Divertente parodia di teatro nel teatro. Come visto a scena vuota da dietro le quinte, mentre stanno montando l’opera

PESARO, lunedì 14 agosto ► (di Carla Maria Casanova) Signori, questa volta ci si diverte. Le regìe, come si sa, hanno un gran compito perché sta a loro impostare e, in certo senso, far bello o brutto uno spettacolo, sempre restando l’importanza del cast, articolo primo nell’opera lirica. Le regìe possono essere tradizionali, veriste, trasgressive, intellettuali, psicanalitiche, del tutto pazze, e via discorrendo. Tutto si può fare, a condizione che ci sia un senso, o almeno un’idea.

Il francese Arnaud Bernard, violinista nella Filarmonica di Strasburgo, debuttante regista a 29 anni (“Il trovatore” a Tolosa), ha poi curato una quantità di regie in tutto il mondo (a Verona ha ottenuto grande successo in Bohème e Nabucco). Per la prima volta al Rof, gli è stata affidata Adelaide di Borgogna, opera scritta velocissimamente da Rossini nel 1817, anno in cui il musicista aveva già sfornato tre capolavori (Cenerentola, La Gazza ladra, Armida) facendo la spola tra Napoli, Roma e Milano. Adelaide va in scena il 27 dicembre a Roma ed è un mezzo fiasco. Con tutto quell’andare e venire è comprensibile. Inoltre la partitura manoscritta è andata perduta e si dovette ricorrere a note di testimoni apografi andando come al solito a pescare qua e là in opere precedenti. Nel 1825 l’opera scompare dai cartelloni. Ci torna solo nel 1985 al Festival della Valle d’Itria. Nel 2006 è in cartellone a Pesaro in forma di concerto e nel 2011 in forma scenica. E finalmente le arride il successo.

La storia riprende fatti e personaggi storici. Siamo intorno al 1000, Adelaide è la vedova di Lotario, re d’Italia, ucciso da Berengario che trama per farla sposare al proprio figlio Adelberto per assicurarsi il trono. Per sfuggire al complotto Adelaide trova rifugio nella fortezza di Canossa e chiama in suo aiuto l’imperatore Ottone, che, appena la vede, si innamora di lei. Lei, ripresasi in verità un po’ rapidamente dalla recente vedovanza, ricambia con passione il sentimento di lui. Intervengono vari intrighi, eventi bellici e pause romantiche, tradimenti, baruffe, macchinazioni finché, debellati intrusi e impedimenti, Ottone e Adelaide convolano a regali nozze.

Storia abbastanza banale. Allora Arnaud Bernard ha l’idea di portare il tutto in un teatro dove si sta montando appunto l’opera Adelaide di Borgogna. È il “dietro le quinte” tanto bramato dal pubblico, che sempre vorrebbe conoscere cosa succede al di là dal sipario. Qui lo vede. Beninteso un po’ calcato, perché è teatro nel teatro. Una parodia bonaria con risvolti spassosi. Gli stessi elementi scenici – il trono, il letto a baldacchino, la tavola imbandita…- (Alessandro Camera scenografo, Maria Carla Ricotti costumista, luci di Fiammetta Baldiserri, tutti bravissimi): piombando dall’alto su un palcoscenico vuoto, con qualche intoppo nel posizionamento, producono un effetto comico. Intanto, il regista sta a tavolino con il suo aiutante, manda ordini, interviene in posizioni, movimenti, entrate, soprattutto delle masse. Più avanti, indietro, non da qui…  i suoi gesti sono volutamente esagerati, le espressioni melodrammatiche, istrioniche.
C’è anche un doppio gioco, in quanto alcuni sentimenti dei protagonisti non appartengono alla finzione teatrale ma alla realtà. Quindi è tutto da scoprire: sarà vero o falso? Questa Adelaide un po’ facilona nel dare il suo cuore a Ottone imperatore (buttalo via!) forse lo ama per davvero… Il pubblico è coinvolto, quasi chiamato a partecipare agli eventi. Lettura persino psicanalitica, ma senza sconvolgimenti astrusi. Molto godibile.

