Le mostruose bugie dell’esilarante “giudice” Bonacelli nella “Brocca rotta” di Kleist

Milano. Carlo Simoni, Patrizia Milani, Paolo Bonacelli in una scena di “La brocca rotta” di Von Kleist, al Teatro Carcano (foto Tommaso Lepera)

Milano. Carlo Simoni, Patrizia Milani, Paolo Bonacelli in una scena di “La brocca rotta” di Von Kleist, al Teatro Carcano (foto Tommaso Lepera)


(di Paolo A. Paganini) Heinrich von Kleist (1777-1811) fu un singolare, geniale, contraddittorio (e quindi fecondo di straordinari impulsi creativi), infelice autore drammatico tedesco (morì suicida con l’amica Henriette sulle rive del lago Wannsee, località più tardi tristemente famosa per un torvo convegno di nazisti nel 1942). Von Kleist fu una delle massime personalità del romanticismo. Visse in dialettica angoscia tra l’oppressione del dovere e gli impulsi delle passioni. Ne scaturirono drammi come “Roberto il Guiscardo”, tragico frammento sull’ossessione del destino, o “Il Principe di Homburg”, felice sintesi dei suoi tormenti interiori. Appare dunque perlomeno strana l’apparizione, nel 1811, di “La brocca rotta”, farsa metafisica sulla sfiducia della giustizia, quasi un intellettualistico divertissement, un capriccio artistico soddisfatto per gioco, o per scommessa, esilarante caricatura satirica di un giudice corrotto, o forse soltanto bamba, che, in un villaggio olandese, dà origine a un irresistibile processo tragicomico, dal quale lui solo risulterà colpevole, scornato, sbeffeggiato e rincorso per il paese dagli stessi villici.
Plauto, Boccaccio, la Commedia dell’Arte, Ruzante, Shakespeare (come fa giustamente notare il regista Marco Bernardi) possono essere ideali compagni di una comune parentela in questo atto unico erotico, che si svolge in tempi reali, un’ora e mezzo, cioè il tempo effettivo di un’assurda udienza da classe degli asini. Volendo considerare “La brocca rotta” una satira della giustizia può anche essere un divertente gioco di prestigio filologico, ma la tentazione sovrana dei vari allestimenti è di virare dalla parodia al comico, un comico di sublime altezze letterarie e di straodinari effetti teatrali. Dove il romanticismo rimane una definizione anomala e lontana.
Celeberrima, nei nostri ricordi, la messinscena del 1982, con Eros Pagni (il Giudice), Ferruccio De Ceresa (l’Ispettore), e Lina Volonghi, la madre della fanciulla al centro della tresca e padrona di quella famosa brocca, rottasi durante un burrascoso convegno e ora motivo del contendere, tra omerici strafalcioni giuridici, mostruose bugie, gigantesche e buffonesche eresie d’un codice addomesticato, ad usum del giudice, impantanato e compromesso dalle sue stesse immaginifiche invenzioni. Nei ruoli della vecchia edizione, oggi troviamo, nel vetusto di glorie milanesi teatro Carcano, Paolo Bonacelli, le cui cialtronate sceniche sono pari ai suoi preziosi virtuosismi comici; Carlo Simoni, austero e sempre più perplesso Ispettore; Patrizia Milani, la Madre, irruenta giustiziera dell’onore della figlia (Irene Villa). Bene anche tutti gli altri (almeno citeremo Roberto Tesconi, il Cancelliere), in un convincente allestimento, condotto con colorito rigore da Marco Bernardi, sulla bella scena di Gisbert Jaekel. Gaudioso divertimento e calorosi applausi alla fine per tutti.

“La brocca rotta”, di Heinrich von Kleist – Teatro Carcano, corso di Porta Romana, 63 – Milano – Repliche fino a domenica 15.
Tournée
Trento, Centro S. Chiara, 9 – 12 gennaio
Roma, Teatro Quirino, 14-26 gennaio
Brescia, Teatro Sociale, 29 gennaio – 2 febbraio

Al Franco Parenti, fascistello romano impara a conoscere la vita dal vecchio comunista Gianrico Tedeschi: strepitoso

Milano. Gianrico Tedeschi e Alberto Onofrietti in “Farà giorno”, di Menduni/De Giorgi, al Teatro Franco Parenti.

