All’Arte/Triennale: due disperati e bellissimi spettacoli, dagli anni di piombo alla rivoluzione ungherese

Milano. Francesco Villano e Alice Conti in una scena di “L’insonne”, al Teatro dell’Arte, regia Claudio Autelli (foto Palermo)

Milano. Francesco Villano e Alice Conti in una scena di “L’insonne”, al Teatro dell’Arte, regia Claudio Autelli (foto Palermo)

(di Paolo A. Paganini) In un corridoio antistante la platea del milanese Teatro dell’Arte/Triennale, collocazione un po’ casereccia, è stato allestito il primo dei due spettacoli che, fino a domenica 23 febbraio saranno rappresentati uno di seguito all’altro, da due compagnie diverse (biglietto non cumulativo). Alle 19.30, il monologo “Figli senza volto”, adattamento di “Come voi” da Ida Faré, con Natascia Curci; e subito dopo, alle 20.30, sul più dignitoso palcoscenico dell’Arte, “L’insonne”, liberamente tratto da “Ieri” di Agota Kristof, con Alice Conti e Francesco Villano.
Il titolo “Figli senza volto”, meglio di “Come voi”, è senz’altro più drammaticamente contingente rispetto all’assunto di questa breve pièce, ambientata negli anni di piombo di quel disgraziato periodo, quando il delitto Moro mise praticamente fine al Brigatismo e ai sogni d’un giovanile ribellismo velleitario che, dopo di allora, rinunciò a dare l’assalto al cielo. Già tanto non sarebbe comunque cambiato niente: la TV in bianco e nero sarebbe proseguita nel suo inarrestabile processo di civile rincoglionimento, mentre il colonnello Bernacca avrebbe continuato a meteorologicizzare le italiche angosce dei borghesi finesettimana tra nebbie in Valpadana e piogge al Sud, e Mina avrebbe ancora a lungo gorgheggiato nei varietà del sabato sera. Ma quei “figli senza volto”, che nessuno volle mai mitizzare, neanche con questo inquietante spettacolo, erano quegli stessi nostri figli, a noi sconosciuti, che non capimmo mai, che non sapemmo salvare, che si dannarono in un inferno di sangue, mentre noi ci preoccupavamo di comprare energetiche merendine. Natascia Curci: bravissima. Le sue lacrime di rabbia e di dolore non erano un trucco scenico. Erano vere, erano le nostre.
Da una disperazione all’altra.
Subito dopo nella bella e scomoda sala dell’Arte (avevamo dimenticato quanto fossero poco ospitali le poltroncine della platea e come alcune “isole” della sala continuassero ad essere sorde), ci siamo immersi, con grande interesse e scarso godimento (non sono sempre necessari i gridolini di godimento), in un dramma d’immigrati. Be’, per modo di dire. L’ungherese Agota Kristof fuggì dalla sua casa, dopo la rivolta ungherese e la repressione sovietica del 1956. Si stabilì in Svizzera, con marito e figlia in fasce, lavorando in una fabbrica di orologi, dove imparò che il tempo non passa mai quando si è divorati dalla nostalgia di casa. Di questa sua storia, in termini di realistico autobiografismo, si parla in 80 minuti nello spettacolo “L’insonne”, che, con la suggestiva e bizzarra regia di Claudio Autelli, offre subito una lunga e bellissima introduzione di teatro d’ombre, con proiezioni da una rudimentale lanterna magica su un velario tra scena e platea. Poi, qua e là, prende il sopravvento la recitazione tradizionale, con Alice Conti e Francesco Villano in convincente ed applauditissima interpretazione. Bravi. Ma, senza far loro torto, rimangono tenacemente negli occhi e nella mente quelle magiche ed inquietanti immagini d’ombre. Due spettacoli da non perdere.
Teatro dell’Arte/Triennale, Via Alemagna 6, Milano. Nel ridotto, ore 19.30: “Figli senza volto”, da Ida Farè, con Natascia Curci, regia Aldo Cassano. Nella sala grande, ore 20.30: “L’insonne”, da Agota Kristof, con Alice Conti e Francesco Villano, regia Claudio Autelli. Repliche dei due spettacoli fino a domenica 23 febbraio

I “Sei personaggi”, trasposizione del Collettivo Macao: quasi un Pirandello da teatro politico

Milano. Alcuni attori del collettivo Macao durante leprove di “Sei personaggi in cerca d’autore”, da Pirandello (foto Fabrizio Garghetti).

Milano. Alcuni attori del collettivo Macao durante le prove di “Sei personaggi in cerca d’autore”, da Pirandello (foto Fabrizio Garghetti).

