Rusticana avventura al peperoncino di Edoardo Erba con Gigio Alberti, Mario Sala e Monica Bonomi

Milano. Mario Sala e Gigio Alberti n una scerna di “Vera Cruz”, di Edoardo Erba, all’Out Off (foto Dorkin)

Milano. Mario Sala e Gigio Alberti n una scerna di “Vera Cruz”, di Edoardo Erba, all’Out Off (foto Dorkin)

(di Paolo A. Paganini) Nel Tabasco, regione del Messico meridionale, famosa per la sua salsa al peperoncino, per le rovine Maya, per la povertà della popolazione e per la ricchezza degli spacciatori di droga, si ritrovano, dopo cinquant’anni, due ex amici: Manuel e Isidro, il primo estroverso e disinibito, il secondo solitario e taciturno; il primo ladro bugiardo spacciatore e assassino, il secondo, onesto e fedele lavoratore, abile corniciaio ora dedito all’orto, con la sola vocazione per i pomodorini e che non gli rompano le scatole. Ma, dopo tanti anni, nella sua povera e sperduta casa di campagna gli piomba Manuel. Isidro non se ne capacita e del vecchio amico diffida. Da sempre. Ma Manuel vuol solo parlare, dice, e, in realtà, sia lui sia l’amico sono gli unici due indigeni depositari d’una lingua ormai scomparsa, il Nuumte Oote (Vera Vuz). Attraverso questo antico lingaggio materno, il vecchio filibustiere vuol nostalgicamente recuperare antichi ricordi di una pur scapestrata giovinezza, ma anche far rivivere storie familiari ed affetti (e qualche verità che doveva rimanere nascosta), come solo il dialetto sa fare.
Amicizia vendetta giustizia sono i cardini di quest’opera di Edoardo Erba, come una specie di sornione scontro western, in scena all’Out Off, che in un’ora e quindici senza intervallo, recupera con tenerezza elegiaca un altro carattere presente da protagonista: lo scomparso dialetto nativo, qui traslato da Erba in dialetto pavese, altra lingua destinata all’estinzione, come il milanese, come altri dialetti italiani, schiacciati, massificati da un approssimativo italiano televisivo e dall’indiscriminato e snobistico inquinamento anglofilo. Un terzo personaggio, Felipa, partecipa all’azione drammaturgica. Gran lavoratrice, scaltra e determinata, dopo una vita spesa a far da serva al burbero e scontroso Isidro, vuol solo concludere in bellezza facendosi finalmente sposare. Anche perché come può una moglie testimoniare contro il marito? Basta, abbiamo rivelato anche troppo.
Lo spettacolo, con l’attenta e scavata regia di Lorenzo Loris, è destinato a diventare uno dei più gradevoli della stagione, specie e soprattutto per i tre straordinari e affiatati interpreti. Gigio Alberti e Mario Sala, in un non troppo ostico e musicale dialetto pavese (per i più schizzinosi cultori d’italico purismo sono presenti i sopratitoli), sono i due sfuggenti duellanti western, di cui alla fine si saprà tutto. Caspita, che bravi. E Monica Bonomi, nella parte di Felipa, è il tenero controcanto d’una simpatia che sprizza tutte le volte che irrompe in scena. Un particolare plauso anche alla rustica scena di Daniela Giardinazzi, degna cornice d’una storia di agresti atmosfere, che recupera in parte anche personali richiami di nostrane province, dove la vita, una volta, era schietta di amori e di amicizie. Ma, si sa, quando la vita è tanto amata, la tragedia è pronta a bussare alla porta. Calorosi, incondizionati applausi alla fine per tutti.

“Vera Vuz”, di Edoardo Erba, con Gigio Alberti, Mario Sala, Monica Bonomi, al Teatro Out Off, Via Mac Mahon 16. Milano. Repliche fino a domenica 2 febbraio.

