L’ex Commissario Montalbano indaga sui presunti crimini del grande musicista Furtwängler

Milano. Massimo De Francovich e Luca Zingaretti in una scena di “La torre d’avorio”, di Ronald Harwood, al Piccolo Teatro Strehler (foto Buscarino)

Milano. Massimo De Francovich e Luca Zingaretti in una scena di “La torre d’avorio”, di Ronald Harwood, al Piccolo Teatro Strehler (foto Buscarino)

(di Paolo A. Paganini) Luca Zingaretti, sul pascoscenico del Piccolo Teatro Strehler, voleva far dimenticare il celebre Commissario Montalbano della fortunata serie televisiva di Camilleri? Missione compiuta. Nel dramma “La torre d’avorio”, di Ronald Harwood (debutto a Londra nel 1995 regia di Pinter, e poi sul grande schermo, 2002, regia Istvan Szabò), Zingaretti sostiene il ruolo del Maggiore Steve Arnold. Incaricato dal comitato americano per la denazificazione, dopo la fine della guerra, nel 1945, deve stabilire se, fra tanti altri fiancheggiatori inquisiti, più o meno compromessi con il nazismo, anche il famoso direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, amato da Hitler, caro a tutti i gerarchi, avesse avuto responsabilità politiche come occulto e mai dichiarato sostenitore dei crimini nazisti.
Teatro inchiesta, affascinante dramma di parola, “La torre d’avorio”, nei due atti di quasi un’ora ciascuno, tiene inchiodati gli spettatori in platea in una tensione emotiva ad alto voltaggio, mentre il Maggiore Arnold tenta a sua volta d’inchiodare il celebre direttore d’orchestra alle sue presunte responsabilità. Né sembrano avere importanza le testimonianze a favore di Furtwängler a dimostrazione dei tanti aiuti da lui dati a molti ebrei, così salvandoli dalle camere a gas. Per il tenace Maggiore erano solo alibi e copertura della sua cattiva coscienza.
Ma, al di là della vicenda reale, l’avvincente dibattito teatrale sta, soprattutto, su due punti fondamentali, uno pregiudiziale, l’altro morale. L’aspetto pregiudiziale è nella domanda, implicita e non dimostrata: Furtwängler non sapeva o non voleva sapere? La risposta riposa in aeternum nella coscienza del direttore d’orchestra. Ma è il punto morale, quello fondamentale, quello più intrigante, sul quale può calare non il giudizio della Storia ma l’opinione di ciascuno di noi. Vale a dire: quando tanti intellettuali, tanti artisti tedeschi, dopo il 1933, preferirono lasciare la Germania, o per evitare persecuzioni o per non avere niente a che fare con il nazismo, lui, Furtwängler, perché preferì rimanere in patria? La musica, la grande musica del repertorio romantico, di Beethoven, di Brahms, di Bruckner, soprattutto di Wagner, sotto la direzione di Furtwängler, già direttore del Gewandhaus di Lipsia e poi del Berliner Philarmoniker, era da considerarsi fiore all’occhiello del nazismo o diritto dell’artista di poter considerare l’arte separata dalla politica?
La musica, viatico consolatorio di elevazione spirituale, era dunque la religione laica che non solo giustificava ma gli imponeva, come dovere morale, di rimanere nella sua terra per continuare a dare una sublimazione liberatoria, al di là delle patrie, al di là della patria, nell’empireo della bellezza musicale, in un oblio lontano dalle atrocità quotidiane, svincolato dai crimini nazisti? La musica, con i suoi ideali attributi di purezza e innocenza, può convivere ed essere superiore al clima del terrore alla violenza politica, o poteva, involontariamente o forse consciamente, essere ritenuta complice, colpevole, corresponsabile?
È ciò che tenta di stabilire il Maggiore Arnold, dedicandosi, con una cocciutaggine odiosa e persecutoria, più da musicofobo che da inquisitore, spregiatore di ogni forma minimamente corretta, volgare fino alla nausea, ma nella buonafede di un redivivo Javert in carne ed ossa, fanaticamente implacabile, per amor di giustizia (umanità e generosità non c’entrano), nel perseguitare, per i suoi peccati di gioventù, l’umanissimo e generoso Jean Valjean de “I miserabili”. E allora aggiungiamo che qui, il nostro ex Montalbano, che s’è assunto anche la responsabilità della regia, è straordinariamente convincente e ricco di sfumature espressive, capace, perfino, di insinuare un sospetto di innocenza e di timidezza in questo difficile personaggio, scorbutico e antipatico.
Massimo De Francovich è un Furtwängler di superba dignità interpretativa nella sua “torre eburnea” (da qui il titolo del dramma), conscio della propria grandezza d’artista (in realtà Furtwängler fu il più grande direttore d‘orchestra della sua epoca, forse superiore a Toscanini, a De Sabata, a Von Karajan, tutti presenti nei riferimenti drammaturgici). Tutti gli altri, ugualmente di grande eccellenza interpretativa: Paolo Briguglia (il tenentino critico nei confronti dei metodi di Arnold), Caterina Gramaglia (la modesta stenografa, figlia d’un eroe di guerra), Gianluigi Fogacci (infido verme opportunista), Francesca Ciocchetti (intensa e alterata vedova d’un pianista ebreo). Pubblico partecipe ed entusiasta. E moltissimi giovani. Bene.
Piccolo Teatro Strehler, Largo Greppi, Milano – Repliche fino a domenica 8 dicembre.