Il cast originale prevedeva, per Ottone, il solito castrato. Qui è il contralto armeno Varduhi Abrahamyan già nota al Rof per essere stata Malcom (Donna del lago, 2016) e Arsace (Semiramide, 2019). Ha bel timbro, bella scuola di canto, bel portamento. Adelaide è il soprano russo Olga Peretyatko (debutto al Rof nel 2006 seguìto da 8 presenze). Anche se regge con professionalità il suo ruolo non ha più esibito lo splendore vocale dei primi anni. Molto disinvolta in scena, nell’ultima aria di forsennata difficoltà, ha accusato una certa stanchezza pur risolta con perizia tecnica. Molto applaudita. Hanno cantato con onore il profondissimo basso Riccardo Fassi (Berengario), il tenore texano René Barbera (Adelberto), il sopranino italiano Paola Leoci (Eurice) e Valery Makarov e Antonio Mandrillo nelle parti minori.
A capo dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e del Coro Teatro Ventidio Basso diretto da Giovanni Farina c’è il maestro Francisco Lanzillotta, direttore e compositore (nel doppio ruolo ha recentemente ha trionfato a Bruxelles nel progetto Bastarda). Con alle spalle una prestigiosa carriera esercitata in tutto il mondo, dirige un repertorio da Rossini al contemporaneo. Grazie per averci dato questa Adelaide di Borgogna sottolineandone la freschezza e il divertimento.
Da segnalare una chicca per martedì 22 agosto, al Teatro Sperimentale. Nel Concerto di Belcanto detto anche Concerto Bartoli, si esibiscono madre e figlia: Cecilia Gasdia, “vecchia” gloria del Rof oggi sovrintendente dell’Arena di Verona, accompagna al pianoforte Anastasia Bartoli, già protagonista di Eduardo e Cristina, in apertura del Festival. Nel concerto canterà pagine di Verdi, Skrjabin, Liszt, Wagner, Rossini.
Tutti sappiamo poi che nel 2024 Pesaro sarà Capitale Italiana della Cultura.

Repliche di “Adelaide di Borgogna”: il 16,19, 22 agosto, sempre alle ore 20.

 

Fuoco alle polveri. Franco Cordelli va giù pesante sul teatro odierno. Ampio dibattito dei vari operatori su “La Lettura”

(di Andrea Bisicchia) Franco Cordelli, evidenziando il suo malumore nei confronti del teatro contemporaneo che ritiene privo di chiarezza nell’affrontare il rapporto tra tradizione e modernità, non ha nascosto un certo pessimismo, sia nei confronti della scrittura scenica, che della tecnologia, utilizzata ricorrendo a troppi “trucchetti”, sia nei confronti del concetto di “ricerca”, che spesso si risolve in pura deformazione. Ma, come se non bastasse, egli crede che lo spettatore di teatro abbia finito per annoiarsi perché, a suo avviso, la finzione è stata sostituita da ciò che è “finto”, una distinzione che ritiene necessaria, perché basata sulla consapevolezza che la finzione sia una categoria filosofica e che il finto sia ciò che non vale nulla. Ciò che, però, ha reso più drammatica la sua amarezza è il fatto che, dinanzi all’evidente declino del teatro, la stessa critica diventi superflua, come dire che quando non ci sarà del tutto, lo stesso teatro ne subirà le dovute conseguenze.
Le sue osservazioni, più che altro negative, hanno aperto un dibattito sulle pagine della “Lettura”, al quale hanno partecipato direttori di teatri, registi, organizzatori e alcuni addetti ai lavori, come il Commissario del Teatro Argentina.
A dire il vero, da parecchi loro interventi, più che delle considerazioni, rivolte al futuro, sono venute fuori le solite lamentele e le consuete autoreferenzialità.

Claudio Longhi ha parlato di ricerca, che non deve però degenerare e di teatro da intendere come “cura”, pur riconoscendo la “marginalità” che gli viene sempre accreditata.

Ferdinando Bruni e Elio De Capitani hanno sostenuto la “necessità” del teatro, oltre che l’importanza della pratica di palcoscenico, ritenuta altrettanto necessaria.

Davide Livermore ne ha approfittato per polemizzare con Cordelli che non ha mai nascosto il suo disinteresse per le regie di Livermore che, a sua volta, ha rivendicato il concetto di contaminazione tra il linguaggio teatrale e il linguaggio televisivo, estremizzando la poetica di Giovan Battita Marino, nel sostenere che il teatro deve “meravigliare”. Come altri, anche lui ha fatto pubblicità alla sua nuova Stagione, esaltando il numero degli abbonati.

