte, il vaudeville, che il “sovversivo guastatore” Damiano Michieletto non s’è fatto scrupolo di miscelare in un cocktail ad alta gradazione alcolica. Qualche purista storcerà la bocca. Personalmente non mi divertivo così da tempo immemore.
La commedia, nata alle scene in cinque atti nel 1863, come feroce satira contro la dilagante corruzione dell’amministrazione russa, allora scatenò proteste critiche polemiche condanne morali da parte dei burocrati di Stato. “Farsa vergognosa” venne definita. Soprattutto perché molti di quei funzionari avevano la coda di paglia e si riconobbero nella feroce satira di Gogol, il quale portava allo scoperto tanti peccatucci nascosti sotto i tappeti. Tutto questo oggi non ha più senso. O vogliamo fare un traslato su ben altre forme contemporanee di corruzione? No.
Ma, seppure svuotato dai suoi veleni e declassato il carattere sociale dell’opera di Gogol, rimangono gli indiscussi pregi artistici, con una struttura di ruvida ma ineccepibile qualità sul piano comico drammaturgico.
La storia è di per sé semplicissima. In una cittadina russa dominata da funzionari corrotti, mercanti imbroglioni, commissari di polizia svogliati e ubriaconi, giudici intrallazzati, corre voce che sta per arrivare in incognito un ispettore governativo per controllare il funzionamento dell’amministrazione locale. Panico generale. Di lì a poco si scopre la misteriosa presenza di uno sconisciuto viaggiatore nel lercio alberghetto della cittadina. A farla breve tutti sono convinti che si tratti dell’Ispettore in incognito e s’affannano a conoscerlo, a circuirlo, a ubriacarlo, a corromperlo, a fargli arrivare soldi e piaceri da tutte le parti. E il nostro sconosciuto giovanotto, che non è di qualità morali migliori di loro, ci sta, eccome. Ed anzi ne approfitta con gagliarda impudicizia, tentando fra l’altro di farsi la moglie del sindaco e, in subordine, la giovane figlia. Quando alla fine se ne andrà, si scoprirà la terribile cantonata… Il vero Ispettore sta per arrivare…
Si diceva del regista Michieletto. Tra gag di varietà, bellocce di pochi scrupoli in bella mostra, situazioni comiche con il gusto carnascialesco dell’esagerazione, con lo smodato piacere del tanto, del troppo, dell’inverosimile, con disinvolta coerenza ci dà dentro con un’allegria senza scrupoli, Gogol o non Gogol che sia… Tutto fa brodo, ch’è saporitissimo. E i personaggi, tra il bamba e lo spregiudicato, sono interpretati con assoluta e generosa complicità. Almeno li nomineremo: Alessandro Albertin (il Sindaco), Silvia Paoli ed Eleonora Palizzo (sua moglie e figlia), Stefano Scandaletti (il falso Ispettore), e via via Matteini, Fasoli, Maccagno, Riccio, Altavilla, Fortunati, Pilla. Tutti applauditissimi alla fine.

Tournée
“L’Ispettore generale” di Nikolaj Gogol, regia di Damiano Michieletto, dopo il debutto al Teatro Verdi di Padova (21-26 gennaio), sarà nelle seguenti piazze:
Venezia, Teatro Goldoni, dal 29 gennaio al 2 febbraio;
Thiene, Teatro Comunale, dal 4 al 6 febbraio;
Treviso. Teatro Comunale Mario Del Monaco, dal 7 al 9 febbraio;
San Stino di Livenza, Cinema Teatro Pascutto, 11 febbraio;
Chioggia, Piccolo Teatro Città di Chioggia, il 13 febbraio;
Milano Teatro Grassi, dal 18 febbraio al 2 marzo;
Torino, Teatro Limone Fonderie, dal 4 al 9 marzo;
Trieste, Politeama Rossetti, dal 12 al 16 marzo.

A proposito di Enrico IV, il punto di Andrea Bisicchia sull’ossessione del nuovo a teatro.