Milano. Gianrico Tedeschi e Alberto Onofrietti in “Farà giorno”, di Menduni/De Giorgi, al Teatro Franco Parenti.

(di Paolo A. Paganini) Sì, d’accordo, farà giorno. Ma, intanto, questa “nuttata che ha da passà” non passa mai. Una notte lunga, una notte malata, una notte metaforica, certo, sprofondata in un buio d’ignoranza, d’indifferenza, di violenza, di ricordi che ritornano come incubi, di un male di vivere in un presente senza speranze. E quando poi farà giorno, un vecchio si ritrova con una gamba rotta, perché un giovane, un cretino, che guidava senza patente, l’aveva investito. Ora il ragazzotto lo supplica di non denunciarlo, perché ha qualcosina ancora in sospeso, e finirebbe in galera. Fanno un patto, un contratto d’onore: il vecchio non lo denuncerà, ma il giovane s’impegnerà a fargli da badante finché la gamba non andrà a posto. La conseguenza coabitativa diventerà un feroce scontro dialettico tra il vecchio, un ex tipografo, partigiano comunista con molti ricordi e molte ferite, e il giovane, un bullo di quartiere, violento e ignorante come una capra, pieno di muscoli e di tatuaggi inneggianti al Duce e al truce passato nazifascista.
Tra i due come potrà esserci intesa? Eppure…
In due tempi (due ore e mezzo con un intervallo) al Teatro Franco Parenti di Milano, lo spettacolo, dal titolo appunto “Farà giorno”, di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi (abile drammaturgia con qualche carognata sentimentale e lacrima finale malandrina), diventa, da una parte, un percorso di crescita del giovane, verso la conoscenza e la responsabilità civile, e, dall’altra, dalla parte del vecchio, un debito da pagare per qualche amaro e crudo ricordo, di quando la fede nella giustizia e nella libertà gli fece dimenticare pietà e tolleranza. E allora diciamo che, senza altri giri di parole, è uno spettacolo assolutamente imperdibile. La locandina recita “L’evento teatrale dell’anno”. Non è esagerato.
In scena c’è il novantatreenne Gianrico Tedeschi, un superbo, tenerissimo vecchio, d’invidiabile memoria, stupefacente nella tempistica degli interventi, con quella sua elegante, bonaria ironia ora sorniona ora burbera. Gli sta alla pari, seppure all’opposto, per irruenza, energia, spavalderia e cialtronismo, il bravissimo trentaduenne Alberto Onofrietti, esperto in lingue e dialetti, qui bullescamente esibito in irruento eloquio trasteverino, a fronte del vecchio tipografo comunista padovano, esemplare pedagogo, che spesso scivola nell’irresistibile intercalare veneto, che tutto risolve: il simpatico e sbrigativo “va in mona”. Marianella Laszlo qui fa la figlia, che torna alla casa del padre dopo trent’anni, portando un lungo corteo di ricordi e di fantasmi.
Il primo tempo è semplicemente strepitoso. Inevitabile caduta nel melodramma la seconda parte. Regia di Piero Maccarinelli, attenta, precisa, senza sbavature, rigorosa e tenerissima, soprattutto orgogliosamente rispettosa della pietas della vecchiaia. Applausi finali da grande evento. Appunto.

“Farà giorno”, Teatro Franco Parenti – Via Pier Lombardo 14, Milano . Repliche fino a domenica 22 dicembre. Infine, sarà a Carrara il 27 e 28 dicembre. Poi verrà ripreso il prossimo anno

L’ex Commissario Montalbano indaga sui presunti crimini del grande musicista Furtwängler

Milano. Massimo De Francovich e Luca Zingaretti in una scena di “La torre d’avorio”, di Ronald Harwood, al Piccolo Teatro Strehler (foto Buscarino)

Milano. Massimo De Francovich e Luca Zingaretti in una scena di “La torre d’avorio”, di Ronald Harwood, al Piccolo Teatro Strehler (foto Buscarino)