Pamela Villoresi, che ha riportato il Calendario della sua programmazione, accompagnandolo con i nomi di tutti i registi, on è stata da meno.

Andrea De Rosa ha rivendicato un posto importante che dovrebbe essere assegnato alla nuova drammaturgia, grazie alla quale è possibile interpretare il mondo, perché dà voce alle inquietudini del nostro tempo.

Valter Malosti ha sostenuto l’idea che i teatri debbano essere sempre aperti, come gli uffici dell’anagtafe, essendo particolari luoghi di incontro, e di puntare alla ricerca di qualità perché: “la vera Arte ha potenza salvifica”.

Nino Marino ha invocato nuovi sistemi di produzione, con particolare riguardo alla ricerca e alla formazione.

Stefano Curti, da ottimo organizzatore, ha puntato sull’analisi e sulla conoscenza dei “dati”, oltre che sul necessario equilibrio tra “commerciale” e “non commerciale”.

Matteo Negrin ha virato la sua attenzione sul “teatro di prossimità”, quello dei “circuiti”, per intenderci, che una volta veniva definito “decentramento”, per il quale le modalità di gestione sono del tutto diverse da quelle dei teatri nazionali.

Luca De Fusco ha proposto la riduzione del ruolo del regista e il ritorno alle grandi produzioni, perché danno lavoro, come ha fatto Giovanna Marinelli che sostiene di credere nel teatro come “Strumento di Welfare culturale”.

Andrée Ruth Shammah ha rivendicato la forza della parola poetica e ha distinto la ricerca, da intendere come tensione fisica, da quella da intendere come tensione morale. In teatro, a suo avviso, ciò che conta è saper guidare gli attori, la regia, che “oggi non si nega a nessuno”, deve essere intesa come “guida” e non come il mettere in scena una “guida” che sappia evitare gli effetti esteriori, le stravaganze e il volere stupire a tutti i costi e che tenga soprattutto conto degli strumenti recitativi. Sulla scena, per la Shammah, vale tutto ciò che accade, quando accade qualcosa di più, si capisce che si è trattato di “una notte d’amore che diventa impossibile cercare di descrivere”.

Marco Martinelli e Ermanna Montanari, dopo aver denunciato “il vuoto della politica”, dicono di sentirsi vicini a chi ha pensato alla necessità del teatro, non certo quello delle “abitudini rassicuranti” o di chi cerca il successo, essendo meglio, secondo loro, inseguire “il succedersi delle cose”.

Enrico Frattaroli ha esaltato la sua “splendida e orgogliosa solitudine”, la cui fede è rivolta al “teatro d’autore”, in fondo egli si ritiene un artista che sa ben resistere al “declino”.

Geppy Gleijeses è apparso più ottimista: è convinto che il teatro italiano “è vivo e gode di ottima salute, grazie anche ai classici che sono tesori infiniti, mai esplorati fino in fondo”. Sul rapporto teatro e tecnologia ha giudicato aberranti le inflazionatissime proiezioni, ma rivendica la tecnologia quando è messa al servizio “critico” del testo.

Noi dello Spettacoliere abbiamo notato, in questo ultimo decennio, una certa omologazione nelle programmazioni, l’inadeguatezza di molti attori giovani, l’eccesso di video proiezioni che infestano e rendono urticante ciò che si va a vedere.
A proposito della ricerca abbiamo assistito non solo all’abuso nel volere miscelare e intrecciare i testi altrui, ma anche alla inspiegabile cancellazione dei “generi”, che ha alimentato una grande confusione , oltre che alla ripetitività che ha favorito la convenzionalità, alla moltiplicazione di forme sceniche che, a loro volta, comportano una moltiplicazione delle forme estetiche, tanto che si può parlare di  una molteplicità di estetiche riferite all’allestimento, alla visione, al suono, all’elettronica.
Noi siamo convinti che le rivoluzioni artistiche avvengano sempre dal di dentro (Pirandello insegna), e non certo dall’essere irriverenti, da fasulle decostruzioni, da conflitti eterogenei e da una perenne instabilità. Bisogna partire dall’attività creativa che, certamente, non la si può improvvisare, perché richiede molto lavoro, molti studi e non semplici e superficiali letture.