Milano. Una scena di “Enrico IV” in scena al Teatro Litta con la regia di Alberto Oliva (foto Congiu)

Milano. Una scena di “Enrico IV” in scena al Teatro Litta con la regia di Alberto Oliva (foto Congiu)

Prendendo spunto dalla nostra critica dell’”Enrico IV” di Pirandello, in scena al Teatro Litta di Milano, con la regia di Alberto Oliva, da noi pubblicata in occasione della prima rappresentazione, Andrea Bisicchia, storico del teatro, saggista, docente universitario, responsabile culturale del Teatro Franco Parenti, ha voluto puntualizzare e chiarire una diffusa tendenza del teatro italiano sugli interventi dei registi, non sempre rispettosi dei testi originali.
Ecco qui di seguito il suo apprezzato contributo.


(di Andrea Bisicchia) Che le manifestazioni artistiche, per imporsi presso l’opinione pubblica, abbiano bisogno di ricorrere alla trasgressione, concepita come marchio di novità, è un fatto noto, meno noto è che trasgressione voglia dire creazione. Filosofi e, soprattutto sociologi, hanno cercato di teorizzare i motivi di simile scelta adducendo, come pretesto, le conseguenze della modernità (Antony Giddens), della postmodernità (Francois Lyotard), della ipermodernità e del consumo sfrenato (Gilles Lipovetsky). Tutti concordano nell’individuare le cause nello strapotere dell’effimero, nella ricerca dell’eccesso, della violazione delle regole, tanto che i giovani artisti ricorrono spesso alle contaminazioni o alla multidisciplinarietà, facendone un uso smodato.
Sono convinto che ogni artista, spinto dalla velocità, preferisca ricorrere al saccheggio, ma il più saccheggiato è il teatro, nel senso che oggi si vuol teatralizzare ogni istante della propria vita, tanto che si sale su un palcoscenico per raccontarla, magari non alla maniera di un reality. Accade che giudici, giornalisti, politici si improvvisino attori, in barba a quelli che hanno studiato nelle Accademie o nelle Scuole di teatro. La cosa più sconcertante è che si affidano a organizzatori, senza scrupoli per intraprendere delle vere e proprie tournée.
Poi c’è il saccheggio della terminologia, tanto che il politico diventa clown, mettendo in crisi la specificità del personaggio che, tradizionalmente, sa far ridere, oltre che piangere, ma che nell’uso fattone recentemente, diventa sinonimo di disprezzo. C’è inoltre una generazione di registi che usa la contaminazione senza avvedersi dei pasticci che ne conseguono. È accaduto con “L’olandese volante”, realizzato alla Scala, la cui natura leggendaria è stata letta in chiave anticapitalista, dato che il regista Andreas Homoki l’ha ambientata in una società commerciale di navigazione, al tempo del colonialismo, per non parlare dell’uso disinvolto dei costumi in recentissimi spettacoli di Filippo Timi per il suo “Don Giovanni” o di Alessandro Gassman, per il suo “Riccardo III”, dove tutto appare esagerato, anche nel trucco, tanto che i personaggi sembrano strizzare l’occhio a quelli del fumetto.
Le stesse osservazioni si possono fare a scapito delle contaminazioni musicali dove c’è di tutto e di più, o dell’uso della tecnologia utilizzata per proiettare lo spettacolo in uno scenario immateriale, ricorrendo ad un diverso contesto linguistico, dove la parola viene accantonata, deturpata, irrisa, per essere sostituita da una intensa espansione corporale o sensoriale, attraverso l’uso sofisticato di strumenti tecnologici, come se l’evento immateriale dovesse promuovere una nuova emotività rispetto all’evento reale, ma dove è fin troppo evidente una confusione di stili e di linguaggi, alla ricerca dell’estetizzazione della civiltà, piuttosto che di un testo che va rappresentato. Se non si riesce a distinguere la regia (fonte di creatività) dai registi di professione, artefici di questa confusione, il saccheggio potrà durare all’infinito.

Leo Gullotta e Eugenio Franceschini in un testo di Patroni Griffi. Prima del naufragio della parola

Milano. Leo Gullotta, intenso protagonista di “Prima del silenzio”, di Patroni Griffi, al Teatro Franco Parenti (foto di Tommaso Le Pera).

Milano. Leo Gullotta, intenso protagonista di “Prima del silenzio”, di Patroni Griffi, al Teatro Franco Parenti (foto di Tommaso Le Pera).

