Alarico Salaroli e Marco Balbi: bravi, ma senza la follia di Cervantes non vanno da nessuna parte

Milano. Una scena di “Don Chisciotte - Opera Pop” al Teatro Menotti.

Milano. Una scena di “Don Chisciotte – Opera Pop” al Teatro Menotti.

(di Francesca Paganini) È notte, le saracinesche sono abbassate e mucchi di pneumatici sono sparsi sul palcoscenico. A rompere il silenzio è il richiamo disperato di Don Chisciotte alla ricerca del suo Sancio Panza, il quale naturalmente, vista l’ora, sta dormendo rannicchiato tra il suo ronzino e quelle ruote. Ma subito è pronto per il suo signore, pronto alle nuove avventure, alle nuove ingiustizie e ai nuovi soprusi da sanare. Peccato che quel viaggio non inizi mai, che quelle promesse non vengano mai mantenute, che la follia onirica che Cervantes ci descrive nella sua opera non divenga mai per noi sogno da desiderare. E anche quando le serrande si aprono su una locanda, dopo che una Vespa, sì, una vera moto rombante, ha ammorbato l’aria di pestilenziale gas di scarico (forse a ricordarci che siamo a Milano), lo spettacolo, a quel punto, si siede definitivamente e non va da nessuna parte. Peccato, perché il Don Chisciotte di Alarico Salaroli, attore di fine professionalità, avrebbe avuto tutti i numeri per innalzarsi sulle ali della follia visionaria di Cervantes. E Marco Balbi, altro grande della scena milanese, nelle vesti di Sancio, bene avrebbe potuto rendere la semplice, genuina e grossolana ammirazione per quel cavaliere così tristo ma affascinante. Ma testo e regia non li hanno serviti. Ed anche le musiche del pianista Alessandro Nidi avrebbero potuto contribuire alla follia in modo molto più originale, quando invece sono risultate abbastanza scontate. Si sono, comunque, distinti la cantante Helena Hellwig per la sua vocalità drammatica e comunicativa, la contrabbassista Francesca Li Causi e il chitarrista percussionista Enrico Ballardini (anche in brevi parti recitate). Regia e drammaturgia di Emilio Russo.

Lo spettacolo “Don Chisciotte – Opera Pop” (un’ora e trenta senza intervallo) sarà in scena al Teatro Menotti fino a giovedì 28 novembre.

Gara di primedonne a furor di risate, la Finocchiaro e la Monti, in “scena” al Teatro Manzoni

Milano. Maria Amelia Monti, Stefano Annoni e Angela Finocchiaro in “La scena” di Cristina Comencini, al Teatro Manzoni (foto Fabio Lovino).

Milano. Maria Amelia Monti, Stefano Annoni e Angela Finocchiaro in “La scena” di Cristina Comencini, al Teatro Manzoni (foto Fabio Lovino).