Un imprevedibile Massimo Dapporto cade nelle trappole di Iago fra tuoni fulmini e saette

Milano. Massimo Dapporto e Angelica Leo nella scena finale di “Otello” con la regia di Nanni Garella (foto Luca Sgamellotti)

Milano. Massimo Dapporto e Angelica Leo nella scena finale di “Otello” con la regia di Nanni Garella (foto Luca Sgamellotti)

(di Paolo A. Paganini) Nelle tragedie di Shakespeare (per le commedie è un altro discorso) ci sono precisi paradigmi nei quali s’innerva la natura dei personaggi. In “Otello” c’è il Cattivo (Iago), c’è il Buono (Cassio), c’è il Pirlaccione stolido e innamorato (Roderigo), c’è l’Eroe valoroso e ingenuo (Otello), c’è la Fanciulla appassionata e fedele (Desdemona), c’è la Governante allegra e di buonsenso popolare (Emilia). La Commedia dell’Arte e Carlo Goldoni li chiamerebbero “caratteri”. Stiamo su “Otello”, in scena nello storico teatro milanese Carcano. Abbiamo fatto l’introduttiva lezioncina da maestrucoli non per sfizio ma per spiegare le scelte registiche e riduttive della tragedia originale in cinque atti, ora tagliuzzata ad arte e sapienza in un paio di ore con un intervallo.
Il regista Nanni Garella, poiché in Shakespeare l’azione si svolge il primo atto a Venezia e gli altri quattro in un porto di Cipro, ha tagliato corto e ha trasporto l’azione tutta a Cipro, anzi su una spiaggia desolata, tra cielo mare e sabbia, e così facendo (essendo diventati i costi di allestimento sempre più esosi ed incontrollabili), la scabra scena di Antonio Fiorentino è diventata una sana palestra di pura recitazione e di efficaci inventive, fra cupi suoni di minaccia e scrosci di tuoni fulmini e saette (il primo quadro a imitazione della “Tempesta” strehleriana). Con tutto ciò, gira e rigira, torniamo alla nostra introduzione.
Non c’è dubbio che questo “Otello” a molti puristi sembrerà un bigino. Ma non sarebbe corretto. L’allestimento, visto nella prospettiva programmatica del Carcano, meritorio nella tradizionale fedeltà al classico, non un bigino ma un onesto libro di lettura per la scuola media, svelto di lingua, spregiudicato nell’azione e, appunto, paradigmatico nel far capire subito dove sta il nettare e dove il veleno, cioè i buoni, i cattivi, gli stolidi e gli onesti, dove la giustizia e dove l’infamia. Per un giudizioso avvicinamento a Shakespeare è operazione propedeutica d’intelligente dignità. Ovviamente, i dodici personaggi primigeni (belli e appropriati i costumi di Claudia Pernigotti) qui sono diventati sette (con sacrificio dunque di marinai messaggeri araldi ufficiali vari gentiluomini musici e gente al seguito, e, onestamente, l’azione non ne soffre).
E così, in un crescendo un po’ affrettato di tensione emotiva, si arriva alla ben nota conclusione di morti feriti e sopravvissuti: Desdemona strozzata, Otello suicida, Emilia accoltellata, Roderigo assassinato e il perfido Iago punito in aeternum. Amen.
Un imprevedibile Massimo Dapporto nei panni di un Moro in sospetto di epilessia se la cava alla grande e Maurizio Donadoni, da subito mestatore di anime, si esibisce in un capolavoro di velenosa cattiveria; Federica Fabiani, dama di compagnia di un’esile Desdemona (Angelica Leo) è un’esuberante popolana che molto ricorda la Balia di Giulietta. Ma bene e applauditissimi anche gli altri: Matteo Alì, Jacopo Trebbi e Gabriele Tesauri.

“Otello”, di Shakespeare, regia di Nanni Garella. Repliche fino a domenica 19. Teatro Carcano, Corso di Porta Romana 63. Milano.
Tournée
Dopo Milano, lo spettacolo sarà a Bergamo, Teatro Donizetti, dal 21 al 26 gennaio, e a Perugia, Teatro Morlacchi, dal 5 al 9 febbraio.

