Un imprevedibile Massimo Dapporto cade nelle trappole di Iago fra tuoni fulmini e saette

Milano. Massimo Dapporto e Angelica Leo nella scena finale di “Otello” con la regia di Nanni Garella (foto Luca Sgamellotti)

Milano. Massimo Dapporto e Angelica Leo nella scena finale di “Otello” con la regia di Nanni Garella (foto Luca Sgamellotti)

(di Paolo A. Paganini) Nelle tragedie di Shakespeare (per le commedie è un altro discorso) ci sono precisi paradigmi nei quali s’innerva la natura dei personaggi. In “Otello” c’è il Cattivo (Iago), c’è il Buono (Cassio), c’è il Pirlaccione stolido e innamorato (Roderigo), c’è l’Eroe valoroso e ingenuo (Otello), c’è la Fanciulla appassionata e fedele (Desdemona), c’è la Governante allegra e di buonsenso popolare (Emilia). La Commedia dell’Arte e Carlo Goldoni li chiamerebbero “caratteri”. Stiamo su “Otello”, in scena nello storico teatro milanese Carcano. Abbiamo fatto l’introduttiva lezioncina da maestrucoli non per sfizio ma per spiegare le scelte registiche e riduttive della tragedia originale in cinque atti, ora tagliuzzata ad arte e sapienza in un paio di ore con un intervallo.
Il regista Nanni Garella, poiché in Shakespeare l’azione si svolge il primo atto a Venezia e gli altri quattro in un porto di Cipro, ha tagliato corto e ha trasporto l’azione tutta a Cipro, anzi su una spiaggia desolata, tra cielo mare e sabbia, e così facendo (essendo diventati i costi di allestimento sempre più esosi ed incontrollabili), la scabra scena di Antonio Fiorentino è diventata una sana palestra di pura recitazione e di efficaci inventive, fra cupi suoni di minaccia e scrosci di tuoni fulmini e saette (il primo quadro a imitazione della “Tempesta” strehleriana). Con tutto ciò, gira e rigira, torniamo alla nostra introduzione.
Non c’è dubbio che questo “Otello” a molti puristi sembrerà un bigino. Ma non sarebbe corretto. L’allestimento, visto nella prospettiva programmatica del Carcano, meritorio nella tradizionale fedeltà al classico, non un bigino ma un onesto libro di lettura per la scuola media, svelto di lingua, spregiudicato nell’azione e, appunto, paradigmatico nel far capire subito dove sta il nettare e dove il veleno, cioè i buoni, i cattivi, gli stolidi e gli onesti, dove la giustizia e dove l’infamia. Per un giudizioso avvicinamento a Shakespeare è operazione propedeutica d’intelligente dignità. Ovviamente, i dodici personaggi primigeni (belli e appropriati i costumi di Claudia Pernigotti) qui sono diventati sette (con sacrificio dunque di marinai messaggeri araldi ufficiali vari gentiluomini musici e gente al seguito, e, onestamente, l’azione non ne soffre).
E così, in un crescendo un po’ affrettato di tensione emotiva, si arriva alla ben nota conclusione di morti feriti e sopravvissuti: Desdemona strozzata, Otello suicida, Emilia accoltellata, Roderigo assassinato e il perfido Iago punito in aeternum. Amen.
Un imprevedibile Massimo Dapporto nei panni di un Moro in sospetto di epilessia se la cava alla grande e Maurizio Donadoni, da subito mestatore di anime, si esibisce in un capolavoro di velenosa cattiveria; Federica Fabiani, dama di compagnia di un’esile Desdemona (Angelica Leo) è un’esuberante popolana che molto ricorda la Balia di Giulietta. Ma bene e applauditissimi anche gli altri: Matteo Alì, Jacopo Trebbi e Gabriele Tesauri.