(di Paolo A. Paganini) Anche il termine “scena”, come la maggior parte delle parole italiane, può estendersi figurativamente ad altri significati. Non è solo il luogo dove si svolge un’azione teatrale, seppur con altre pertinenti espressioni, del tipo “mettere in scena”. Ma c’è anche “venire sulla scena del mondo” per la nascita d’un bimbo, o “uscir di scena”, come per esempio uscire dalla vita politica o, più drasticamente, tirar le cuoia. E, se qualcuno esagera in espressioni o comportamento, siamo pronti a dirgli “non fare tante scene”. E poi c’è “il colpo di scena” o l’amante che ti fa “una scenata” o “una scena di gelosia”. E nella cronaca nera si parla della “scena del delitto” o della “scena dell’incidente”…
Orbene, la regista e drammaturga Cristina Comencini ha messo in “scena”, al Teatro Manzoni, l’atto unico di ottanta minuti senza intervallo, intitolato “Scena”. E non sapremo fino alla fine di quale “scena” si tratta. (Ahimè, quante volte dovrò ancora nominare questa parola?) E va be’.
Ci sono due amiche, un’attrice e un’impiegata di rango, che in una non proprio maledetta domenica mattina provano la scena d’una commedia con la quale l’attrice dovrà debuttare l’indomani. Per una delle due è stata una levataccia (è stata una serata ad alto tasso alcolico e sessuale). Le due non più giovanissime amiche credono di essere sole, quand’ecco uscire dalla stanza dei bambini (in assenza settimanale essendo con il padre dopo la separazione dei coniugi) un giovane uomo mezzo nudo. A questo punto si apre uno “scenario” d’incredibili stravaganti imprevedibili sorprese e “colpi di scena” nella totale confusione del giovane in mutande, che non capirà chi è l’una chi è l’altra, in uno scambio di ruoli che lasciano anche nel pubblico qualche punto interrogativo. Anche perché il finale arriva troppo all’improvviso (qualche ritocco non sarebbe sprecato) e non si ha il tempo di capire se si tratta della prova di una… scena teatrale o della vita che ha messo in scena una sua sorprendente sopresa finale.
Lasciamo agli spettatori l’interpretazione di quale scena si tratti. In questo ameno e riuscitissimo gioco delle parti, in una scrittura finalmente godibilissima e intelligente dopo tanta barbarie generale, spiccano – ovviamente – una ironica Angela Finocchiaro, con quei suoi tempi teatrali sempre a segno, e una tenerissima Maria Amelia Monti in una stupenda gara di primedonne. Non stona fra le due qui navigate e sempre seducenti attrici, uno Stefano Annoni, che, ancorché in mutande, si muove con estrema dignità professionale. Grande meritato successo di pubblico in un subisso di risate e di applausi.

Si replica fino a domenica 24.

Crisi matrimoniale tra Laura Morante e Gigio Alberti al Teatro Grassi. Ma che fine avrà fatto la giovane amante?

TheCountryOR_Morante,Alberti(di Paolo A. Paganini) Una corrente drammaturgica inglese, in parte ispirata al teatro astratto dell’assurdo, tra Ionesco e Beckett, ha imposto uno stile, inizialmente controverso, che poi ha influenzato, tanto o poco, il repertorio teatrale di tutto il mondo occidentale con indiscussi risultati critici e di pubblico. Il drammaturgo londinese Harold Pinter (1930-2008) ne fu uno dei principali rappresentanti, con un suo originale garbo stilistico, incalzante ed esasperato, teso e incombente, tra vaghe minacce e oscuri terrori. Si giunse poi – gosso modo – alla esacerbata ed esplicita violenza di Sarah Kane (1971 – morta suicida nel 1999). Entrambi, Pinter e la Kane, hanno più volte trovato celebrazioni sceniche di successo anche in Italia. Ora, al Piccolo Teatro Grassi, l’ancor giovane drammaturgo inglese, Martin Crimp (1956), in quello stesso ricco humus di agri sapori, qui sopra accennati, gravidi d’un malessere sociale e individuale senza scampo, con un’umanità della media borghesia, senza esaltanti valori morali, senza slanci ideali, in una crisi di abissali vacuità, si presenta con “The Country”, un testo del 2000, ma con tutti i caratteri di una imbarazzante attualità.
La storia si impone più come pretesto dialettico per una faida sentimentale tra marito e moglie che non per un giustificato interesse narrativo, qui abbastanza pretestuoso e usato come miccia d’incombenti esplosioni emotive. Una giovane donna, trovata esanime sul ciglio della strada, o forse no, forse drogata, o forse solo disperata e storditamente innamorata tanto da perdere i sensi per chissà quale crisi nervosa, è portata in casa dal dott. Richard, suo amante, o forse no. Ma la ragazza improvvisamente scompare, lasciando aperte molte ipotesi: uccisa e fatta scomparire dal dottore? Fuggita alla ricerca di chissà quali rendenzioni? Allontanatasi per non distruggere la già vacillante unione dei due coniugi?
La vicenda a tre è interpretata con focosa passionalità da due superbe presenze femminili: Laura Morante, la moglie che si batte con strenua e sottile abilità dialettica per salvare il vacillante menage; Stefania Ugomari Di Blas, nome interessante (nondimeno la giovane attrice), amante d’impudica passionalità che difende il suo diritto all’amore. Fra le due si colloca con esemplare equilibrio recitativo, Gigio Alberti, marito povero di spirito e di cervello, sempre abile nel trovare alibi e scuse, in un perenne gioco di bugie e di ipocrisie. Regia attenta e misurata di Roberto Andò. Un atto unico di novanta minuti, con momenti di assoluta tensione. Ottimo successo di pubblico.