Il bell’Antonio, giovane siciliano sciupafemmine (ma poi si scoprirà ch’è impotente)

Milano. Una scena di “Il bell’Antonio”, da Vitaliano Brancati, con la regia di Giancarlo Sepe, al Teatro Manzoni

Milano. Una scena di “Il bell’Antonio”, da Vitaliano Brancati, con la regia di Giancarlo Sepe, al Teatro Manzoni

(di Paolo A. Paganini) L’onore in Sicilia? Vitaliano Brancati (1907-1954), sarcasticamente, dirà: “La parola onore ha il suo più alto significato nella frase: farsi onore con una donna!” La battuta spiega il significato del suo romanzo “Il bell’Antonio” (1949), ambientato negli ultimi anni della dittatura fascista a Catania: a metà strada tra gallismo (una manifesta ed esibita virilità tra casini e amanti, fatta salva la “santità” della famiglia) e fascismo (ridicolo e tragico macchiettismo da opera dei pupi). Antonia Brancati, ora, insieme con Simona Celi, ne ha fatto una riduzione teatrale (già ne era stata fatta una alcuni anni fa, il cui ricordo più di tanto non merita). E, confesso, pur con qualche iniziale prevenzione, devo invece riconoscere la felicità di questa operazione, sorretta da un pregevole staff attoriale e dalla rigorosa abilità registica di Giancarlo Sepe. Alla vicenda del romanzo basterà l’accenno fattone. Anche perché, già nel ’60, Mauro Bolognini ne fece una fortunata edizione cinematografica con Mastroianni, la Cardinale, Brasseur e compagnia bella, ma Bolognini spostò l’azione dagli anni ‘30 agli anni ’50, puntando più su una malinconia di fondo che non sui caratteri di italica buffonata sociale.
La trasposizione scenica rispetta l’impostazione originaria. Ed è stato giusto così.
Dunque, ricordiamolo, il giovane e bellissimo Antonio torna da Roma nella natia Catania con gloriosa fama di sciupafemmine e con un medagliere di eroiche avventure sessuali. Le stesse non proprio timorate fanciulle catanesi, nello struscio di Via Etnea, si divorano ora con gli occhi l’ambitissimo bell’Antonio, il quale però si trova subito invischiato in un matrimonio combinato dalle famiglie. Matrimonio che, dopo tre anni, Antonio non è stato ancora capace di consumare, rivelando così una tragica impotenza, sempre a tutti mascherata. Il suocero farà annullare il matrimonio, riservando la figliola a più ricchi e nobili lombi aristocratici. Il padre di Antonio, settantenne uomo da monta dalle molte prestazioni, ne è sconvolto, ma farà in tempo a riscattare l’onore di famiglia concludendo eroicamente il suo passaggio terreno sotto le macerie di un casino dopo un bombardamento…
Andrea Giordana è il sanguigno e retrivo padre di Antonio, Luchino Giordana, il quale ne è figlio anche nella vita reale: bravo, misurato e dolente, perfetto controcanto di sofferta umanità in un mondo di pupi. Giancarlo Zanetti è lo zio giramondo e perennemente fuggitivo, pur di lasciarsi alle spalle il soffocante provincialismo siculo. Bene anche tutti gli altri, che almeno nomineremo: Elena Calligari, Simona Celi, Michele De Marchi, Natale Russo, Alessandro Romano, Giorgia Visani. Scena di Carlo De Marino: un gran velario che gira su un perno centrale a delimitare i vari luoghi deputati. Buona l’idea da giostra, anche se personalmente non mi è piaciuta. Tutti applauditissimi alla fine.