I vari interventi dell’ampio dibattito sono apparsi sul supplemento domenicale del CORRIERE DELLA SERA, “La Lettura”, dal n. 602, e successivi fino al n. 608. In data odierna, domenica 30 luglio, gli interventi di “La Lettura” sul Corriere proseguono con il tema dedicato ai “Repertori”.

Aida, una regia di consolazione, all’interno del teatro, dopo che la pioggia, ieri sera, costrinse a rinunciare all’esterno

COMO, venerdì 30 giugno ► (di Carla Maria Casanova)Le fatal gocce sono cadute prima ancora che Radames cantasse “Se quel guerriero io fossi”. Gli orchestrali si alzano in piedi. Brutto segno. Inizio di modesto fuggi fuggi non ancora convinto. Infatti le gocce cessano e si incolpa la solita nuvola leggera. Si siedono gli orchestrali. Si risiede il pubblico. Si ricomincia ma, tempo 5 minuti, gli orchestrali si alzano di nuovo e questa volta se ne vanno. Viene annunciato che lo spettacolo verrà ripreso, cioè ricominciato, all‘interno del teatro.
È stato uno scherzaccio per tutti, ma in modo speciale per il regista – Alessio Pizzech – che aveva progettato questa Aida di apertura della IX edizione del Festival Como città della Musica, all’aperto, nello spazio da qualche anno allestito dietro al teatro. Pizzech è uomo di spettacolo a tutto tondo, dalla multiforme attività nella prosa come nel teatro musicale e come direttore artistico di istituzioni culturali. Non è mai banale. Qui il progetto si articolava in una piattaforma quadrata al centro dello spazio, con il pubblico tutto intorno. Sul palcoscenico una grande piramide trasparente (come all’Arena: che si siano passati la voce?) e due piccole strutture in legno grezzo, tipo cabine telefoniche, con scritto Amneris e Aida, di modo che fosse chiaro che lì le due protagoniste femminili avevano i loro punti di appoggio. Questo per facilitare nel pubblico l’identificazione delle medesime poiché, per accontentare le quattro porzioni di spettatori intorno al palcoscenico, i personaggi dovevano in continuità spostarsi, e cantare, ai quattro angoli del quadrilatero.
Tanto basti per capire che, piaccia o no, una simile regìa aveva un senso sulla piattaforma centrale all’aperto ma portata all’interno – per dove era stato pensato un abbozzo di regìa di consolazione — presentava notevoli complicazioni. E incongruenze. Per esempio il coro sterminato, che diviso in 4 avrebbe dovuto girare attorno alla piattaforma, portato in teatro e pigiato nei due corridoi laterali della platea, creava fastidioso disagio. Senza contare la cavalcata dei coristi lungo i corridoi, con effetto carica di bisonti. Visivamente, il coro, tutto bianco, e come si diceva sterminato, è quanto più rimane negli occhi di questo allestimento, Munito or di lance or di lanterne, la massa corale funge da fondale, quinte, sipario. Impersona la scena (scene e costumi Davide Amadei).
Invece, ci sono un due o tre invenzioni che, in qualsiasi campo le si metta in pratica, all’aperto o al chiuso, non hanno un gran senso. Vedi la rivoltella con cui Aida/Radames/ Amonasro/ Amneris si minacciano a turno nell’atto del Nilo. Una pistola qui non ci sta proprio. Oppure il gran passo di danza eseguito dall’atletico bellissimo bravissimo ballerino nero per sostituire la marcia trionfale che non c’è. Il gigantesco ballerino (si chiama Mmamdi Nwagwu, grave non aver messo il suo nome in cartellone) essendo nero si immagina debba rappresentare gli etiopi, lì trascinati in ceppi. (I quali etiopi come ben si sa non sono camiti – da Cam, il nero figlio di Noè – ma semiti, – dal figlio Sem – quindi assolutamente non di fattezze negroidi seppur di pelle nera. Ma glissons). Comunque sia, l’aitante ballerino camita, perché danza felice?  esulta per la sconfitta? O ringrazia i vincitori? Quelle idee registiche che vengono in più, ma anche se non vengono meglio.
Arrivando al dunque, trasportare al chiuso uno spettacolo di questo genere è stato un lavoro d’inferno e molto frustrante per il regista. Frustrante anche per i cantanti, che tutte le prove hanno fatto all’aperto. Hanno tutti affrontato la situazione con onore ma sicura insoddisfazione. Onore grande per come è stata organizzata, e relativamente veloce, la corretta assegnazione dei posti dalla platea esterna all’interno del teatro.
Il versante musicale. Se il direttore Enrico Lombardi ha strascicato qua e là i tempi nel gestire l’Orchestra 1813 del Teatro Sociale (d’altra parte, non sono i Berliner), e la compagine canora maschile meglio lasciarla perdere, sul fronte femminile si va alla grande.
Clarissa Costanzo, Aida, (Capua 1991) diplomata a San Pietro a Majella con massimo di voti e menzione d’onore, licenziata dall’Accademia della Scala lo scorso anno, ha un materiale vocale importante e bellissimo timbro (così difficile da trovarsi). Ottima tecnica che le ha fatto imbroccare una serie di filati da antologia. Anche Sofia Janelidze, Amneris, mezzosoprano giorgiano arrivata al Conservatorio di Milano con una borsa di studio su invito dell’Ambasciata italiana, vincitrice di molti concorsi, esibisce un canto sicuro, già collaudato in un giro internazionale. Poi c’è la sorpresa della giovane Aoxue Zhu, mezzo soprano tra l’altro assai graziosa (particolare di cui è molto consapevole). In Italia dal 2018, ha studiato a Bologna e a Parma. Canta nella piccola parte della Sacerdotessa, quasi sempre defilata negli antri del tempio, ma qui riesce a emergere al solo aprir bocca. Degli uomini si è detto. Il tenore Demo di Vietri (Radames) studi al Conservatorio di Milano e a Bologna, esibisce nomi di grandi con i quali si sarebbe formato. Peccato non gli abbiano lasciato niente. Lui però ha cantato ovunque. Nei due anni di Covid non ha smesso un momento, all’estero, ovviamente (San Pietroburgo, Colombia, Polonia, Cairo…) Buona, la volontà, ma… Magari resta da citare Amonasro, il baritono Luca Galli.