(di Paolo A. Paganini) 1921: dopo i “Sei personaggi in cerca d’autore”, di Pirandello, il teatro occidentale, con i suoi borghesi triangoli sentimentali, trasudanti gelosie, duelli, corna e melensi melodrammi, non fu più lo stesso. Fu la più incredibile rivoluzione, con la quale il teatro uscì definitivamente dall’Ottocento. Rivoluzione per rivoluzione, ora, all’Out Off, i “lavoratori dell’arte” del collettivo “Macao”, inseguiti dalle cronache nella loro tenace battaglia per il diritto a una dignitosa creatività, tra occupazioni sgomberi e polemiche, propongono una loro rivoluzionaria versione dei “Sei personaggi in cerca d’autore”. Scena spoglia, niente atti, azione anche al di fuori del palcoscenico, in odio alla veristiche messe in scena del teatro borghese, così volle Pirandello, che soprattutto si raccomandò di considerare il suo capolavoro come “commedia da fare” (il pubblico d’allora ne fu sconvolto), sono, ovviamente, anche adesso rispettate, con l’aggiunta – peraltro coerente – d’un linguaggio libero ma non stravolto.
La storia è ormai arcinota: sei personaggi, il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, il Giovinetto, la Bambina, si presentano in un teatro dove una compagnia di attori sta provando la commedia di Pirandello “Il gioco delle parti”. I sei raccontano di essere stati inventati da un autore che poi li ha abbandonati senza che lui risolvesse la loro storia nelle forme dell’arte. Ma ora sono creature vive, autonome (come ormai anche gli attori del collettivo Macao: singolare analogia, tant’è che questa loro messinscena potrebbe anche definirsi, senza offesa per Pirandello, “teatro politico”).
I sei dunque pretendono di mettere in scena la loro personale pièce, tratta dalle vicende della loro vita, anzi, lì, ora su quel palcoscenico, vita reale, vita autonoma, vita sconvolta da tragici avvenimenti, tra equivoci, baratri d’incesto, mortali conclusioni. No, non finzione, ma sangue e carni vive e pulsanti, né potrebbero affidare per finta teatrale la loro storia a degli attori…
E gli attori del collettivo ne rispettano la storia e non si discostano troppo dal canovaccio originale, pur con qualche trasfigurazione scenica che non ci è dispiaciuta. E sono gli stessi attori, che stan provando “Il gioco delle parti”, che come un giuoco, o uno scherzo, o una schizofrenica trasposizione d’identità, finzione della finzione, entrano nei panni dei Sei personaggi, portando avanti la loro tragedia esistenziale con punte di assoluta intensità drammaturgica. Vedasi, per esempio, la scena del mancato incesto nella casa di appuntamenti di Madama Pace: una particolare segnalazione della Figliastra interpretata da Valentina Cardinali, al centro di una tesa e coinvolgente scena con Marco Bellocchio, il Padre, personaggio-fulcro di convincente e generosa presenza scenica.
Ma diremo bene anche degli altri giovani interpreti, in questo allestimento ben orchestrato da Sandro Mabellini, i quali, pur con qualche forzatura espressionista, in poco più di un’ora danno una bella prova di maturità scenica. Ancora segnaleremo Francesca Golia (esuberante, presuntuosa e ottusa Regista della compagnia in prova) e Cecilia Elda Campani (la Madre, più orgogliosamente fiera che vittima), e poi Sebastiano Bottari e Diego Giannettoni. Calorosi applausi alla fine per tutti, con numerose chiamate in scena.
“Sei personaggi in cerca d’autore”, da Pirandello, prima nazionale del Collettivo Macao, al Teatro Out Off, Via Mac Mahon 16, Milano. Repliche fino a domenica 23 febbraio.

“Quartett” di Müller al Piccolo Teatro. E al centro dell’universo c’è solo la celebrazione del sesso

Milano. Laura Marinoni e Valter Malosti, licenziosi libertini in “Quartett”, di Heiner Müller, al Piccolo Teatro Grassi (foto Fabio Lovino)

Milano. Laura Marinoni e Valter Malosti, licenziosi libertini in “Quartett”, di Heiner Müller, al Piccolo Teatro Grassi (foto Fabio Lovino)