(di Paolo A. Paganini) Luca Zingaretti, sul pascoscenico del Piccolo Teatro Strehler, voleva far dimenticare il celebre Commissario Montalbano della fortunata serie televisiva di Camilleri? Missione compiuta. Nel dramma “La torre d’avorio”, di Ronald Harwood (debutto a Londra nel 1995 regia di Pinter, e poi sul grande schermo, 2002, regia Istvan Szabò), Zingaretti sostiene il ruolo del Maggiore Steve Arnold. Incaricato dal comitato americano per la denazificazione, dopo la fine della guerra, nel 1945, deve stabilire se, fra tanti altri fiancheggiatori inquisiti, più o meno compromessi con il nazismo, anche il famoso direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, amato da Hitler, caro a tutti i gerarchi, avesse avuto responsabilità politiche come occulto e mai dichiarato sostenitore dei crimini nazisti.
Teatro inchiesta, affascinante dramma di parola, “La torre d’avorio”, nei due atti di quasi un’ora ciascuno, tiene inchiodati gli spettatori in platea in una tensione emotiva ad alto voltaggio, mentre il Maggiore Arnold tenta a sua volta d’inchiodare il celebre direttore d’orchestra alle sue presunte responsabilità. Né sembrano avere importanza le testimonianze a favore di Furtwängler a dimostrazione dei tanti aiuti da lui dati a molti ebrei, così salvandoli dalle camere a gas. Per il tenace Maggiore erano solo alibi e copertura della sua cattiva coscienza.
Ma, al di là della vicenda reale, l’avvincente dibattito teatrale sta, soprattutto, su due punti fondamentali, uno pregiudiziale, l’altro morale. L’aspetto pregiudiziale è nella domanda, implicita e non dimostrata: Furtwängler non sapeva o non voleva sapere? La risposta riposa in aeternum nella coscienza del direttore d’orchestra. Ma è il punto morale, quello fondamentale, quello più intrigante, sul quale può calare non il giudizio della Storia ma l’opinione di ciascuno di noi. Vale a dire: quando tanti intellettuali, tanti artisti tedeschi, dopo il 1933, preferirono lasciare la Germania, o per evitare persecuzioni o per non avere niente a che fare con il nazismo, lui, Furtwängler, perché preferì rimanere in patria? La musica, la grande musica del repertorio romantico, di Beethoven, di Brahms, di Bruckner, soprattutto di Wagner, sotto la direzione di Furtwängler, già direttore del Gewandhaus di Lipsia e poi del Berliner Philarmoniker, era da considerarsi fiore all’occhiello del nazismo o diritto dell’artista di poter considerare l’arte separata dalla politica?
La musica, viatico consolatorio di elevazione spirituale, era dunque la religione laica che non solo giustificava ma gli imponeva, come dovere morale, di rimanere nella sua terra per continuare a dare una sublimazione liberatoria, al di là delle patrie, al di là della patria, nell’empireo della bellezza musicale, in un oblio lontano dalle atrocità quotidiane, svincolato dai crimini nazisti? La musica, con i suoi ideali attributi di purezza e innocenza, può convivere ed essere superiore al clima del terrore alla violenza politica, o poteva, involontariamente o forse consciamente, essere ritenuta complice, colpevole, corresponsabile?
È ciò che tenta di stabilire il Maggiore Arnold, dedicandosi, con una cocciutaggine odiosa e persecutoria, più da musicofobo che da inquisitore, spregiatore di ogni forma minimamente corretta, volgare fino alla nausea, ma nella buonafede di un redivivo Javert in carne ed ossa, fanaticamente implacabile, per amor di giustizia (umanità e generosità non c’entrano), nel perseguitare, per i suoi peccati di gioventù, l’umanissimo e generoso Jean Valjean de “I miserabili”. E allora aggiungiamo che qui, il nostro ex Montalbano, che s’è assunto anche la responsabilità della regia, è straordinariamente convincente e ricco di sfumature espressive, capace, perfino, di insinuare un sospetto di innocenza e di timidezza in questo difficile personaggio, scorbutico e antipatico.
Massimo De Francovich è un Furtwängler di superba dignità interpretativa nella sua “torre eburnea” (da qui il titolo del dramma), conscio della propria grandezza d’artista (in realtà Furtwängler fu il più grande direttore d‘orchestra della sua epoca, forse superiore a Toscanini, a De Sabata, a Von Karajan, tutti presenti nei riferimenti drammaturgici). Tutti gli altri, ugualmente di grande eccellenza interpretativa: Paolo Briguglia (il tenentino critico nei confronti dei metodi di Arnold), Caterina Gramaglia (la modesta stenografa, figlia d’un eroe di guerra), Gianluigi Fogacci (infido verme opportunista), Francesca Ciocchetti (intensa e alterata vedova d’un pianista ebreo). Pubblico partecipe ed entusiasta. E moltissimi giovani. Bene.
Piccolo Teatro Strehler, Largo Greppi, Milano – Repliche fino a domenica 8 dicembre.

