È morto Scaparro. Eclettico creatore di indimenticabili spettacoli, e reinventore del famoso Carnevale di Venezia

Deceduto oggi, nella sua casa romana, Maurizio Scaparro (Roma, 2 settembre 1932 – Roma, 17 febbraio 2023), regista di teatro, cinema e televisione, critico teatrale.
Fu l’ultimo grande personaggio di quel gruppo, di cui fu capostipite Strehler col Piccolo di Milano, facendo nascere, nel dopoguerra, il teatro pubblico e la moderna regia in Italia.
Direttore del Teatro di Roma (1983-1990); poi commissario straordinario dell’Eti, direttore dell’Olimpico di Vicenza, direttore del Teatro Eliseo di Roma (1997-2001), della Biennale Teatro di Venezia; direttore, a Parigi, del «Theatre des Italiens» e direttore della sezione spettacoli dell’Expò di Siviglia del 1992. Inoltre, proprio ora, in occasione del Carnevale di Venezia, Scaparro è da ricordare come il reinventore del celebre carnevale della Laguna, quando è stato direttore della Biennale Teatro dal 1979 al 1982 (e dove tornerà dal 2006 al 2009).
Domenica mattina 19 febbraio verrà ricordato al Teatro Argentina, dove sarà allestita la camera ardente.

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Maurizio Scaparro dedicò la propria vita a dar corpo al suo sogno teatrale: rendere l’utopia tangibile sostanza dello spirito, l’utopia come veste nobile della realtà. Non solo nel campo della prosa. Come regista ha infatti percorso diverse utopie. Tra le sue virtuose abilità gli vanno riconosciute anche alcune sottigliezze politiche, che seppe utilizzare in una fine sapienza organizzativa e in un entusiasmo duttile, multiforme e fanciullesco.
Ha firmato una settantina di eclettiche opere teatrali, dal classico al moderno, molte delle quali semplicemente memorabili.

Tra queste almeno ricorderemo:
“Amleto” (1972-1975) con Pino Micol,
La «Venexiana» (1984), di anonimo cinquecentesco, con Valeria Moriconi e Franco Iannuzzo,
“Fatto di cronaca”, di Raffaele Viviani (1987),
“Vita di Galileo” (1988) con Pino Micol,
“Memorie di Adriano” (1989) con Giorgio Albertazzi, 
“Excelsior” (1993) con Massimo Ranieri,
“Le mille e una notte” (1996) con Massimo Ranieri,
“Don Giovanni cantato e raccontato dai comici dell’arte” (2001) con Peppe Barra e Giacinto Palmarini,
“Turandot” 2010, e riprese successive, per il Festival Puccini a Torre del Lago,
“La coscienza di Zeno” (2013) con Giuseppe Pambieri.

Scaparro sfornò una incredibile sfilza di avventurosi successi, dal teatro pubblico al privato, in Italia e in Europa, ma ha anche espresso il suo inquieto estro registico in una ventina di regie liriche e una trentina di regie televisive e quattro cinematografiche, per non parlare della sua stupefacente abilità di inventore di avvenimenti, come la rinascita del Carnevale di Venezia nell’80, che da solo basterebbe a riserbare a questo inquieto vagabondo dell’anima, instancabile facitore di illusioni teatrali, un posto fra i grandi “illusionisti” dello spettacolo.
L’utopia, in fondo, come insostituibile immaginario di felicità. (p.a.p.)

La pazzia come stratagemma. E Pirandello ci gioca per indagare il labirinto di specchi delle nostre anime smarrite