“Otello”, di Shakespeare, regia di Nanni Garella. Repliche fino a domenica 19. Teatro Carcano, Corso di Porta Romana 63. Milano.
Tournée
Dopo Milano, lo spettacolo sarà a Bergamo, Teatro Donizetti, dal 21 al 26 gennaio, e a Perugia, Teatro Morlacchi, dal 5 al 9 febbraio.

Il bell’Antonio, giovane siciliano sciupafemmine (ma poi si scoprirà ch’è impotente)

Milano. Una scena di “Il bell’Antonio”, da Vitaliano Brancati, con la regia di Giancarlo Sepe, al Teatro Manzoni

Milano. Una scena di “Il bell’Antonio”, da Vitaliano Brancati, con la regia di Giancarlo Sepe, al Teatro Manzoni

(di Paolo A. Paganini) L’onore in Sicilia? Vitaliano Brancati (1907-1954), sarcasticamente, dirà: “La parola onore ha il suo più alto significato nella frase: farsi onore con una donna!” La battuta spiega il significato del suo romanzo “Il bell’Antonio” (1949), ambientato negli ultimi anni della dittatura fascista a Catania: a metà strada tra gallismo (una manifesta ed esibita virilità tra casini e amanti, fatta salva la “santità” della famiglia) e fascismo (ridicolo e tragico macchiettismo da opera dei pupi). Antonia Brancati, ora, insieme con Simona Celi, ne ha fatto una riduzione teatrale (già ne era stata fatta una alcuni anni fa, il cui ricordo più di tanto non merita). E, confesso, pur con qualche iniziale prevenzione, devo invece riconoscere la felicità di questa operazione, sorretta da un pregevole staff attoriale e dalla rigorosa abilità registica di Giancarlo Sepe. Alla vicenda del romanzo basterà l’accenno fattone. Anche perché, già nel ’60, Mauro Bolognini ne fece una fortunata edizione cinematografica con Mastroianni, la Cardinale, Brasseur e compagnia bella, ma Bolognini spostò l’azione dagli anni ‘30 agli anni ’50, puntando più su una malinconia di fondo che non sui caratteri di italica buffonata sociale.
La trasposizione scenica rispetta l’impostazione originaria. Ed è stato giusto così.
Dunque, ricordiamolo, il giovane e bellissimo Antonio torna da Roma nella natia Catania con gloriosa fama di sciupafemmine e con un medagliere di eroiche avventure sessuali. Le stesse non proprio timorate fanciulle catanesi, nello struscio di Via Etnea, si divorano ora con gli occhi l’ambitissimo bell’Antonio, il quale però si trova subito invischiato in un matrimonio combinato dalle famiglie. Matrimonio che, dopo tre anni, Antonio non è stato ancora capace di consumare, rivelando così una tragica impotenza, sempre a tutti mascherata. Il suocero farà annullare il matrimonio, riservando la figliola a più ricchi e nobili lombi aristocratici. Il padre di Antonio, settantenne uomo da monta dalle molte prestazioni, ne è sconvolto, ma farà in tempo a riscattare l’onore di famiglia concludendo eroicamente il suo passaggio terreno sotto le macerie di un casino dopo un bombardamento…
Andrea Giordana è il sanguigno e retrivo padre di Antonio, Luchino Giordana, il quale ne è figlio anche nella vita reale: bravo, misurato e dolente, perfetto controcanto di sofferta umanità in un mondo di pupi. Giancarlo Zanetti è lo zio giramondo e perennemente fuggitivo, pur di lasciarsi alle spalle il soffocante provincialismo siculo. Bene anche tutti gli altri, che almeno nomineremo: Elena Calligari, Simona Celi, Michele De Marchi, Natale Russo, Alessandro Romano, Giorgia Visani. Scena di Carlo De Marino: un gran velario che gira su un perno centrale a delimitare i vari luoghi deputati. Buona l’idea da giostra, anche se personalmente non mi è piaciuta. Tutti applauditissimi alla fine.