L’Aida del Teatro Sociale-Aslico di Como si replica il 1° e il 3 luglio, con la speranza che almeno una volta si riesca a vederla nel suo quadro originale.

Stagione 2023/24 del Teatro Franco Parenti, presentata da Andrée Ruth Shammah: la cultura? ma è già tutta nel teatro

MILANO, sabato 24 giugno ► (di Paolo A. Paganini) Andrée Ruth Shammah, fondatrice e direttrice del Salone Pier Lombardo. Era il 1973, quando, in Via Pier Lombardo, con Franco Parenti, in un ambiente che, quando pioveva, faceva acqua da tutte le parti, presentò il progetto del prestigioso teatro che sarebbe diventato dopo qualche anno, un po’ alla volta e sempre in crescendo. Compresa, ora, una Nuova Sala. Dove, forse, la Shammah farà la sua ultima regia. Continua, per l’indomabile regista, l’amore per il teatro e per i sogni, che fa sempre diventare realtà. Nei suoi sogni ci sono sempre state le premesse della felicità. I sogni dei futuri successi c’erano tutti. E con lei un pubblico anche di giovani che l’hanno sempre seguita.
Lei, Andrée, cinquant’anni fa era già una giovane e appassionata regista di talento. Oggi, il tempo è passato per tutti, ma il talento e la passione sono rimasti sempre verdi di giovinezza. Anche adesso, che in sede ha presentato la stagione 2023/2024 del Salone Pier Lombardo, ormai diventato per tutti Teatro Franco Parenti, dopo la scomparsa dell’indimenticato attore (nel 1989), che, nel 1972, era stato co-fondatore del teatro, con Testori e Gian Maurizio Fercioni.
Ma la sua presentazione non è stata solo un elenco di strepitosi spettacoli.
La Shammah, per indole preparazione ed esperienze, guarda sempre dentro e al di là delle cose. E così, la sua presentazione, è diventata una appassionata lezione di teatro, e di filosofia del teatro. Specificando la differenza tra “Cultura” e “Teatro”. Lei, e i suoi collaboratori, tutti abituati a rimboccarsi le maniche, tutto sommato respingono la consunta e abusata parola “cultura” di tanti parruccai.
“Io sono solo un’abile artigiana di teatro. Perché il termine teatro contiene tutto, anche la cultura, ma con dei caratteri in più, come la comunicazione…” Che vuol dire partecipazione sociale, condivisione di passioni e di incontenibili esplosioni di gioia e di amore, contro l’indifferenza di politici e intellettuali, in comunione, tutti insieme, con i testi rappresentati, condivisi, ragionati, discussi. Che forse è il solo e unico modo di fare cultura. Come una lezione di scuola attiva, che avrebbe entusiasmato Don Milani, il prete di Barbiana.
E il pubblico del Franco Parenti c’è subito stato, da sempre, come sempre. Tuttora. Crisi o non crisi, il Teatro Franco Parenti guarda in avanti con la certezza di chi si sente nel giusto. Il pubblico condivide. E le sale del Franco Parenti sono sempre piene.

