Così un attore fallito (Luca Barbareschi) riesce a curare la balbuzie del re (Filippo Dini)

Milano. Luca Barbareschi e Filippo Dini in “Il discorso del Re”, di Seidler, al Teatro Franco Parenti (foto Bepi Caroli)

Milano. Luca Barbareschi e Filippo Dini in “Il discorso del Re”, di Seidler, al Teatro Franco Parenti (foto Bepi Caroli)

(di Paolo A. Paganini) Il film “Il discorso del Re” di David Seidler (pellicola ed autore superdecorati), nato come testo teatrale, torna ora al teatro, invadendo con successo le platee europee. È la storia, come ormai tutti i cinefili sanno, del Duca di York, nomignolo Bertie, timido, balbuziente, complessato, e destinato al trono come Giorgio VI (1936), dopo l’abdicazione del fratello maggiore Edoardo, impegolatosi nello “scandaloso” rapporto con la fatale multidivorziata americana Wallis Simpson. Giorgio VI regnò fino al 1952, affrontando con dignità e senso del dovere il sanguinoso periodo del nazismo, della terribile guerra di “lacrime e sangue” e delle mille beghe di corte, così schiacciato da Arcivescovi di Canterbury, da primi ministri e da ingombranti e geniali personalità come Winston Churchill. Fu amatissimo dal suo popolo. Questa la reale cornice storica. Ma nel suo interno David Seidler ha costruito un’altra storia, con tutti i crismi di un’abilità drammaturgica dalle infinite corde espressive, tra generi e sottogeneri: dall’ironia al dramma, dalla comicità alla tragedia, dall’intreccio amoroso, ora tenero e familiare, ora turbolento e scabroso, all’epicità degli avvenimenti, con colpi di teatro da manuale, strappando lacrime applausi entusiasmo.
C’è dunque questo re balbuziente e c’è un logoterapista australiano, gentile e cialtrone, nobile e plebeo, attore mancato e “presunto” dottore. A lui si rivolge la moglie del principe Bertie, dopo mille altri tentativi falliti, per cercare di guarire il marito, per dare al complessato predestinato re quel minimo di sicurezza, quel tanto di autorità verbale che gli consenta di parlare al popolo, di rappresentare il suo popolo. Conclusione prevedibile. E pretesa. Il discorso finale del re, che parla alle umane genti della Gran Bretagna e del mondo universo oppresso e angosciato alla vigilia della guerra, è uno dei momenti più alti e commoventi di tutto il teatro contemporaneo (quanti furtivi fazzoletti in platea!). Ma altre scene hanno la stessa intensità: come quando Bertie scopre da segreta registrazione di poter parlare correntemente; come quando Bertie, piegato dal dolore, racconta al suo “dottore” la struggente morte del padre, re Giorgio V. Poi, si sa, in due ore e mezzo di spettacolo con un intervallo, non tutto può essere in stato di grazia. Ora pencola sul versante psicoanalitico (la tentazione è inevitabile), ora su un patetismo scopertamente ruffiano. Ma, se la parte, diciamo così, politica è talvolta fiacca, altre raggiungono vette inimmaginabili, come le scene terapeutiche tra un mitico Luca Barbareschi (il “medico” australiano) e un tenero, patetico, avvincente Bertie, Giorgio VI (un Filippo Dini di insuperata intensità): qui lo spettacolo vola alto in una felicità di assoluto godimento.
Di grande dignità anche tutto il contorno attoriale, da Astrid Meloni a Chiara Claudi, da Ruggero Cara a Roberto Mantovani, da Mauro Santopietro a Giancarlo Previati. Regia dello stesso Luca Barbareschi talvolta eccessivamente espressionista, ma sempre gradevole, e di felici soluzioni sceniche. Ovazioni entusiastiche alla fine per tutti, compreso l’autore David Seidler, presente alla prima del milanese “Franco Parenti”.

Repliche fino a domenica 3 novembre.

Duello Frost/Nixon all’Elfo Puccini, e alla fine le falsità del Presidente vennero a galla

Milano. Elio De Capitani (Nixon), Ferdinando Bruni (David Frost) e Alejandro Bruni Ocaña (Jim Reston) all’Elfo Puccini (foto Laila Pozzo)

Milano. Elio De Capitani (Nixon), Ferdinando Bruni (David Frost) e Alejandro Bruni Ocaña (Jim Reston) all’Elfo Puccini (foto Laila Pozzo)