Due dolorosi casi psichici secondo Freud (e Lorenzo Loris) in scena all’Out Off

Milano. Patrizia Zappa Mulas interpreta all’Out Off un classico caso di isteria in “Prodigiosi deliri”.

Milano. Patrizia Zappa Mulas interpreta all’Out Off un classico caso di isteria in “Prodigiosi deliri”.

(di Paolo A. Paganini) “Prodigiosi deliri”, con Mario Sala e Patrizia Zappa Mulas, che Lorenzo Loris ha voluto mettere in scena e “analizzare” nella milanese sala dell’Out Off (un’ora e 15 senza intervallo), sfugge a un tradizionale giudizio critico, sia per la sua specificità scientifica, sia per una sua impossibile classificazione come genere teatrale. Lo spettacolo – per comodità continueremo a chiamarlo così – porta come sottotitolo “Ispirato a due studi di Sigmund Freud e Ludwig Binswanger”. Qui sorge la prima difficoltà interpretativa. Quali sono i confini dell’”ispirazione”? Spieghiamoci. Se si riproduce in laboratorio la sintomatologia di una situazione patologica, ciò rientra nella sperimentazione o nell’ispirazione?
Ebbene, qui, ora, nel “laboratorio” scenico dell’Out Off, è stata inscenata la simulazione di due pazzie, di due casi realmente studiati dai due studiosi del titolo. Non ispirazione, dunque, ma “scientifica” rappresentazione e analisi di due precisi casi clinici. Ed è talmente vero il nostro assunto che la programmazione dello spettacolo “Prodigiosi deliri” avrà come corollario, da qui a quasi tutto dicembre, una serie di specifici studi e di pertinenti letture a latere. Ci saranno primari di psichiatria (Leo Nahon), psichiatri (Sergio Contardi e Giovanni Sias), filosofi della Scienza (Stefano Moriggi), docenti di filosofia teoretica (Federico Leoni). E poi: letture e commenti di brani classici con attori e studiosi, da Laura Marinoni a Luca Ronconi, da Carlo Cecchi a Giorgio Fabbris ed altri.
Veniamo ai due casi in questione come ricaviamo dal programma di sala. Daniel Paul Schreber, presidente della Corte d’Appello di Dresda, figlio d’un rigido educatore, ebbe, a 51 anni, nel 1893, una grave crisi nervosa, che lo portò a un “prodigioso delirio”: sentiva voci, parlava con presenze divine e con fenomeni naturali, sognava una forma di ermafroditismo per concupirsi in copula autogena, in una delirante psicosi, che volle addirittura mettere per iscritto nei più reconditi e descrittivi particolari. Dell’importanza di questi scritti si accorse appunto Freud, e da questa descrizione (ispirazione?) ha preso l’avvio all’Out Off il monologo di Mario Sala. Semplicemente eccezionale: per stupefacente abilità mnemonica, per ancor più sbalorditiva velocità eloquiale, per capacità di calarsi in una attendibile mimesi paranoica. Il secondo monologo, in successione, vede Patrizia Zappa Mulas calarsi nella giovane Ellen West, distrutta fisicamente e mentalmente da problemi con il cibo e con la realtà. Il tremito, l’instabilità psichica, l’isteria allucinata sono realisticamente adottati dall’attrice, che ne fa una dolorosa e suggestiva partecipazione interpretativa, fino a una specie di tripudio dei sensi in una lucida esaltazione poetica, per concludersi subito dopo nel suicidio. Dolcissima e dolorosamente patetica. Ma dove vedeva l’aspetto comico qualche spettatore? Mah.
Repliche fino a domenica 22 dicembre.

Scarpetta ovvero l’irresistibile tentazione della farsa (con un eccezionale primo tempo)

Milano. Una scena di “Miseria e nobiltà” di Eduardo Scarpetta, al Franco Parenti... Dopo tanta fame, finalmente arrivano gli spaghetti (foto Federico Riva).

