FIRENZE, venerdì 11 novembre ► (di Carla Maria Casanova) – “Ernani”, il bandito verdiano, è sbarcato al Teatro del Maggio fiorentino, sala Zubin Mehta, dopo quasi 60 anni di assenza (1965). Io mi vanto di aver assistito alla precedente epocale edizione fiorentina (1957), il cui cast faceva così: Mario del Monaco, Ettore Bastianini, Boris Christoff, Anita Cerquetti. Direttore Dimitri Mitropoulos. Di quell’evento storico (allora era normale; basti dire che dal 1955 la Scala ogni stagione aveva in cartellone quattro opere con protagonista Maria Callas…) di quell’Ernani, dicevo, ricordo persino il mio vestito, quando non saprei dire cos’avevo indosso ieri. Era una domenica pomeriggio e c’era il sole. Al termine della recita andai ai camerini degli artisti ma – fatto significativo considerando i lì presenti miei idoli del Monaco e Bastianini – feci la fila davanti al camerino di Mitropoulos, per l’emozione di potergli stringere la mano. Ricordo un uomo amabile e cordiale. Sgranava meccanicamente il grande rosario orientale. Quattro anni dopo mi sarebbe toccato vederlo stramazzare dal podio, durante una prova del concerto alla Scala: forse uno dei momenti più angosciosi della mia vita.
O rimembranze.
Torno all’Ernani di ieri sera. Niente paragoni per carità.
Dettaglio ameno: la spiritosa Maria Josè Siri (Elvira), presenza costante al Maggio e nei grandi teatri internazionali, si è presentata alla conferenza stampa in tacchi a spillo e vestita come una bambola ucraina. In scena è meno stravagante, con indosso un sia pur vistoso costume bianco ottocentesco (costumista Silvia Aymonino). Senza velleità interpretative, la Siri ha usato correttamente la sua voce sicura di “donna forte”, come lei ama definire indistintamente tutti i suoi personaggi. Elvira, protagonista femminile, donna particolarmente forte non è. Amata da ben tre pretendenti, finisce per non averne nessuno, ma non per colpa sua. L’amato Ernani (lui sì uomo forte tutto d’un pezzo) si elimina da sé per prestar fede a uno sconsiderato giuramento d’onore stipulato con il rivale Silva e lei, ma la storia non lo dice, magari finirà proprio nell’“aborrito amplesso” del suo designato sposo Silva, il pretendente più probabile, visto che il terzo è Don Carlo re di Spagna, e la Storia bisogna pure rispettarla.
Francesco Meli (Ernani) genovese, è il tenore italiano più acclamato del momento. Iniziato giovanissimo al canto, festeggia i suoi 20 anni di carriera, di cui 18 di collaborazione con la Scala dove ha interpretato ben 20 ruoli. Ha, a suo attivo, molti Ernani. Meli è persona garbata e cantante pregevole, con repertorio soprattutto verdiano. Difetto: non stravolge e ben sappiamo quanto nella lirica bisogni stravolgere per essere proprio qualcuno. Ma vediamo di non lamentarci, con i tempi che corrono.
Roberto Frontali (don Carlo, re) baritono collaudatissimo in campo internazionale, possiede un curriculum da far girare la testa. Ma ieri sera non era nei suoi giorni migliori.
Infine il basso ucraino Vitalij Kowaljow (de Silva) che, nonostante quella faccia da ragazzo, si aggira sui 50. Ha interpretato oltre 40 ruoli in gran parte verdiani e wagneriani (è stato Wotan alla Scala nella Walkiria inaugurale del 2011). Il suo nome (forse un tantino ostica la pronuncia) incomincia a girare veramente adesso. Possiede un timbro bronzeo sontuoso, il più gradevole da ascoltare, nel cast di questo Ernani.
Sul podio c’è James Conlon (New York, 1950) che abborda Ernani per la prima volta, nonostante gli oltre 500 titoli verdiani diretti. Il Maestro fu scoperto dalla Callas durante una prova del master da lei tenuto alla Julliard School. Disse la Divina “questo ragazzo è da tenere d’occhio. Molto preparato”. E per lui fu il lancio. Dopo il debutto con la NY Philarmonic (1974), ha diretto le più grandi orchestre Internazionali. Dal 2016 al 2020 è stato direttore principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai di Torino. Insignito di 4 lauree honoris causa, della Legion d’onore (2002) e dal 2018 Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Conlon è un signore minuto ma con impavida grinta, a giudicare dal ritmo serrato che ha impresso all’Orchestra del Maggio per questo titolo verdiano non di largo consumo. Sembra scritta per soddisfare un pubblico smanioso di pezzi a effetto: arie, assieme, cori – Mercè diletti amici (Ernani), Surta è la notte (Elvira), Oh dei verd’anni miei (Carlo), Infelice e tuo credevi (Silva), Si ridesti il Leon di Castiglia (Coro): tutte pagine entrate nel repertorio popolare. Nell’800, infatti, il suo bel successo l’ottenne. Poi però…
Adesso, diciamocelo: Ernani (dal dramma di Victor Hugo), non è una bella opera. L’azione è rapidissima, nessuna situazione di stasi. Con questa cavalcata mozzafiato (nel senso che non ti lascia respirare) di note, acuti, cabalette, è pane per i denti dei detrattori verdiani che in lui vedono il vessillifero del zumpapa. Il Coro, diretto da Lorenzo Fratini, e tutti quanti, si sono spolmonati con vigore. C’era per caso un innalzamento di suono, in sala?