“Il bell’Antonio”, da Vitaliano Brancati, regia di Giancarlo Sepe. Repliche fino a domenica 26. Teatro Manzoni, Via Manzoni 42, Milano

O il genio o niente. Roberto Herlitzka ne racconta il dramma con un testo di Thomas Bernhard

Milano. Roberto Herlitzka, protagonista di “Il soccombente” di Thomas Bernhard, al Teatro Franco Parenti.

Milano. Roberto Herlitzka, protagonista di “Il soccombente” di Thomas Bernhard, al Teatro Franco Parenti.

(di Paolo A. Paganini) Il canadese Glenn Gould (1932-1982) fu un genio del pianismo mondiale. Nel 1955, le sue “Variazioni Goldberg” di Bach lo imposero come una delle personalità innovative e controcorrente più straordinarie del secolo. Anche dopo il 1964, quando interruppe l’attività concertistica, la sua fama fu oggetto di culto per il popolo di appassionati, in America e in Europa. Orbene, lo scrittore austriaco Thomas Bernhard (1931-1989), per celebrarne le glorie ma anche, massimamente, per ricavarne un “trattato” sulla fenomenologia dell’arte, sulla psicologia degli artisti e sulla frustrazione di chi aspira alla supremazia del genio senza riuscirci, scrisse nel 1983 “Il soccombente”, un lungo e affascinante monologo di un centinaio di pagine, tra ironia, nichilismo e cruda pietà per gli umani fallimenti. Immagina, come io narrante, di aver studiato pianoforte, a Salisburgo, sotto la guida di Horowitz, insieme con l’amico Wertheimer e, appunto, con Glenn Gould, fin da subito rivelatosi come un fanatico del concertismo, un invasato del perfezionismo e del virtuosismo, un mostruoso fenomeno di parossismo pianistico. Finirà per esserne schiacciato a cinquant’anni.
Intanto, i tre amici studiano come pazzi, in un rapporto di solidale impegno. Ma è evidente che Glenn Gould ha una marcia in più. Wertheimer, mancato virtuoso del pianoforte, che Gould aveva subito definito “soccombente”, vedendo in lui uno che va a fondo sempre più, di lì a pochi anni abbandonerà il pianoforte, si dedicherà alle scienze dello spirito, e finirà impiccato a cinquant’anni. E l’io narrante, da Gould chiamato “il filosofo”, pur dotato, regalerà quasi subito il suo prezioso Steinway alla figlia cretina di un mediocre maestro, che in brevissimo tempo lo rovinerà.
Il chilometrico monologo diventa così la storia di fasti e nefasti di quei ventotto anni della loro vita, dai tempi di Horowitz al suicidio di Wertheimer. Ma, com’è nello stile di Bernhard, assume il carattere di saggio sociologico e di diario, in una proiezione dove non è difficile intravedere i segni autobiografici dello stesso Bernhard, che dipana un florilegio di argomenti che vanno da arte e dilettantismo, ottusità della vita provinciale, lo studio come rimedio alla disperazione, l’influenza nefasta dei grandi Maestri impegnati nella missione di soffocare sul nascere le doti straordinarie dei giovani musicisti, l’odiata Austria e l’insofferenza per la Svizzera, dove la gente muore a causa della Svizzera, e l’angosciante accettazione della vita sociale (“comprendiamo gli esseri umani ma non li sopportiamo!!).
Ora, si pensi che questa immensa mole di parole, con i dovuti e indispensabili tagli, è diventata materia drammaturgica per un’ora e quindici di monologo, affidato a uno straordinario e inquietante Roberto Herlitzka, con la presenza scenica di Marina Sorrenti, proiezione fantasmica di antichi incubi, che la giovane evidenzia sui muri come in stato di trance: singolare e suggestiva invenzione registica di Nadia Baldi. Pubblico teso e partecipe, con esplosione finale di applausi per interpreti e regista.

“Il soccombente”, di Thomas Bernhard, con Roberto Herlitzka. Repliche fino a domenica 19. Teatro Franco Parenti, Via Pier Lombardo 14, Milano