Si replica fino a domenica 17.

“Il mercante” di Shakespeare al Piccolo secondo Binasco (ma forse lui pensava di fare Goldoni)

MercanteVERT_Orlando_fotoCassin(di Paolo A. Paganini) “Il mercante di Venezia”, con molta approssimazione qui attribuito a un incolpevole Shakespeare, ma il (de)merito è tutto da assegnare al regista Valerio Binasco, possiamo sbrigativamente definirlo una patacca di successo. A solleticargli la pancia, il pubblico ci sta sempre. Per questa sgangherata ma coerente operazione ci si son messi l’Estate Teatrale Veronese, la Oblomov Films e il Teatro Stabile di Torino, insomma tanto rumore per nulla. L’errore di fondo nasce da un equivoco. Valerio Binasco ha preso Shakespeare, ma credeva di fare un Goldoni in chiave moderna in tuba e paglietta, con vecchi avari crudeli e autoritari, padri di fanciulle innamorate e non tanto timorose, giovani scioperati da bottega del caffè, fuitine con giovani vanesi, nobildonne travestite da Vispe Terese, con ancelle un po’ baldracche e un po’ maitresse, qualche vago sentore di mare, con navi alla deriva, come i sentimenti, e poi affari con moderna concezione di usura bancaria, amicizie equivoche, in un mondo senza valori, scroccone interessato e godereccio. Oggi, insomma. E qui dobbiamo per forza dare ragione a Binasco. Ma Shakespeare non c’entra.
Opera ambigua, più fariseicamente antisemita che moralmente impegnata sulle tante e molteplici ragioni sociali, religiose, ideologiche, tutta giocata su un cavillo finale da novello Azzeccagarbugli, “Il mercante di Venezia” si sviluppa almeno su tre piani: la storia tormentata d’un prestito di tremila ducati a uno spiantato perdigiorno per consentirgli d’impalmare una ricca fanciulla, l’amore contrastato di una ebrea per un giovane cristiano, il dramma di un onesto e generoso mercante che perde tutti i suoi traffici mercantili dopo essersi esposto a un prestito, che ora non può più onorare (salvo il debito mortale di una libbra della sua carne). Su tutto – parliamo sempre dell’opera di Shakespeare – giganteggia la straordinaria figura dell’ebreo usuraio Shylock, simbolo immortale e patetico d’un ricco poveraccio, senza fede, senza ideali, senza sentimenti, capace solo di far soldi con l’onestà di chi si crede nel giusto, perché, tutto sommato, sono gli altri che han bisogno di lui. In altre parole, attualizzando il ragionamento, chi è più responsabile: chi chiede un prestito a una banca, e poi non è più in grado di restituirlo, o la banca che poi, per tornare in possesso del capitale, ti pignora tutti i beni mandandoti sul lastrico? Basta.
Qui, ora, al Piccolo Teatro Strehler, in quasi tre ore di spettacolo con un intervallo, la figura centrale dell’usuraio Shylock è interpretata da un dimesso (e sommesso) Silvio Orlando (nella foto di Cassin), l’unico serio (e vagamente spaesato) in un coro di pazzi scatenati da commedia dell’arte, tutti bravi e così sbagliati, in questo capolavoro, senza più poesia, senza più tenerezze, indignazioni, atmosfere, ombre e luci, tutto giocato in plein air in una incredibile carnevalata, che a Verona, nell’estiva stagione del Teatro Romano poteva avere una sua giustificazione vacanzaiola (compresa l’autarchica scenografia), ma che ora avrebbe avuto bisogno di una più rigorosa e approfondita revisione. Successo incredibile di pubblico (dunque chi ha ragione?).

Si replica fino a domenica 24.