(di Paolo A. Paganini) Eugène Delacroix (1798-1863), pittore romantico francese, trasse impulso ed ispirazione dalla lettura di Shakespeare, oltre che da Goethe, da Byron e dall’amato Dante. Non può dunque stupire un suo intervento in materia teatrale. Ebbe a dire, forse, ma non ne sono sicuro andando a memoria, e comunque faccio mie le sue presunte osservazioni: “Per fare teatro sono sufficienti un tavolo e una candela”. Ora, assistendo all’interessante riesumazione di “Prima del silenzio” (1980), di Giuseppe Patroni Griffi, il riferimento a Delacroix è stato quasi automatico, vedendo in scena ancor meno di un tavolo e d’una candela, ma solo uno scalcagnato divano. Sembrerà perlomeno eccentrico parlare d’uno spettacolo cominciando dalla scena, ma l’incipit s’impone guardando a bocca aperta gli effetti scenici che con due trucchi (ma quanta fatica c’è dietro) ha escogitato la troupe scenica di Luca Scarzella (video), Umile Vainieri (disegno luci), Luca Filaci (risoluzione scenica), Franco Patimo (disegno audio), facendo rivivere, tra l’altro, in maxi-proiezione, le fantasmiche apparizioni sceniche di Sergio Mascherpa, Andrea Giuliano e Paola Gassman (grazie altresì alla mano sicura del regista Fabio Grossi).
I due trucchi che dicevamo sono di per sé semplicissimi: un fondale su cui proiettare le immagini e un corrispondente velo sul proscenio, e in mezzo l’azione scenica. Ora, trasferendo e dividendo l’immagine tra fondale e proscenio, l’effetto diventa straordinariamente tridimensionale e avvolgente. Vuoi un mare minaccioso di onde in burrasca? E sembrerà che si riversi in platea travolgendo gli attori. Vuoi un volo fra eteree leggerezze di nubi in quota? E ti sembrerà di volare. Entrambe le situazioni avvengono sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti, dove Leo Gullotta (un inquieto intellettuale di bianco pelo che tra ricchezza e libertà ha scelto la libertà) e Eugenio Franceschini (un giovane e scapestrato in errante ricerca di tanti perché) uniscono le loro vite per un tratto del loro tragitto terreno.
L’intellettuale ha lasciato moglie, figli, servitù, vita comoda, preferendo a una vita asfissiante una squallido ma felice stato adolescenziale, nel quale poter liberamente guazzare in disquisizioni sulla morte, sul senso del passato, sull’inutilità del presente, sulla castrazione delle convenzioni, sull’ipocrisia del perbenismo, solo elogiando, santificando diremo meglio, anzi innalzando un monumentale tributo alla parola, solo e unico viatico all’essenza della vita, salvifica sublimazione dell’esistenza stessa. “Parola, perché la vita non è soltanto un ricordo… La vita è parola… Parola per impedire la morte del passato…”
Orbene, in tempi di apnea verbale, di parole appese come vecchi stracci sulle grucce della banalità, di parole offese, violentate, sbrindellate, oggi più di trent’anni fa, il testo di Peppino Patroni Griffi, oltre che una testimonianza di fede, è un grido di dolore, un’invocazione, forse patetica e disperata in nome di una naufragata civiltà. Un voler resuscitare un antico verbo primigenio e creativo. Prima che arrivi il silenzio totale d’una distruttiva e definitiva barbarie. Lo spettacolo, di novanta minuti senza intervallo, s’intitola appunto: “Prima del silenzio”!
Leo Gullotta: un esemplare sacerdote della parola. Eugenio Franceschini (caspita che bravo!) invece vorrebbe solo un po’ di silenzio… Al vecchio intellettuale, ingenuo e illuso, non rimarrà che la solitudine. Un subisso di calorosissimi applausi alla fine.
“Prima del silenzio”, di Giuseppe Patroni Griffi, regia di Fabio Grossi. Teatro Franco Parenti, Via Pier Lombardo 14 – Milano. Repliche fino a domenica 2 febbraio.
Tournée
Dal 4 al 9 febbraio: Torino, Teatro Carignano.
Dal 13 al 16 febbraio: Forlì, Teatro Diego Fabbri.