A proposito di Enrico IV, il punto di Andrea Bisicchia sull’ossessione del nuovo a teatro.

Milano. Una scena di “Enrico IV” in scena al Teatro Litta con la regia di Alberto Oliva (foto Congiu)

Milano. Una scena di “Enrico IV” in scena al Teatro Litta con la regia di Alberto Oliva (foto Congiu)

Prendendo spunto dalla nostra critica dell’”Enrico IV” di Pirandello, in scena al Teatro Litta di Milano, con la regia di Alberto Oliva, da noi pubblicata in occasione della prima rappresentazione, Andrea Bisicchia, storico del teatro, saggista, docente universitario, responsabile culturale del Teatro Franco Parenti, ha voluto puntualizzare e chiarire una diffusa tendenza del teatro italiano sugli interventi dei registi, non sempre rispettosi dei testi originali.
Ecco qui di seguito il suo apprezzato contributo.


(di Andrea Bisicchia) Che le manifestazioni artistiche, per imporsi presso l’opinione pubblica, abbiano bisogno di ricorrere alla trasgressione, concepita come marchio di novità, è un fatto noto, meno noto è che trasgressione voglia dire creazione. Filosofi e, soprattutto sociologi, hanno cercato di teorizzare i motivi di simile scelta adducendo, come pretesto, le conseguenze della modernità (Antony Giddens), della postmodernità (Francois Lyotard), della ipermodernità e del consumo sfrenato (Gilles Lipovetsky). Tutti concordano nell’individuare le cause nello strapotere dell’effimero, nella ricerca dell’eccesso, della violazione delle regole, tanto che i giovani artisti ricorrono spesso alle contaminazioni o alla multidisciplinarietà, facendone un uso smodato.
Sono convinto che ogni artista, spinto dalla velocità, preferisca ricorrere al saccheggio, ma il più saccheggiato è il teatro, nel senso che oggi si vuol teatralizzare ogni istante della propria vita, tanto che si sale su un palcoscenico per raccontarla, magari non alla maniera di un reality. Accade che giudici, giornalisti, politici si improvvisino attori, in barba a quelli che hanno studiato nelle Accademie o nelle Scuole di teatro. La cosa più sconcertante è che si affidano a organizzatori, senza scrupoli per intraprendere delle vere e proprie tournée.
Poi c’è il saccheggio della terminologia, tanto che il politico diventa clown, mettendo in crisi la specificità del personaggio che, tradizionalmente, sa far ridere, oltre che piangere, ma che nell’uso fattone recentemente, diventa sinonimo di disprezzo. C’è inoltre una generazione di registi che usa la contaminazione senza avvedersi dei pasticci che ne conseguono. È accaduto con “L’olandese volante”, realizzato alla Scala, la cui natura leggendaria è stata letta in chiave anticapitalista, dato che il regista Andreas Homoki l’ha ambientata in una società commerciale di navigazione, al tempo del colonialismo, per non parlare dell’uso disinvolto dei costumi in recentissimi spettacoli di Filippo Timi per il suo “Don Giovanni” o di Alessandro Gassman, per il suo “Riccardo III”, dove tutto appare esagerato, anche nel trucco, tanto che i personaggi sembrano strizzare l’occhio a quelli del fumetto.
Le stesse osservazioni si possono fare a scapito delle contaminazioni musicali dove c’è di tutto e di più, o dell’uso della tecnologia utilizzata per proiettare lo spettacolo in uno scenario immateriale, ricorrendo ad un diverso contesto linguistico, dove la parola viene accantonata, deturpata, irrisa, per essere sostituita da una intensa espansione corporale o sensoriale, attraverso l’uso sofisticato di strumenti tecnologici, come se l’evento immateriale dovesse promuovere una nuova emotività rispetto all’evento reale, ma dove è fin troppo evidente una confusione di stili e di linguaggi, alla ricerca dell’estetizzazione della civiltà, piuttosto che di un testo che va rappresentato. Se non si riesce a distinguere la regia (fonte di creatività) dai registi di professione, artefici di questa confusione, il saccheggio potrà durare all’infinito.

Leo Gullotta e Eugenio Franceschini in un testo di Patroni Griffi. Prima del naufragio della parola

Milano. Leo Gullotta, intenso protagonista di “Prima del silenzio”, di Patroni Griffi, al Teatro Franco Parenti (foto di Tommaso Le Pera).