(di Paolo A. Paganini) L’affaire Nixon/Watergate: la più scabrosa e imbarazzante vicenda politica di tutta la storia degli Stati Uniti. Fu uno scandalo di corruzione e di arroganza del potere. Nel 1972 coinvolse l’allora Presidente Richard Nixon, costretto a dimettersi il 9 agosto 1974 – dopo due anni di menzogne e di feroce autodifesa – per evitare di essere dichiarato “decaduto” dalla Camera dei Rappresentanti. Lo scandalo, di cui parlarono i giornali di tutto il mondo (vennero successivamente prodotti anche celebri film) prese il nome dal complesso edilizio di Watergate, a Washington, dov’era la sede del partito democratico. Qui vennero effettuate abusive intercettazioni telefoniche, che diedero inizio a tutta la vicenda, da alcuni giudicata peraltro pretestuosa, soprattutto voluta per demolire il Presidente Nixon, compromesso dal proseguimento della guerra in Vietnam, dalle stragi in Cambogia, ma soprattutto impopolare fra il pubblico americano e non più sostenuto dalle élite economiche e dai poteri bancari. Abile insabbiatore di prove, di documenti e registrazioni compromettenti, Nixon, dunque, per evitare un sicuro impeachment, si dimise, senza mai ammettere sue dirette responsabilità e fare dichiarazioni di colpevolezza. Ma nel 1977, lusingato dall’idea di tornare alla vita pubblica e di rifarsi una virginità politica, accettò di farsi intervistare da David Frost, abile intervistatore televisivo, ma più legato al mondo dell’intrattenimento che non a quello politico. Nixon lo considerò abbastanza innocuo, e infatti le prime tre della quattro puntate televisive, furono dei match a pieni voti a favore di Nixon. Ma un insperato colpo di fortuna, proprio nella puntata conclusiva, fornì a Frost la prova inequivocabile di alcune decisive e compromettenti registrazioni telefoniche scomparse: Nixon, con le spalle al muro, dovette capitolare. Distrutto, ammise colpe e menzogne, domandando scusa al popolo americano.
Tutta la vicenda storico/politica, così come ne abbiamo brevemente fatto memoria, è ora in scena all’Elfo Puccini, nell’interpretazione protagonistica di Elio De Capitani (Nixon) e Ferdinando Bruni (Frost), in quasi due ore di spettacolo seguite col fiato sospeso. Un’alta e civile prova di teatro/documento (emblematicamente didattica, a ben vedere, anche per nostrane vicende politiche!). De Capitani, abile divagatore in un’esemplare prova di ambigui moroteismi, è assolutamente convincente e di straordinario fascino dialettico. Ferdinando Bruni, nel ruolo di Frost (scomparso, fra parentesi, proprio l’agosto scorso), schiacciato dal dialettico confronto con Nixon, si è sornionamente sottratto, rendendosi conto che, anche da un punto interpretativo, non sarebbe stato corretto sopraffare o competere con De Capitani: uno squisito esempio di contenuta padronanza, salvo l’unghiata finale in cui metterà al tappeto un ormai stremato e vinto Nixon, suscitando un sentimento più di patetica commozione che di catartica condanna. Bene tutti gli altri personaggi “politici” e mediatici, da Luca Toracca a Alejandro Bruni Ocaña, e poi Claudia Coli, Matteo De Mojana, Andrea Germani, Jack Brennan. Ben distribuita in compiti e responsabilità la regia degli stessi Bruni/De Capitani.

Si replica fino a domenica 10 novembre.

La follia sanguinaria di Medea: ecco come ci riducono le passioni, parola di Seneca

Maria Paiato, insuperabile Medea, al Piccolo Teatro Grassi di Milano (foto Pino Le Pera

Maria Paiato, insuperabile Medea, al Piccolo Teatro Grassi di Milano (foto Pino Le Pera

(di Paolo A. Paganini) Il male assoluto, senza perdono o redenzione, il gusto del macabro, l’orrore truculento, l’irruenta passione devastatrice, l’incontrollata sete di vendetta, la truce dissoluzione della morale, dei sentimenti, del bene comune: da tutto ciò rifuggiva Seneca (4 a.C. – 65 d. C.), filosofo, scrittore latino, moralista e precettore di Nerone (ah, come mal ripose il suo pensiero pedagogico). Per Seneca, per il saggio stoico, solo il dominio delle passioni, la ricerca della virtù, la vittoria sugli istinti, l’autosufficienza spirituale, come condizione necessaria per l’affermazione di una sapiente ed equilibrata individualità, che sarebbe dovuta poi sfociare e trionfare sulla dimensione politica, furono la base del pensiero e delle opere filosofiche. Per quanto riguarda le sue tragedie (nove, forse dieci, forse di più) s’impone una considerazione critica ch’è tutto il contrario della sua ispirazione al bello, al buono, al giusto. Eppure, anche qui c’è un preciso disegno morale, una irrefrenabile volontà pedagogica. Per dimostrare come l’istinto senza virtù, le passioni senza controllo conducano irrimediabilmente al male assoluto, alla devastazione dei sentimenti, all’orrore di una morte violenta, alla violazione d’ogni legge umana e divina, ecco “Medea”.
Ispirata a Euripide, ne conserva fedelmente l’impronta, ma ne modifica i punti di vista. Per la Medea di Seneca non esiste nessuna forma di pietas, non c’è luce, è solo un precipizio nel buio degli inferi, nelle oscure voragini delle anime, e da tutti viene condannata, tutti le sono contro. Ne rammentiamo brevemente la vicenda. Giasone, per sposare Creusa, la giovane figlia di Creonte, re di Corinto, ha abbandonato la vecchia moglie, la maga Medea, madre di due ancor piccoli figli. Già vinta dalla passione per Giasone, l’aveva aiutato a conquistare il vello d’oro, dopo aver tradito il padre e ucciso e fatto a pezzi il fratello Absirto. Insieme fuggono dalla Colchide. E ora Giasone la ricambia sposando Creusa! L’amore di Medea diventa incontenibile odio, follia irrefrenabile, furia del male, delirio visionario, traboccante, fatale. Invia vesti intrise di veleno a Creusa e al re, che le indossano e muoiono bruciati; e, all’apice della vendetta e di una incontrollata perversione, uccide i suoi stessi figli.
Orbene, in questa mess’in scena al Piccolo Teatro Grassi, la storica sede milanese di Via Rovello (un’ora e mezzo senza intervallo), immaginate Maria Paiato, già affascinate protagonista di donne “estreme”, qui nel ruolo di Medea. Per quanto si riferisce al panorama contemporaneo forse nessun’altra interprete, oggi, ha la forza, il dominio totale della scena, la furia drammatica della Paiato, anche se talvolta la foga della passione fa sì che le parole, strozzate dall’urgenza della sintassi senecana, risultino di non sempre chiara intelligibilità. Poco male. Il contorno attoriale, distribuito fra Coro e gli altri ruoli, ha una sua dignitosa presenza. Almeno nomineremo i compagni di scena della protagonista: Max Malatesta, Orlando Cinque, Giulia Galiani, Diego Sepe. Nella giusta penombra della scena (di Francesco Ghisu), il regista Pierpaolo Sepe ha massimamente focalizzato l’attenzione sulla follia di Medea, sulla sua evoluzione drammatica, sulle esaltazioni, sulle ombre, sugli infingimenti di questa donna maledetta, che corre qua e là come una bestia feroce e porta in faccia i segni del delirio… Qualche leggero eccesso registico va compreso e perdonato. Il cappello da cow boy di Creonte forse non va perdonato. Il segno della croce della fanciulla-coro forse va solo compreso (se è vero che sarebbero intercorse delle lettere fra Seneca e San Paolo, ma da parte di Sepe è un tocco “cristiano” di gratuito intellettualismo).