Milano. Una scena di “Miseria e nobiltà” di Eduardo Scarpetta, al Franco Parenti… Dopo tanta fame, finalmente arrivano gli spaghetti (foto Federico Riva).


(di Paolo A. Paganini) Dai gloriosi lombi del teatro comico napoletano, discese, fin dal Cinquecento, una robusta progenie di avventurose e spericolate “maschere”, protagoniste d’una drammaturgia che, su su per la Penisola, seppe anche valicare le Alpi verso successi non solo nostrani. A Napoli nacque Pucinella, furbo e cialtrone. Quando, dopo più di tre secoli, Antonio Petito ne celebrò per l’ultima volta le gesta, lasciò a Eduardo Scarpetta (1853-1925) il testimone d’una comicità, che l’attore e drammaturgo napoletano fece rivivere nei panni d’un non meno celebre Felice Sciosciammocca. Ora Geppy Gleijeses lo sta scarrozzando per l’Italia. Con lui, in uno scatenato divertissement, c’è anche Lello Arena, altrettanto vetusto di glorie comiche fin dagli anni 70, quando con Massimo Trosi e Enzo Decaro, inventò “La Smorfia”, trio comico di non dimenticata presenza cabarettistica anche sul piccolo schermo. Ora, Geppy e Arena sono sulla scena del milanese Franco Parenti, con “Miseria e nobiltà”, la più celebre e originale commedia di Scarpetta, tra l’altro inesausto facitore di farse, ispirate a pochades, a vaudevilles francesi e a canovacci goldoniani, compresa questa “Miseria e nobiltà”, storia di non molto nobili miserie e di molto miserevoli nobiltà.
I due tempi (uno di cinquanta minuti e l’altro di 55), con la regia – disomogenea – di Geppy Gleijeses, sono stati in realtà due modi antitetici e squilibrati di concepire questo allestimento. Il primo tempo risente delle cupe atmosfere più di Raffaele Viviani che di Scarpetta. Tutti gli attori sono a vista, spostandosi in centro scena a mano a mano che l’azione lo impone. Un’apprezzata idea registica di piacevole ed interessante inventiva. E bravo Geppy! L’unica vera protagonista, qui, è la Fame, una fame maiuscola, nera tragica “cannibalesca” disperata. Ancora più sciagurata del nostro pur disperato “Nost Milan” di Bertolazzi (anche questo diviso in due parti, “La povera gent” e “I sciori”). Questo primo tempo giustifica tutto lo spettacolo.
Poi è mancato di coraggio.
La singolare scena sgombra con gli attori marginalmente a vista è stata sostituita da una cartonesca scenografia ottocentesca, necessaria da copione per l’esigenza di nascondere i personaggi, che qui ora, sotto mentite spoglie di nobili imbroglioni, devono entrare ed uscire con effetti a sorpresa alla Feydeau, in una farsaccia che contraddice la disperata umanità del primo tempo. Eppure sarebbe stato estremamente interessante continuare come il primo tempo, come una specie di teatro laboratorio, lasciando cioè i personaggi sempre in vista (già tanto tutti intuiscono come andrà a finire) e soprattutto lasciando agli spettatori il piacere di spiarne le “entrate” sceniche, compresi i cambi di costume. L’avrebbe imposto, appunto, quel primo tempo.
Geppy Gleijeses, in un clima generale di gioiosa napoletanità (italianianizzata quanto è bastato per rendere comprensibile la vulgata) è stato uno Sciosciammocca ottimo e piacevole quando misurato, ma poi, quando si lascia travolgere dai meccanismi della farsa, più macchietta che comico. Così come – sempre nel secondo tempo – tutto scivola nel macchiettismo, da Lello Arena a Marianella Bargilli (caspita, che brava nel primo tempo). E così anche tutti gli altri, tutti vogliosi di far ridere: Antonietta D’Angelo, Gina Perna, Luciano D’Amico, Gino De Luca, Leonardo Faiella, Jacopo Costantini, Gigi De Luca, Silvia Zora, Liliana Massari, Vincenzo Leto. Risate assicurate e grandi applausi alla fine per tutti.

Al Teatro Franco Parenti, Via Per Lombardo 13, Milano – repliche fino a domenica 1 dicembre.

Tournée
BOLZANO dal 5 all’ 8 dicembre
THIENE Teatro Comunale dal 10 al 12 dicembre
LIMBIATE 13 dicembre
TORINO dal 27 al 31 dicembre e dall’ 1 al 6 gennaio 2014
BRESSANONE 9 gennaio
MERANO 10 gennaio
BRUNICO 11 gennaio
VIPITENO 12 gennaio
BRESCIA Teatro Sociale dal 15 al 19 gennaio
CATANIA Teatro Verga dal 21 al 31 gennaio e dall’ 1 al 2 febbraio.