BAGNACAVALLO (Ravenna), sabato 4 gennaio ► (di Andrea Bisicchia). Prima dell’aprirsi del sipario, si sente la voce di Geppy Gleijeses, regista di “Così è, se vi pare”, che cita brani di “Personaggi”, confluiti nella novella “Tragedia di un personaggio”, in cui Pirandello dice di dare udienza, dalle ore nove alle dodici, ai “signori personaggi delle sue novelle”, certi tipi “gabbati, disillusi, mezzi matti”.
Tra questi c’è il dottor Fileno, scopritore del metodo del cannocchiale rovesciato che rende “piccolo e lontano il presente”.
La regia di Gleijeses parte proprio da qui, come si può notare, ad apertura del sipario, quando i personaggi che si trovano in casa Agazzi, si presentano come piccoli ologrammi tridimensionali, organizzati dal video-artist Michelangelo Bastiani che, attraverso un apparato luminoso, li rende piccoli uomini feroci, alti circa cinquanta centimetri, che dibattono, con una recitazione volutamente meccanica, sul mistero che sta dietro la famiglia, formata dal Signor Ponza, dalla sua Signora e dalla Signora Frola, arrivati nella nuova destinazione, dopo la tragedia del terremoto che aveva distrutto la loro abitazione e, raso al suolo, il paese.
Quei piccoli personaggi riprenderanno la loro altezza e le loro fattezze all’arrivo della Signora Frola, annunziata sempre dalla voce di Gleijeses, che cita la didascalia: “È una vecchietta linda, modesta, affabilissima, con una grande tristezza negli occhi, ma attenuata da un costante dolce sorriso sulle labbra”.
Su questa didascalia, Gleijeses ha costruito la recitazione di Milena Vukotic, applauditissima dal pubblico del Teatro Goldoni di Bagnacavallo, completamente esaurito, dove lo spettacolo ha debuttato, in prima nazionale.
Il regista, oltre che guidare una numerosa compagnia, puntando sulla recitazione, più che al problema dell’identità, ha indirizzato la sua “lettura”, verso quello della verità e della pazzia, il relativismo della prima è sottolineato da un labirinto di specchi, nei quali i personaggi vedono il proprio doppio e da un distaccato e sarcastico Laudisi, interpretato con consapevolezza e padronanza da Pino Micol, che non si diverte a filosofeggiare, ma a rinfacciare, ai presenti, il loro vacuo accanimento nel voler conoscere la verità.
Le persone, venute in casa Agazzi, sono trattate da Gleijeses come un Coro che recita, spesso all’unisono, e che si diverte a capire se il pazzo sia il Signor Ponza, interpretato con tanto dolore e commiserazione da Gianluca Ferrato, anche quando dovrà simulare una specie di follia con una recita artatamente isterica. Il solo che non si appassiona è Laudisi, che vive quella “stranezza” con distacco epico.
In verità, Pirandello, utilizza la pazzia, non come patologia, ma come mezzo drammaturgico, oltre che come elemento d’indagine, per vedere come reagisca la società dei salotti borghesi dinanzi a un fatto così strano, come lo definiscono più volte il consigliere Agazzi e la signora Sirelli.
Il regista ha capito che Pirandello utilizza la pazzia come puro stratagemma, per dimostrare l’infondatezza di una verità assoluta e per giustificare il labirinto di specchi visto come il labirinto delle nostre anime quando non sono a posto con la propria coscienza.
Anche il pubblico del Goldoni, alla fine dello spettacolo, sembrava incerto e, nello stesso tempo, voluttuoso, nel voler capire da che parte stia la verità essendo, come dirà la Signora Ponza: “Sono colei che mi si crede”.

Teatro Goldoni di Bagnacavallo, lo spettacolo “Così è (se vi pare)”, regia di Geppy Gleijeses, interpretato da Milena Vukotic, Pino Micol (nella foto sopra) e Gianluca Ferrato.

TOURNÉE
7 febbraio: Teatro Cagnoni, Vigevano (PV);
10 febbraio: Teatro Fedele Fenaroli, Lanciano (CH);
22 febbraio: Teatro Verdi, San Severo (FG);
23 febbraio: Teatro Traetta, Bitonto (BA);
Dal 24 al 26 febbraio: Teatro Curci, Barletta (BT);
Dal 28 febbraio al 2 marzo: Teatro Comunale, Thiene (VI);
Dall’8 al 12 marzo: Teatro Gioiello, Torino;
14 marzo: Nuovo Teatro Verdi, Brindisi;
16 marzo: Fonderia Leopolda, Follonica (GR);
19 marzo: Teatro Alessandrino, Alessandria;
1 e 2 aprile: Teatro Garibaldi, Figline Valdarno (FI);
Dall’11 al 23 aprile: Teatro Quirino, Roma.