(di Paolo A. Paganini) È l’anno dei nudi a teatro. Risparmiamocene l’elenco. Dicono che sia il carattere distintivo di questa stagione. L’esaltazione del corpo. Meglio se nudo, dicono. Eppure, è la via più sicura per andare a sbattere contro una inutile volgarità. Il nudo richiama il sesso. Ahi, che argomento scabroso se non si hanno finezze, ironia, poesia. Diventa solo il pretestuoso mezzo di una sterile mediocrità senza idee, solo con lo scopo di rizzare il contropelo dell’istinto per épater les bourgeois. Pensavamo, per contrappasso, a tutto ciò delibandoci il piacere di vedere “Quartett”, di Heine Müller (1929-1995), un atto unico (1982) di poco più di un’ora, al Piccolo Teatro Grassi, con Laura Marinoni e Valter Malosti (anche regista). Personalmente ritengo che quando ci sono i caratteri di cui sopra – finezze ironia poesia – si possa dire qualsiasi cosa, si possa affrontare qualsiasi scabroso o pruriginoso o amorale argomento.
Questi ingredienti, in positivo (finezze ecc) e in negativo (scabroso ecc) “Quartett” li possiede in un’orgia di sbalorditivi stimoli intellettuali. L’elegante pubblicazione a cura del Teatro Stabile di Torino, che ha prodotto lo spettacolo, ce ne fa memoria, dove Agnese Grieco, che ha curato traduzione e drammatugia, fa giustamente notare che Müller, come sempre, ama contaminare i suoi testi. “Il montaggio, il collage, è una sua tecnica”. E qui la contaminazione stordisce, avvince, destabilizza in un vortice di geniali richiami, dal fascino immaginifico dell’opera verdiana all’avanspettacolo, da Shakespeare a Brecht.
Questo “Quartett”, dunque, la cui ispirazione, come si sa, è il licenzioso romanzo epistolare settecentesco di Choderlos de Laclos, “Le relazioni pericolose”, è dominato da due temi fondamentali, il tempo e la morte, che vengono in un certo senso esorcizzati dal più vitalistico tema che ne percorre e ne invade fibre e sangue: il sesso, non l’amore, il sesso crudo, impudico, così sfacciatamente prossimo al suo disfacimento fisiologico, al decadimento dei corpi, al degenerare dei tessuti, al cedimento delle carni, quando invano cercano appunto di contrastare il tempo e la morte.
Il testo di Müller, che riprende e ricalca Laclos, il quale, come fa giustamente notare Guido Davico Bonino “ha qualcosa di una sofisticata partita a scacchi”, è interpretato da due soli “giocatori”, che affrontano quattro ruoli, entrando e uscendo dalle spoglie delle vittime delle loro seduzioni. I due protagonisti sono dunque i vecchi amanti, esperti in tanti giochi di sesso e seduzione, il Visconte di Valmont e la Marchesa Merteuil, i quali, in un sadico gioco di rimandi, si scambiano l’un l’altra le identità di genere, oppure entrano nei ruoli della virginale nipote della Marchesa, Volanges, destinata a giuste nozze, che Valmont, istigato da Merteuil, seduce e deflora, oppure l’austera Madame de Tourvel, altra vittima sacrificale dei due cinici stupratori morali. I quali, nella realtà drammaturgica di Müller, pur negatori di anime e divinità, sono i cantori di una felicità tutta corporea, dove il sesso è il solo strumento di una idealizzata felicità, come nell’ingenuità d’un gioco fanciullesco, nel gonfiore d’una eterna pubertà. Fin che dura. Poi c’è la fine. E così sia.
Laura Marinoni e Valter Malosti sono semplicemente superbi, in questo finissimo e inquietante testo di Müller, nell’abbattere, da quel Settecento libertino a quest’oggi mercificato, i muri del bigottismo, dell’ipocrisia sentimentale, della superstizione religiosa, della presuntuosa vanità delle anime belle. Ovazioni finali.
“Quartett”, di Heiner Müller, con Laura Marinoni e Valter Malosti. Al Piccolo Teatro Grassi, Via Rovello 2, Milano. Repliche fino a domenica 16 febbraio.
Tournée
18 febbraio – 2 marzo – Roma, Piccolo Eliseo;
5 – 6 marzo – Ginevra, Théâtre du Galpon;
10 – 11 marzo – Lugano, Teatro della Cittadella;
13 – 16 marzo – Prato, Teatro Metastasio;
18 – 19 marzo – Correggio, Teatro Asioli;
20 – 21 marzo – Modena, Teatro Storchi;
24 – 25 marzo – Monaco di Baviera, Residenztheater (Marstall);
27 marzo – Cremona, Teatro Ponchielli;
28 marzo – Lecco, Teatro della Società.