In un covo di maschi erotomani arriva l’ape regina. Ecco il Pinter di Peter Stein al Piccolo Teatro

 

Milano. Una scena di “Ritorno a casa” di Harold Pinter, con la regia di Peter Stein, al Piccolo Teatro Grassi (foto Pino Le Pera).

Milano. Una scena di “Ritorno a casa” di Harold Pinter, con la regia di Peter Stein, al Piccolo Teatro Grassi (foto Pino Le Pera).


(di Paolo A. Paganini) “Il ritorno a casa” (1965), di Harold Pinter, non è proprio il ritorno biblico del figliol prodigo. Anche perché quando Teddy, professore di filosofia, dopo sei anni di prestigiosa carriera negli Stati Uniti, di passaggio a Londra, arriva notte tempo nella casa del padre, per un fugace saluto, nessuno si aspetta di vederlo anche con la giovane mogliettina, della quale non sapevano niente. Nella casa paterna di soli uomini (altri due fratelli, il vecchio padre autoritario e il fratello di lui), tutti più o meno erotomani e tutti in possesso di una singolare morale, per la quale tutto è in comune, è ovvio e naturale che, ciascuno sbavando ora senza alcun ritegno per la giovane donna, tutti tentino di farsela. E lei ci sta. Ma nessuno dei cinici e abbastanza animaleschi personaggi poteva immaginare che la donna, da concupita, si sarebbe ben presto trasformata in ape regina. Al marito non rimarrà che tornarsene in America agli amati studi e ai tre figli ancor piccoli che invano attenderanno la madre, dominatrice e regina nella sua nuova casa con quei larvatici sudditi, plagiati e inebetiti.
Harold Pinter (1930-2008), forse il più importante drammaturgo inglese, attore, autore di una trentina di opere, quasi tutte di successo, sceneggiatore d’una cinquantina di produzioni anche famose sul piccolo e sul grande schermo, impegnato politicamente, Nobel nel 2005, largamente conosciuto anche in Italia (da “Tradimenti” a “Il guardiano”, da “L’amante” a “Vecchi tempi”, da “Terra di nessuno” a “Ceneri alle ceneri”), con le sue pièce fra il buio delle anime e il surreale della vita, denunciò, anche con spietata crudezza, il dramma della condizione umana, descrivendone l’ipocrisia, le ambiguità e la distorsione dei rapporti, le insicurezze, talvolta, scavando in un passato senza futuro, adombrando un angoscioso senso da terra di morti, dove i grandi sentimenti, nel bene ma più spesso nel male, vengono modernamente banalizzati in un tormento interiore senza passione.
Ora, al Piccolo Teatro, in due tempi di cronometrica precisione di un’ora e tredici ciascuno, Peter Stein ha messo in scena “Il ritorno a casa” con un eccezionale staff di attori, dopo quello relativamente recente (il maggio scorso) di Luc Bondy, con Bruno Ganz e Emmanuelle Seigner. Due allestimenti stilisticamente assai diversi. Più mediterraneizzato e volgarizzato quello con Bruno Ganz, più “inglese” e di più grottesca ironia questo di Peter Stein. Anche per la presenza di un importante nucleo attoriale estremamente eterogeneo e felicemente amalgamato. Paolo Graziosi è il grande vecchio, laido e cinico, di apparente decrepitezza ma ancora capace di imprevedibili e compensative violenze verbali. Dei figli, Alessandro Averone interpreta un untuoso e dialettico damerino, forse magnaccia e piccolo imprenditore; Rosario Lisma è il suonato pugilatore, facile ma piacevole; Andrea Nicolini è il professore invertebrato (che saprà “vendicarsi”… perfino mangiando di nascosto il panino al formaggio di Lenny, mentre gli altri si divorano lamoglie). E poi c’è Elia Schilton, lo zio un po’ sognatore, un po’ effeminato, quindi di vocazione vittima, nel ruolo dello zio Sam. E infine c’è Arianna Scommegna, non più come nella precedente scorsa edizione bionda fatale sciupauomini, ma qui, piuttosto, abbastanza comune, dall’apparenza bigotta, acqua cheta, quindi pericolosa nella sua volitiva imprevedibilità e determinatezza. Entusiastici applausi alla fine per tutti.

Milano, Piccolo Teatro Grassi, Via Rovello 2 – fino a domenica 1 dicembre.

La tournée
Piacenza, 3 – 4 dicembre
Lucca, 6 – 8 dicembre
Siena, 10 – 12 dicembre
Massa, 13 – 15 dicembre
Mestre, 8 – 9 gennaio 2014
Vicenza, 10 – 11 gennaio 2014
Roma, 14 – 26 gennaio ’14 Lecco, 28 gennaio ’14
Cuneo, 29 gennaio ‘14