Fischiati alla Scala “I Vespri siciliani”. Come rovinare un’opera, forse non brutta. Basta ascoltarla a occhi chiusi

MILANO, giovedì 2 gennaio ► (di Carla Maria Casanova)I Vespri siciliani alla Scala. Fischiati. Doverosamente. In 70 anni, la Scala li ha messi in cartellone 3 volte. Forse questa grande oculatezza un motivo l’avrà. Però quella prima volta, nel 1951, diretti da de Sabata, furono un avvenimento. Dettaglio: lanciarono Maria Callas, al suo debutto scaligero (non contando le sparute repliche di Aida dell’aprile 1950). Callas che, della grande aria Mercè dilette amiche, fece un evento epocale. Poi nel 1970, I Vespri furono diretti da Gavazzeni, con un cast stellare: Piero Cappuccilli, Gianni Raimondi, Ruggero Raimondi, Renata Scotto/Leyla Gencer. Infine nel 1989, direttore Riccardo Muti, regia scene e costumi Pier Luigi Pizzi, cast: Giorgio Zancanaro, Ferruccio Furlanetto, Chris Merrit, Cheryl Studer.
Ci sembrarono tutti begli spettacoli e I Vespri persino una bella opera. Mah.
Intendiamoci, di questi Vespri in scena adesso alla Scala non è da dire: sono una schifezza, non andateci. Andateci pure, ma a un patto, se volete assicurarvi un minimo di godimento. A patto cioè, 1) di indossare una mascherina (non quelle prescritte dalle sanzioni Covid. Una bella mascherina sugli occhi, come si mettono in aereo per non essere disturbati dalla luce, e, patto 2) – di non ascoltare assolutamente quello che cantano né cercare di capire cosa succede, qual è la storia ecc. Mettersi cioè lì e ascoltare la musica. A parte il primo atto noiosetto, si può godere.
Gli atti sono 5, qui divisi in tre parti: primo e secondo, terzo e quarto, quinto. Con due intervalli. La ripartizione è squilibrata in quanto l’ultimo atto è brevissimo, né se ne capisce l’utilità, dato che tutto finisce con il quarto: e vissero felici e contenti. Se non fosse per quel colpo di scena finale che azzera tutto, per concludere nella solita tragedia. E poi c’è il “Mercè dilette amiche” culmine dell’intera partitura, ed anche un duetto tenore-baritono, davvero non male. Insomma, l’ultimo atto ci deve stare.
La storia ha connotazioni storiche precise già espresse dal titolo: si tratta di moti scoppiati in Sicilia nel XIII secolo contro gli usurpatori Angioni. Eugene Scribe e Charles Duveyrier ne scrissero il libretto rifacendosi a quello mai andato in porto de Le Duc d’Albe.
Per Verdi I Vespri erano il suo ventesimo titolo, preceduto di poco dalla celebre triade Rigoletto, Trovatore e Traviata che lo aveva reso famoso. Allargare la fama al pubblico francese era suo grande desiderio e l’occasione di una commissione per Parigi fu accolta con entusiasmo. Per uniformarsi al vigente stile francese, occorreva un grand’opera. Verdi seguì meticolosamente la stesura del libretto, portando numerose modifiche. L’opera, Les Vêpres siciliennes, data in francese, ottenne grande successo (1855). Poi ci furono problemi politici quando Les Vêpres vennero portati in Italia, tradotti in italiano, perché varie alleanze erano cambiate. Anzi, si dovette aspettare l’Unità d’Italia del 1861.
Per quanto riguarda la storia, sappiamo che il melodramma non è il luogo da cui aspettarsi un minimo di sensatezza, ma qui si rasenta l’intollerabile. La forza del destino, in confronto, è una fiaba per bambini. Da dove l’urgenza di non voler assolutamente entrare in merito a niente di quanto succede in palcoscenico, quando ci si pone all’ascolto dei Vespri.