 

IL CALENDARIO DELLA SALA GRANDE

10 ottobre – 4 novembre. Sala Grande: LA VITA DAVANTI A SÉ, tratto dal romanzo La vie devant soi, di Romain Gary Émile Ajar – riduzione e regia Silvio Orlando – con Silvio Orlando

8 novembre – 3 dicembre. Sala Grande: IL MISANTROPO, di Molière – regia Andrée Ruth Shammah – con Luca Micheletti e la partecipazione di Corrado D’Elia

16 novembre – 6 dicembre. Sala A: LA LEGGENDA DEL SANTO BEVITORE, di Joseph Roth -regia Andrée Ruth Shammah – con Carlo Cecchi

7 – 13 dicembre. Sala Grande: COSÌ È (SE VI PARE), di Luigi Pirandello, regia Geppy Gleijeses, con Milena Vukotic, Pino Micol, Gianluca Ferrato

27 dicembre – 7 gennaio. Sala Grande: DA STASERA SI RECITA A SOGGETTO – Il metodo Pirandello, liberamente ispirato all’opera di Luigi Pirandello- regia Paolo Rossi con Paolo Rossi

16 – 21 gennaio. Sala Grande: AGOSTO A OSAGE COUNTY, di Tracy Letts, traduzione Monica Capuani, regia Filippo Dini – con Anna Bonaiuto, Manuela Mandracchia, Filippo Dini

30 gennaio – 4 febbraio. Sala Grande: BOSTON MARRIAGE, di David Mamet, traduzione Masolino D’Amico – regia Giorgio Sangati, con Maria Paiato, Mariangela Granelli, Ludovica D’Auria

31 gennaio – 25 febbraio – Sala Nuova: CHI COME ME, di Roy Chen, con Fausto Cabra e cast in via di definizione – regia di Andrée Ruth Shammah

7 – 18 febbraio. Sala Grande: LA SIGNORA DEL MARTEDÌ, di Massimo Carlotto, regia Pierpaolo Sepe, con Giuliana De Sio, Alessandro Haber

21 febbraio – 3 marzo. Sala Grande: IL FIGLIO, di Florian Zeller, traduzione e regia Piero Maccarinelli – con Cesare Bocci, Galatea Ranzi,Giulio Pranno, Marta Gastini

5 – 10 marzo. Sala Grande: COME TU MI VUOI, di Luigi Pirandello, adattamento Gianni Garrera, Luca De Fusco, regia Luca De Fusco – con Lucia Lavia

12 – 24 marzo. Sala Grande: SCENE DA UN MATRIMONIO, di Ingmar Bergman, traduzione Chiara De Marchi, regia Raphael Tobia Vogel – con Fausto Cabra e attrice da definire

30 aprile – 5 maggio. Sala Grande: LA MADRE DI EVA, dal romanzo di Silvia Ferreri – adattamento e regia Stefania Rocca – con Stefania Rocca

7 – 19 maggio. Sala Grande: LA MARIA BRASCA, di Giovanni Testori, uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah, con Marina Rocco

Per tutte le altre informazioni: prezzi, orari, calendari delle altre Sale del Franco Parenti, e altre iniziative, come per i Bagni Misteriosi, gli allestimenti I Grandi Classici, e gli spettacoli per il Centenario di Giovanni Testori eccetera, consultare: http://www.teatrofrancoparenti.it