Due dolorosi casi psichici secondo Freud (e Lorenzo Loris) in scena all’Out Off

Milano. Patrizia Zappa Mulas interpreta all’Out Off un classico caso di isteria in “Prodigiosi deliri”.

Milano. Patrizia Zappa Mulas interpreta all’Out Off un classico caso di isteria in “Prodigiosi deliri”.

(di Paolo A. Paganini) “Prodigiosi deliri”, con Mario Sala e Patrizia Zappa Mulas, che Lorenzo Loris ha voluto mettere in scena e “analizzare” nella milanese sala dell’Out Off (un’ora e 15 senza intervallo), sfugge a un tradizionale giudizio critico, sia per la sua specificità scientifica, sia per una sua impossibile classificazione come genere teatrale. Lo spettacolo – per comodità continueremo a chiamarlo così – porta come sottotitolo “Ispirato a due studi di Sigmund Freud e Ludwig Binswanger”. Qui sorge la prima difficoltà interpretativa. Quali sono i confini dell’”ispirazione”? Spieghiamoci. Se si riproduce in laboratorio la sintomatologia di una situazione patologica, ciò rientra nella sperimentazione o nell’ispirazione?
Ebbene, qui, ora, nel “laboratorio” scenico dell’Out Off, è stata inscenata la simulazione di due pazzie, di due casi realmente studiati dai due studiosi del titolo. Non ispirazione, dunque, ma “scientifica” rappresentazione e analisi di due precisi casi clinici. Ed è talmente vero il nostro assunto che la programmazione dello spettacolo “Prodigiosi deliri” avrà come corollario, da qui a quasi tutto dicembre, una serie di specifici studi e di pertinenti letture a latere. Ci saranno primari di psichiatria (Leo Nahon), psichiatri (Sergio Contardi e Giovanni Sias), filosofi della Scienza (Stefano Moriggi), docenti di filosofia teoretica (Federico Leoni). E poi: letture e commenti di brani classici con attori e studiosi, da Laura Marinoni a Luca Ronconi, da Carlo Cecchi a Giorgio Fabbris ed altri.
Veniamo ai due casi in questione come ricaviamo dal programma di sala. Daniel Paul Schreber, presidente della Corte d’Appello di Dresda, figlio d’un rigido educatore, ebbe, a 51 anni, nel 1893, una grave crisi nervosa, che lo portò a un “prodigioso delirio”: sentiva voci, parlava con presenze divine e con fenomeni naturali, sognava una forma di ermafroditismo per concupirsi in copula autogena, in una delirante psicosi, che volle addirittura mettere per iscritto nei più reconditi e descrittivi particolari. Dell’importanza di questi scritti si accorse appunto Freud, e da questa descrizione (ispirazione?) ha preso l’avvio all’Out Off il monologo di Mario Sala. Semplicemente eccezionale: per stupefacente abilità mnemonica, per ancor più sbalorditiva velocità eloquiale, per capacità di calarsi in una attendibile mimesi paranoica. Il secondo monologo, in successione, vede Patrizia Zappa Mulas calarsi nella giovane Ellen West, distrutta fisicamente e mentalmente da problemi con il cibo e con la realtà. Il tremito, l’instabilità psichica, l’isteria allucinata sono realisticamente adottati dall’attrice, che ne fa una dolorosa e suggestiva partecipazione interpretativa, fino a una specie di tripudio dei sensi in una lucida esaltazione poetica, per concludersi subito dopo nel suicidio. Dolcissima e dolorosamente patetica. Ma dove vedeva l’aspetto comico qualche spettatore? Mah.
Repliche fino a domenica 22 dicembre.