Risalendo al patto n 1) – cioè al consigliato uso della mascherina – lo spettacolo scenico è da dimenticare. L’amico Hugo de Ana, di fama internazionale, ha prodotto messe-in-scena insigni. Basterebbe quella Turandot allo Sferisterio di Macerata (anni ’80)) per fare di lui un grande. Ma qui qualcosa gli ha dato alla testa. Tramutare la Sicilia del XIII secolo in una situazione bellica dell’attuale conflitto in Ucraina è già una trovata piuttosto banale, ma più grave ne è la realizzazione: una carrellata di immagini monocolori (cioè grigio-nere) che si dipana sul supporto di tralicci, passerelle e quinte nere. Soldati con elmetto e fucili sempre spianati e il coro dei siculi anche loro tutti in grigio-nero.  Fanno da sfondo, ma taluni vengono in primo piano, dei massicci carri armati. Mai visto a teatro nulla di più deprimente. Per non parlare di quel gruppo scultoreo che appare durante il duetto tra padre e figlio e che rappresenta un dolente Ecco Homo e poi un Cristo risorto. Infine, quando interviene il balletto (in origine si faceva una bella pausa al 3 atto e si ballavano Les saisons per tirar su il fiato) si assiste a una coreografia insulsa ed esagitata con uomini e donne saltellanti che mimano i gesti degli antichi egizi. Sì, nell’ultimo atto c’è un grande albero argenteo, ma chi se ne importa, oramai il male è fatto. Insomma, per voler sentire almeno la musica, che offre momenti piacevoli, si impone l’eliminazione del deterrente visivo. Che poi, siamo sinceri, nemmeno l’esecuzione è ottimale. L’orchestra sembra svogliata (nel primo atto certamente). Fabio Luisi sul podio non pare particolarmente attratto dalla partitura. I personaggi principali sono quattro: Giovanni da Procida, basso; Guido di Monforte, baritono; Arrigo, tenore; la duchessa Elena, soprano. Il sanguinario Procida è il coreano Simon Lim, piuttosto scialbo. Ha buttato via la sua aria “O tu Palermo”, usualmente degna di qualche emozione. Il cattivo Guido di Monforte, che poi è un sentimentalone pronto a cedere onore e potere per sentirsi chiamare papà, è Luca Micheletti che di suo fa anche il regista iniziando a collaborare con Ronconi, è un artista interessante con voce sicura e ottima formazione anche scenica. Arrigo, l’infelice eroe dilaniato tra il decidersi se salvare la Patria, convolare con l’amatissima Elena o denunciarsi figlio del “nemico” Monforte e quindi perdere Paese, amata e onore, questo povero Arrigo eroe mancato, perde naturalmente tutto, stritolato dalle incresciose situazioni. Lo interpreta Piero Pretti, di carriera oramai internazionale. Ha uno squillo limpido e preciso e si regge su una dizione accurata. Nel cast dei Vespri, è il migliore. E c’è Elena, interpretata dalla bella e nota artista lettone Marina Rebeka, già conosciuta alla Scala. Ma nei Vespri non so, la voce è parsa spesso metallica, priva di spessore. Il Mercè dilette amiche privato delle vorticose agilità che avevano reso sublime la Callas.
E allora facciamola finita con questi Vespri.
Dopo la prossima, ennesima Bohème (dove la Rebeka, nei panni di Mimi, dovrebbe essere a suo perfetto agio) aspettiamo con ansia Les Contes d’Hoffman, in marzo. Sempre sperando che David Livermore non si lasci andare anche a lui a qualche invereconda stravaganza.