Si replica fino a domenica 3 novembre.

All’Out Off Francesco Manetti, un sopravvissuto della storica avanguardia italiana

Francesco Manetti all’Out Off in “A.H.”, una intensa perfomance, come allegoria del male e come storia  della violenza

Francesco Manetti all’Out Off in “A.H.”, una intensa perfomance, come allegoria del male e come storia
della violenza

(di Paolo A. Paganini) Non smentendo le proprie primigenie origini e le ultratrentennali benemerenze nell’ambito della ricerca, anche con coerenti proposte, con coraggiosi avanguardismi teatrali, ora il Teatro Out Off ospita ’operazione drammaturgica di Federico Bellini e Antonio Latella (anche regia), “A.H.”, un non criptico cerebralismo, che sta per Adolf Hitler. In realtà la monologante performance di Francesco Manetti (un’ora e dieci) vuol essere una specie di allegoria del male (o della follia), che trova appunto nel fuhrer il più tragico, il più oltraggioso, il più infame dei simboli. Manetti usa il corpo come massimo strumento di sapienza espressiva. Non si tira indietro in nessuna occasione di possibili significati: lordandosi, andando a quattro zampe in lugubri latrati, vomitando, strappandosi di dosso il cartaceo abito bianco, rimanendo in mutande, ma sì, togliamoci anche quelle, e poi ululando, gridando, gemendo. Per dimostrare cosa? Per dimostrare una specie di storia della menzogna e del tradimento dell’uomo nei confronti del suo Creatore, che aveva creato l’uomo e la donna per popolare la terra e perché vivessero in pace felici e contenti. Ma poi l’uomo inventò la clava –  e Manetti ne fa mimicamente la storia – , il sasso, la fionda, la lancia, l’arco e, su su,la balestra, il moschetto, fino agli ultimi ritrovati delle stragi di massa, mitraglie, bombe, gas… in un concertato di sirene, crepitii, esplosioni. Manetti ci si guazza davanti a un pubblico straordinariamente silente ed attonito, e alla fine entusiasta. Ma è un pubblico quasi tutto giovane, che probabilmente nulla sa delle avanguardie storiche e delle loro provocazioni (ah, le italiche avanguardie teatrali, sempre in ritardo nel panorama europeo), che, senza partire dalle radici futuriste, fin dall’inizio degli Anni Settanta, sconvolgevano le italiche platee, con memorabili personaggi come Quartucci, De Berardinis, Mario Ricci, Carmelo Bene e tanti altri ancora, finiti presto, più o meno, nel dimenticatoio, ma che pur scorrazzavano su e giù per la penisola in camion, carri di Tespi, per piazze e teatrini, tra fischi , fautori ed ammiratori, con la ferrea ed eroica volontà di scardinare languori, salamelecchi, sdolcinature del perbenista teatro borghese. Ma è tutto finito. Rimane qualcuno che ancora ci crede. Per questo, per rendersi conto di una pagina di teatro forse dimenticata, si può ora andare a vedere Francesco Manetti, in questo suo generoso e faticoso “A.H.”. Lo merita.

Si replica solo fino a domenica 20.
www.teatrooutoff.it