“Il bell’Antonio”, da Vitaliano Brancati, regia di Giancarlo Sepe. Repliche fino a domenica 26. Teatro Manzoni, Via Manzoni 42, Milano

O il genio o niente. Roberto Herlitzka ne racconta il dramma con un testo di Thomas Bernhard

Milano. Roberto Herlitzka, protagonista di “Il soccombente” di Thomas Bernhard, al Teatro Franco Parenti.

Milano. Roberto Herlitzka, protagonista di “Il soccombente” di Thomas Bernhard, al Teatro Franco Parenti.

(di Paolo A. Paganini) Il canadese Glenn Gould (1932-1982) fu un genio del pianismo mondiale. Nel 1955, le sue “Variazioni Goldberg” di Bach lo imposero come una delle personalità innovative e controcorrente più straordinarie del secolo. Anche dopo il 1964, quando interruppe l’attività concertistica, la sua fama fu oggetto di culto per il popolo di appassionati, in America e in Europa. Orbene, lo scrittore austriaco Thomas Bernhard (1931-1989), per celebrarne le glorie ma anche, massimamente, per ricavarne un “trattato” sulla fenomenologia dell’arte, sulla psicologia degli artisti e sulla frustrazione di chi aspira alla supremazia del genio senza riuscirci, scrisse nel 1983 “Il soccombente”, un lungo e affascinante monologo di un centinaio di pagine, tra ironia, nichilismo e cruda pietà per gli umani fallimenti. Immagina, come io narrante, di aver studiato pianoforte, a Salisburgo, sotto la guida di Horowitz, insieme con l’amico Wertheimer e, appunto, con Glenn Gould, fin da subito rivelatosi come un fanatico del concertismo, un invasato del perfezionismo e del virtuosismo, un mostruoso fenomeno di parossismo pianistico. Finirà per esserne schiacciato a cinquant’anni.
Intanto, i tre amici studiano come pazzi, in un rapporto di solidale impegno. Ma è evidente che Glenn Gould ha una marcia in più. Wertheimer, mancato virtuoso del pianoforte, che Gould aveva subito definito “soccombente”, vedendo in lui uno che va a fondo sempre più, di lì a pochi anni abbandonerà il pianoforte, si dedicherà alle scienze dello spirito, e finirà impiccato a cinquant’anni. E l’io narrante, da Gould chiamato “il filosofo”, pur dotato, regalerà quasi subito il suo prezioso Steinway alla figlia cretina di un mediocre maestro, che in brevissimo tempo lo rovinerà.
Il chilometrico monologo diventa così la storia di fasti e nefasti di quei ventotto anni della loro vita, dai tempi di Horowitz al suicidio di Wertheimer. Ma, com’è nello stile di Bernhard, assume il carattere di saggio sociologico e di diario, in una proiezione dove non è difficile intravedere i segni autobiografici dello stesso Bernhard, che dipana un florilegio di argomenti che vanno da arte e dilettantismo, ottusità della vita provinciale, lo studio come rimedio alla disperazione, l’influenza nefasta dei grandi Maestri impegnati nella missione di soffocare sul nascere le doti straordinarie dei giovani musicisti, l’odiata Austria e l’insofferenza per la Svizzera, dove la gente muore a causa della Svizzera, e l’angosciante accettazione della vita sociale (“comprendiamo gli esseri umani ma non li sopportiamo!!).
Ora, si pensi che questa immensa mole di parole, con i dovuti e indispensabili tagli, è diventata materia drammaturgica per un’ora e quindici di monologo, affidato a uno straordinario e inquietante Roberto Herlitzka, con la presenza scenica di Marina Sorrenti, proiezione fantasmica di antichi incubi, che la giovane evidenzia sui muri come in stato di trance: singolare e suggestiva invenzione registica di Nadia Baldi. Pubblico teso e partecipe, con esplosione finale di applausi per interpreti e regista.