Repliche dei “Vespri”: 8, 11, 14, 17, 21. L’opera, data nella versione italiana, inizia alle 19 e termina alle 22,40.

“La finta semplice” di Mozart dodicenne. Durava 4 ore. Ora è un gioiello di due ore e mezzo. Un impagabile godimento

FIRENZE, mercoledì 25 gennaio ► (di Carla Maria Casanova) Era il 1767. Già che Mozart si trovava a Vienna con il padre Leopoldo e dava prova di straordinarie doti musicali da tutti riconosciute, Giuseppe II imperatore d’Austria gli commissionò un’opera. Si trattava del dramma giocoso in tre atti “La finta semplice” su libretto di Carlo Goldoni, rielaborato da Marco Coltellini. Mozart prese la commissione molto sul serio e incominciò a comporre. Ci mise dentro tutto quello che sapeva, raggiungendo una lunghezza spropositata: quasi 4 ore.
Dimenticavo: Mozart aveva 12 anni.
Alla notizia di questo incarico al giovanissimo compositore, l’ambiente musicale viennese si inalberò, si offese addirittura. Cos’era, uno scherzo? Tanto si agitarono che l’andata in scena slittò di due anni e avvenne a Salisburgo e non a Vienna. Oramai di anni Mozart ne aveva ben 14.
Oggi, per la prima volta, “La finta semplice” appare a Firenze, in apertura del Carnevale del Maggio ed è ospitata al Teatro Goldoni, incantevole teatrino inaugurato dal Granduca di Lorena nel 1817. È purtroppo poco usato. (Una inaugurazione in tempi moderni avvenne, dopo restauro, nel 1998, con l’Orfeo di Monteverdi. Lo spettacolo, inventato da Luca Ronconi, fu una operazione titanica, ai limiti della follia: la platea venne allagata: circa 40 mila litri d’acqua – non dico i problemi del peso! – per farci sorgere nel mezzo un’isola coperta da un verde prato. Conseguenza: tolta la disponibilità della platea, la capienza del teatro si limitava ai 170 spettatori dei palchi. Le recite furono 8.
La finta semplice” andata in scena ieri sera (repliche 26, 28, 29 gennaio) ha subìto sostanziosi provvidenziali tagli soprattutto nei recitativi, per la onesta durata complessiva di due ore e 30, compreso un intervallo. L’entusiasmo giovanile di Mozart aveva persino ipotecato tre finali, ed eseguire l’opera integrale sarebbe stato un po’ provante. Invece così è un gioiello. Un piccolo capolavoro? Sia. Intendiamoci, non è ha l’aulica grandiosità di Idomeneo né le astuzie tecniche di Così fan tutte e tanto meno la tragica potenza di Don Giovanni… Però il taglio musicale è di estrema gradevolezza e dà l’ennesima prova della strepitosa genialità di questo ragazzo che, ai limiti dell’adolescenza, già padroneggia con disinvoltura gli stilemi dell’opera buffa italiana, aggiungendo una personale impronta briosa e spumeggiante. Sono note che sorridono, quando non ridono addirittura. Ascoltarla è un godimento.
La storia naturalmente è, perdonate, cretina (ho detto a iosa che l’opera buffa mi dà sui nervi), né merita di soffermarcisi sopra. Il titolo già lascia immaginare la trama, oltre tutto di particolare complicazione. I personaggi sono 7 e, dice a ragione il direttore viennese Theodor Guschlbauer specialista del repertorio mozartiano, si tratta di 7 protagonisti. Forse in nessun’altra opera mozartiana tutti gli interpreti sono così seriamente impegnati. Anche perché cantano spesso insieme – quintetti, “settetti” (si dice?) – offrendo una prova quasi corale. E poiché in questa operazione sono impegnati i giovani dell’Accademia, alcuni addirittura debuttanti, mi sembra doveroso nominarli tutti: Eduardo Martìnez Flores, Lorenzo Martelli, Xenia Tziouvaras, Rosalia Cid, Luca Bernard, Davide Piva, con eccezione e riguardo particolare per Benedetta Torre (Genova 1994), la quale copre il ruolo del titolo, ed è considerata tra le migliori interpreti mozartiane della sua generazione.
L’anziano direttore Theodor Guschlbauer, forte della sua esperienza formatasi sotto la guida di Swarovski, von Matacic, Karajan, e dei successivi prestigiosi incarichi internazionali (nel 2022 ha diretto al Maggio Le nozze di Figaro) ha guidato i 25 elementi dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino regalando una esecuzione lieve eppure grintosa, felice, come se quella musica fosse stata scritta da un consumato professionista.
Lo spettacolo è portato in scena dalla regista tedesca Claudia Bersch – debuttante a Firenze – che ne ha fatto una sorta di pot-pourri, con tre personaggi storici fissi (Mozart bambino e genitori) e il resto del cast in abiti attuali. Si muovono tutti sulla costruzione scenica degli studenti del Triennio di Scenografia NABA, Nuova Accademia di Belle Arti guidata da Margherita Palli (per intenderci, la storica collaboratrice di Ronconi). E la mano della Palli esce qua e là, a garantire la estrosa provenienza del gruppo. Per esempio nella trovata del finale (foto sopra), con la protagonista che se ne va in carrozza, dove a rappresentare il calesse è una cornice che inquadra la dama con un movimento ondulatorio a simulare l’andatura del veicolo mentre i due sposi-mancati (i fratelli – gentiluomini sciocchi -) tramutati da asini dalle lunghe orecchie, sono al traino della carrozza stessa, imbrigliati dalle redini della trionfante Finta semplice.
Lo spettacolo piace. Vigorosi applausi per tutti.