Milano. Leo Gullotta, intenso protagonista di “Prima del silenzio”, di Patroni Griffi, al Teatro Franco Parenti (foto di Tommaso Le Pera).

(di Paolo A. Paganini) Eugène Delacroix (1798-1863), pittore romantico francese, trasse impulso ed ispirazione dalla lettura di Shakespeare, oltre che da Goethe, da Byron e dall’amato Dante. Non può dunque stupire un suo intervento in materia teatrale. Ebbe a dire, forse, ma non ne sono sicuro andando a memoria, e comunque faccio mie le sue presunte osservazioni: “Per fare teatro sono sufficienti un tavolo e una candela”. Ora, assistendo all’interessante riesumazione di “Prima del silenzio” (1980), di Giuseppe Patroni Griffi, il riferimento a Delacroix è stato quasi automatico, vedendo in scena ancor meno di un tavolo e d’una candela, ma solo uno scalcagnato divano. Sembrerà perlomeno eccentrico parlare d’uno spettacolo cominciando dalla scena, ma l’incipit s’impone guardando a bocca aperta gli effetti scenici che con due trucchi (ma quanta fatica c’è dietro) ha escogitato la troupe scenica di Luca Scarzella (video), Umile Vainieri (disegno luci), Luca Filaci (risoluzione scenica), Franco Patimo (disegno audio), facendo rivivere, tra l’altro, in maxi-proiezione, le fantasmiche apparizioni sceniche di Sergio Mascherpa, Andrea Giuliano e Paola Gassman (grazie altresì alla mano sicura del regista Fabio Grossi).
I due trucchi che dicevamo sono di per sé semplicissimi: un fondale su cui proiettare le immagini e un corrispondente velo sul proscenio, e in mezzo l’azione scenica. Ora, trasferendo e dividendo l’immagine tra fondale e proscenio, l’effetto diventa straordinariamente tridimensionale e avvolgente. Vuoi un mare minaccioso di onde in burrasca? E sembrerà che si riversi in platea travolgendo gli attori. Vuoi un volo fra eteree leggerezze di nubi in quota? E ti sembrerà di volare. Entrambe le situazioni avvengono sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti, dove Leo Gullotta (un inquieto intellettuale di bianco pelo che tra ricchezza e libertà ha scelto la libertà) e Eugenio Franceschini (un giovane e scapestrato in errante ricerca di tanti perché) uniscono le loro vite per un tratto del loro tragitto terreno.
L’intellettuale ha lasciato moglie, figli, servitù, vita comoda, preferendo a una vita asfissiante una squallido ma felice stato adolescenziale, nel quale poter liberamente guazzare in disquisizioni sulla morte, sul senso del passato, sull’inutilità del presente, sulla castrazione delle convenzioni, sull’ipocrisia del perbenismo, solo elogiando, santificando diremo meglio, anzi innalzando un monumentale tributo alla parola, solo e unico viatico all’essenza della vita, salvifica sublimazione dell’esistenza stessa. “Parola, perché la vita non è soltanto un ricordo… La vita è parola… Parola per impedire la morte del passato…”
Orbene, in tempi di apnea verbale, di parole appese come vecchi stracci sulle grucce della banalità, di parole offese, violentate, sbrindellate, oggi più di trent’anni fa, il testo di Peppino Patroni Griffi, oltre che una testimonianza di fede, è un grido di dolore, un’invocazione, forse patetica e disperata in nome di una naufragata civiltà. Un voler resuscitare un antico verbo primigenio e creativo. Prima che arrivi il silenzio totale d’una distruttiva e definitiva barbarie. Lo spettacolo, di novanta minuti senza intervallo, s’intitola appunto: “Prima del silenzio”!
Leo Gullotta: un esemplare sacerdote della parola. Eugenio Franceschini (caspita che bravo!) invece vorrebbe solo un po’ di silenzio… Al vecchio intellettuale, ingenuo e illuso, non rimarrà che la solitudine. Un subisso di calorosissimi applausi alla fine.
“Prima del silenzio”, di Giuseppe Patroni Griffi, regia di Fabio Grossi. Teatro Franco Parenti, Via Pier Lombardo 14 – Milano. Repliche fino a domenica 2 febbraio.
Tournée
Dal 4 al 9 febbraio: Torino, Teatro Carignano.
Dal 13 al 16 febbraio: Forlì, Teatro Diego Fabbri.