La “Celestina” di Luca Ronconi al Piccolo Teatro tra erotismo e pornografia

Milano. Lucrezia Guidone in una scena di “Celestina”, regia di Luca Ronconi, al Piccolo Teatro Strehler (foto Luigi Laselva)

Milano. Lucrezia Guidone in una scena di “Celestina”, regia di Luca Ronconi, al Piccolo Teatro Strehler (foto Luigi Laselva)

(di Paolo A. Paganini) C’era una volta, sul finire del Cinquecento, “La commedia di Calisto e Melibea”. Autore? Mistero. Un po’ come per Shakespeare. Di edizione in edizione, circa cinque (dal 1499), la commedia passò dai sedici atti iniziali a ventuno. Con la quinta edizione, dal titolo “Tragicomedia de Calixto y Melibea y de la puta vieja Celestina”, venne definitivamente chiamata semplicemente “Celestina”, personaggio motore di tutta la mastodontica opera. E con questa, finalmente, si conobbe l’autore, “El Bachiller” Fernando de Rojas. Se di lì a quasi un secolo dopo non fosse arrivato Cervantes, De Rojas sarebbe ricordato oggi in assoluto come il più grande e celebre autore spagnolo. Rimane tuttavia come iniziatore del teatro moderno, colui che influenzò tutta la letteratura iberica, compreso Cervantes, compreso Lope de Vega.
Celestina, mezzana, tenutaria di bordello, mammona, vecchia perversa, lucidamente perfida, genio del male, ruffiana, temerariamente impudica in quel periodo di rigida moralità, è al centro di una trama semplicissima, fatta di intrighi, di filtri magici, di passioni, e quindi fatalmente destinata a finire tragicamente in lutti e sangue. Calisto, dunque, impazzisce d’amore per la bellissima Melibea, che lo respinge. Sempronio, servo di Calisto, lo consiglia di rivolgersi a Celestina, la vecchia malafemmina, intrigante e capace di ogni sortilegio d’amore. E Celestina, con ingegnosi pretesti, riesce a convincere la recalcitrante e bellissima fanciulla, vergine e pudica, a darsi al giovane, in un gorgo di travolgente e irrefrenabile passione. Ma una notte, Calisto, lasciando la ragazza, mette malamente un piede sulla scala che lo portava di nascosto all’amato bene, cade e muore. Melibea, disperata, si getterà dall’alto di una terrazza. Nel frattempo, in rapida successione, i due servi di Calisto, per non aver avuto giusto compenso da Celestina, la uccidono; e, a loro volta, vengono giustiziati.
Tutto questo emerge in pagine di plebei e bassi capitoli di altissima letteratura, con finezze psicologiche e sottigliezze stilistiche, pur nella licenziosità dell’opera, che penetrano con abilità sconcertante negli abissi dell’anima umana. “La Celestina” è stata tradotta in tutte le lingue europee, ed ha avuto svariate trascrizioni e riduzioni. L’ultima (1991), di Michel Garneau, con il titolo “Celestina, laggiù vicino alle concerie in riva al fiume”, in scena al Piccolo Teatro Strehler, tre ore e mezzo con un intervallo, è ora firmata da Luca Ronconi. E farà molto parlare.
In bilico fra erotismo (carica di sensualità nell’attrazione sessuale) e pornografia (raffigurazione di soggetti erotici che offendono il pudore), l’azione drammaturgica, lenta e tuttavia solenne, nella tipica estetica ronconiana di estenuare recitazione e plastiche gestualità, analitici passaggi psicologici e dinamici scatenamenti d’irrefrenabile sensualità, è posta su tre precise e scandite accentuazioni narrative e figurative: 1) l’infoiamento dell’erotomane Calisto, che nella sua foga masturbatoria si farebbe il mondo intero; 2) il fin troppo brusco passaggio alla scoperta del sesso da parte della timorata fanciulla Melibea; 3) la sovrastante presenza di Celestina, che tutto avvolge e condiziona con la sua mefitica esaltazione del sesso, centro motore di ogni piacere, di ogni desiderio, dove non c’è posto per sentimento e spiritualità, ma tutto è vizio e corruzione. Di questo passo, non ci si meraviglierà delle varie orge onanistiche, di umide deflorazioni di vergini, di nudità femminili e maschili in copule, di iterate frequentazioni in postriboli e anfratti compiacenti.
E, a proposito di anfratti, la scena è un vero campionario di botole e porte semoventi, sempre così amate da Ronconi.
Dei quattrodici interpreti, almeno nomineremo – e come astenersi? – Maria Paiato, ch’è una Celestina tragicamente perversa e tuttavia capace d’un alone di ingenua animalità con quella sua spicciola santificazione plebea di soldi e sesso. Paolo Pierobon sarà ricordato come una delle massime espressioni di erotomania scenica. Lucrezia Guidone, nel ruolo di Melibea, nuda, innocente vittima sacrificale per troppo amore e per null’altro, è stata tenera e convincente. Bene anche il servo Sempronio, interpretato da un eccellente Fausto Russo Alesi. Apprezzabili tutti gli altri. Applausi cordiali alla fine per tutti, regista e collaboratori compresi.

“Celestina, laggiù vicino alle concerie in riva al fiume”, di Michel Garneau, da Fernando de Rojas, regia di Luca Ronconi. Al Piccolo Teatro Strehler, Largo Greppi, Milano. Repliche fino a sabato 1 marzo.