“Il soccombente”, di Thomas Bernhard, con Roberto Herlitzka. Repliche fino a domenica 19. Teatro Franco Parenti, Via Pier Lombardo 14, Milano

Il Piccolo Principe di Saint-Exupéry, diventato vecchio, si ritrova in un ospizio dove vive la sua dolce follia

Milano. Pietro Traldi, Vincenzo Occhionero e Manuela De Meo in una scena di “Il Vecchio Principe”, in scena all’Elfo Puccini

Milano. Pietro Traldi, Vincenzo Occhionero e Manuela De Meo in una scena di “Il Vecchio Principe”, in scena all’Elfo Puccini


(di Paolo A. Paganini) “Il Vecchio Principe…”, di Manuela De Meio, Vincenzo Occhionero e Pietro Traldi, che ne sono anche gli interpreti, porta un sottotitolo, “… e le sue avventure nel corridoio di un ospizio”, con un’altra piccola, ma importante, aggiunta, che sa di spiegazione o di giustificazione: “Primo studio sulla terza età”. Che sia il primo ci auguriamo che lo rimanga. Che sia uno studio accettiamolo per buono. E come tale lo tratteremo. In un’ora scarsa, con la regia di César Brie, che si dà molto da fare per trovare un filo conduttore, e qualche volta ci riesce, “Il Vecchio Principe” vuole essere una trasposizione in chiave senile del “Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, il quale, come ormai tutti sanno, racconta la storia d’un bimbo dolce e strano, fuggito da un piccolissimo pianeta, per evadere dalla possessività di una rosa, di cui era innamorato. Dopo aver attraversato altri pianeti, arriva sulla Terra. Nel suo viaggio, questo Piccolo Principe, ha incontrato alcuni personaggi, che gli sembrano davvero stravaganti: un beone, un uomo d’affari, un vanitoso, un lampionaio… Intanto, nel deserto in cui è giunto, trovandocisi a suo agio, incontra un aviatore, che, per un guasto al motore, ha fatto un atterraggio di fortuna e che diventa il narratore di tutta la storia… Basta, fermiamoci qua.
Allora, immaginiamo che il Piccolo Principe sia diventato il Vecchio Principe, il quale, anziché giungere nel deserto, si ritrova in un ospizio per vecchi, che sempre di deserto si tratta. Qui, anziché il pilota, incontra un infermiere, che con il Veccho stabilisce un singolare rapporto d’amicizia. Con pietoso affetto, l’infermiere racconta le allucinate storie di quella vetusta mente, forse già toccata dall’Alzheimer. La trasposizione dei personaggi del celebre racconto per ragazzi si fa sempre più palese: c’è un nipote ubriacone, una nipote manager fanatica del cellulare, il primario-vantone, il lampionaio, diventato un nevrotico che accende e spegne in continuazione le luci. E c’è anche l’adorata rosa, in sembianze di fascinose rotondità muliebri, profumo consolatorio di giovinezza… Il Piccolo Principe, divorato dal desiderio di ritornare sul suo piccolo pianeta e rivedere la sua adorata, svanisce nella notte dopo aver consolato l’amico aviatore. Ed anche il Vecchio ora se ne andrà nel suo sudario di morte, dopo aver consolato l’amico infermiere.
Narrata sulla scena con leggerezza e ironia, a parte due/tre chiari riferimenti con il testo originale, l’operazione, per eccesso di concisità, ha perso via via una più coerente e approfondita connotazione, che sarebbe servita o a recuperare il piacere della lettura di Saint-Exupéry o a strutturarsi in un’operina drammaturgicamente autonoma. Né l’una né l’altra. Rimane la giustificata spiegazione di “studio sulla terza età”. E rimane una recitazione onesta e generosa, applaudita anche in singole performance teatrali. E, ancora, rimane, tutto sommato, un allestimento povero ma gradevole, con un pubblico, alla fine, calorosamente entusiasta.

“Il Vecchio Principe”, studio sulla terza età, da Antoine de Saint-Exupéry, al Teatro Elfo Puccini, Sala Fassbinder, Corso Buenos Aires 33, Milano. Repliche fino a domenica 12