La deformata realtà della follia vista, secondo Alberto Oliva, dalla mente malata di Enrico IV

Milano. Una scena di “Enrico IV” di Pirandello, regia di Alberto Oliva, al Teatro Litta (foto Gianni Congiu)

Milano. Una scena di “Enrico IV” di Pirandello, regia di Alberto Oliva, al Teatro Litta (foto Gianni Congiu)

(di Paolo A. Paganini) Si può sperimentare Pirandello? Come no. Tutto si può sperimentare. In questi ultimi tempi abbiamo visto ogni tipo di sperimentazione, Pirandello o Shakespeare o che altro fosse. Quasi nessun allestimento ne è immune. I registi (delirio di onnipotenza?) son presi da una forma di nevrosi creativa che li porta a reinventare qualsiasi sacro testo, a sperimentare, senza soggezione, qualsiasi classico. Ci si dovrà dunque ora scandalizzare perché il regista Alberto Oliva ha preso l’”Enrico IV” di Pirandello, rivoltandolo per bene secondo una personale prospettiva? E poi c’è da fare un’ulteriore digressione sul diritto alla sperimentazione, a seconda del grado di cultura e di passione che anima i pervicaci manipolatori di testi altrui. Alberto Oliva è un appassionato di teatro. Ed è anche uomo di cultura. E qui, dunque, nel giorno della perdonanza ha una prima assoluzione.
La seconda e definitiva assoluzione è un po’ più complessa, perché bisogna entrare nell’intima struttura della sua sperimentazione, che – per definizione, superato il periodo delle avanguardie – consiste nel cercare mezzi stilistici e linguistici diversi da quelli ereditati dalla tradizione.
Il nostro Enrico IV, essendo caduto da cavallo sbattendo la testa, e avendo indosso abiti medievali di carnevale, come gli altri amici della combriccola, risvegliandosi crede di essere l’antico imperatore di Germania. E siccome i matti han sempre ragione, tutti glielo lasciano credere. Per quasi vent’anni vivrà in questa sua dolce follia, circondato da comparse di servi e consiglieri in abiti curiali, finché un tentativo di guarigione, quando però, nel frattempo, già era diventato savio, lo farà tragicamente ripiombare nella follia.
Non finisce proprio così. Ma il regista Oliva accetta questa soluzione per un motivo che ne legittima le scelte.
Partendo dal punto di vista del personaggio Enrico IV, immagina che il mondo circostante sia visto come appare nella mente malata del poveretto. Esseri grotteschi, burattini di carne, immaginaria orgia di maschere secondo una consequenzialità di una logica deformata tutta personale, sono dunque scenicamente rappresentati come si suppone possano essere visti e vissuti da Enrico, che parimenti vede gli antichi amici (e qualcuno meno amico), che ora tentano di risvegliarlo, ahimè, dal suo schizofrenico stato mentale.
In un’ora e quaranta senza intervallo, l’assunto di Oliva è realizzato, sperimentato diremo dunque, con efficace e suggestivo utilizzo di esasperati suoni “mentali”, fra dissonanze e turbinio di decibel. Le scene di Alessandro Chiti, come paratie che si aprono scoprendo altri anfratti mentali, sono decisamente belle. Il punto debole di tutta l’operazione sta nella recitazione degli attori, più per scelte registiche, forse, che per limiti personali, anche se ormai l’uso della voce è diventata un’utopia, e a nessuno importa più un granché. Qui però, ora, o si disperde in rivoli di incomprensibilità o in una sguaiata gazzarra di grida disordinate. Ma, si dirà, così è nella mente del folle Enrico. E va be’, teniamola per buona. Come teniamo per buono un inutile sprazzo di virile nudità per il compiacimento visivo di timorate fanciulle o di altri guardoni.
Gli attori, che almeno nomineremo, sono da elogiare per la generosa accettazione di una recitazione in maschera, idea non nuova negli allestimenti pirandelliani: Mino Manni, Davide Lorenzo Palla, Giancarlo Latina, Daniele Nuotolo, Sonia Burgarello. Dovizia di applausi alla fine per tutti.
“Enrico IV” di Pirandello, regia di Alberto Oliva, al Teatro Litta, Corso Magenta 24, Milano. Repliche fino a domenica 16 febbraio.
Tournée
20-21 febbraio, Teatro Giacosa di Ivrea (TO);
23 febbraio, Teatro Verdi, Castel San Giovanni (Piacenza);
24 febbraio, Teatro Comunale di Cossato (Biella);
15 aprile, Teatro Nuovo Teatro da Udine, Udine.

Nella casa del padre arriva un satanasso che seduce tutte le donne di casa

Milano. Massimo Popolizio e Marco Foschi in una scena di “Visita al padre”, con la regia di Carmelo Rifici, al Piccolo Teatro Studio (foto Marasco)

Milano. Massimo Popolizio e Marco Foschi in una scena di “Visita al padre”, con la regia di Carmelo Rifici, al Piccolo Teatro Studio (foto Marasco)

(di Paolo A. Paganini) La vicenda è presto detta. Un figlio, dopo oltre vent’anni, fa visita alla casa del padre, un mediocre professore tutto dedito all’epica e vana traduzione dall’inglese dei dodici libri del “Paradiso perduto”, dove John Milton narrava la vendetta di Satana, portatore di morte e dannazione come pena per la disobbedienza del frutto proibito. Il figlio, che arriva non si capisce bene da dove, forse dall’America, non sarà un arcangelo Michele che annuncia, con la venuta del Messia, redenzione e salvezza. Sarà piuttosto un perfido Satana, assetato di vendetta, essendo il frutto illegittimo di una ragazza, sedotta a sedici anni dal nostro traduttore. Ora vuol fargliela pagare. Ma il padre, come un innocente Adamo, non sapeva nulla di questa paternità, che la giovane madre gli aveva sempre nascosto (e rivelata al figlio solo in punto di morte).
Ora, il già attempato genitore accoglie il giovane con ingenua e gioiosa ospitalità. Qui, nella casa del padre vivono la moglie, due figlie, una nipote, una professoressa in visita con figlia… Per farla breve, come la propria madre-bambina fu vittima di una seduzione, così ora verranno sistematicamente, scientificamente, freddamente, indifferentemente sedotte, giovani e meno giovani: una strage sessuale dell’harem paterno. Quando alla fine la tragedia incombe tra minacce di fucile e furor di coltelli, il giovane se ne andrà per sempre, lasciando dietro di sé dannazione e infelicità. Senza la speranza d’un Messia.
In quasi due ore e mezzo con un intervallo, “Visita al padre”, del quarantasettenne drammaturgo tedesco Roland Schimmelpfennig, al Piccolo Teatro Studio, è decantata come “l’identità negata delle nuove generazioni”, e recita, onesto e veritiero sottotitolo, “scene e bozzetti”. In realtà, mancando una logica narrazione sequenziale, non è un dramma, non una tragedia, non una commedia, non una satira. Dovrebbe essere, visto l’assunto, “teatro politico” o “teatro documento”: né l’uno né l’altro. Frantumato in una serie di performance con la vocazione del monologo, ne rivela tristemente la sindrome, risultando spesso una successione di sfoghi e di ragioni personali. E la tesi unitaria, sullo sbandamento dei giovani nell’isola delle sperdute identità, e degli anziani, incapaci di ricordare il passato e di vivere il presente, tesi unitaria e di drammatica attualità, che qui dovrebbe essere tenacemente sostenuta, e sostenente, si schianta frantumandosi in una congerie d’incandescenti spezzoni anche di possente e suggestivo impatto, ma spesso sfuggenti e incomprensibili, in questa maledetta acustica del Teatro Studio o in questa ormai incapacità attoriale di tirar fuori e sostenere la voce.
La regia di Carmelo Rifici è di ottima impostazione, grazie anche alle belle scene di Guido Buganza. Massimo Popolizio, maschio dominante scalzato dal figlio (Marco Foschi) e Anna Bonaiuto (la moglie) sono la terna (con)vincente di questo ambizioso allestimento. Generoso e partecipe il resto dell’harem: la molto concupita Alice Torriani, Sara Putignano, Mariangela Granelli, Caterina Carpio, Paola Bigatto. Calorosi applausi.
“Visita al padre”, di Roland Schimmelpfennig, regia di Carmelo Rifici. Piccolo Teatro Studio, Via Rivoli, Milano. Repliche fino a domenica 16 febbraio.