Ma il Verdi di Ernani (sua quinta opera) era ancora giovane. E la zampata del genio arriva nel quarto (ultimo) atto – La Maschera-. È atto breve, tutto centrato sul terzetto Ernani/Elvira/de Silva. Qui, inattesa, insperata, si snoda una melodia struggente: il suono lontano della festa di nozze, il duetto d’amore, il fatale risuonare del corno e l’apparizione di Silva, poi la morte di Ernani chiudono l’opera con un equilibrio magistrale, quello che ritroveremo appunto nel grande Verdi.
I tre interpreti di ieri sera coinvolti in quest’atto – Meli, Siri, Kowaljow – come entrati in un’altra dimensione, si sono rivelati perfetti e soggioganti. Basta urli tonitruanti: un cantare soft e appassionato, proprio un piacere ascoltarli.
Lo spettacolo scenico è stato affidato al regista Leo Muscato e alla scenografa Federica Parolini (che a Firenze ha firmato la trilogia verdiana, con la regìa di Francesco Micheli).
Muscato (laurea in lettere e filosofia alla Sapienza di Roma) ha scelto “lo spirito rivoluzionario e anche un po’ barricadiero del coro” per puntare su “giovani cospiratori che cercano di boicottare il re di Spagna e giurano di esser pronti a morire per salvare la patria”. Quindi Ernani non più bandito ma giovane patriota, bravo ragazzo anche se un po’ testa calda. L’epoca è spostata dal Cinquecento originale all’Ottocento. Vedi i moti insurrezionali spagnoli del 1820, che furono miccia per rivolte in altri Paesi europei, di cui il nostro Risorgimento.
Il palcoscenico della sala Mehta avendo scarsa profondità, l’idea di Muscato/Parolini è stata di un sipario-parete che si apre in tre quinte spostate via via per creare gli spazi necessari.
Qualche incongruenza registica, come quando alla chiamata di Carlo: “miei fidi cavalieri”, irrompe in scena una turba di donzelle. Ma si è visto ben altro. Qui l’insieme funziona.
Lo spettacolo, tre ore esatte, con sopratitoli italiani e inglesi, ha ottenuto applausi intensi anche a scena aperta, costumanza raramente praticata a Firenze (merito degli amorevoli incitamenti di Pereira?) Alla fine, ovazione per Meli. Si replica: 15 e 18 novembre ore 20; 13 e 20 novembre ore 15,30.
“Ernani”, la quinta forsennata opera del giovane “Bepìn”. Ma lo struggente ultimo atto è la zampata del genio
Cartellone 2022/’23 dell’Accademia romagnola: 31 titoli. Il repertorio contemporaneo “protetto” da una “rete” di 4 teatri
ROMAGNA TEATRO, venerdì 21 ottobre ► (di Andrea Bisicchia) – Dicono che chi fa teatro lo fa per passione, non è vero, perché chiunque scelga una attività impegnativa, la fa sempre con passione, però bisogna capire fino a che punto la passione diventi competenza e professionalità.
Ruggero Sintoni e Claudio Casadio che, negli ultimi anni, hanno ricevuto molteplici riconoscimenti e che vivono il teatro con passione e professionalità, con la capacità anche, di meravigliare, hanno presentato la Seconda Stagione di “TEATRI D’INVERNO” che ha la sua sede presso “Il Piccolo” di Forli, che era stata la prima “casa” di Accademia Perduta.
In che cosa consiste la meraviglia? Nell’ avere individuato e scelto trentuno spettacoli di teatro contemporaneo, con un cartellone che si caratterizza per aver dato spazio a ben nove debutti, col compito di esplorare linguaggi, format, idee, frutto della creatività delle nuove generazioni.
Accademia Perduta diventa, così, lo specchio, abbastanza singolare, di due anime produttive, quella che riguarda Il TEATRO RAGAZZI e quella attenta a ciò che accade sulla scena contemporanea, in particolare, sui temi centrali del nostro vivere quotidiano.
L’avvio di Stagione dei TEATRI D’INVERNO è affidata a “IL TERZO REICH” (2-3 dicembre) di Romeo Castellucci, uno spettacolo costruito sulla rappresentazione “spettrale” di una serie infinita di sostantivi che vengono proiettati uno a uno, come a indicare il trattamento che viene riservato alla parola sotto il suo aspetto quantitativo.
Seguirà “Adam Mazur e le intolleranze sentimentali”, del Collettivo Lacorsa che porta in scena la storia di uno scrittore che vuol chiudere col proprio passato e liberarsi di tutti quei legami che, per lui, sono diventati intolleranti.
Stivalaccio Teatro presenta “Don Chisciotte”, tragicommedia dell’Arte, essendo la storia di due Comici della Compagnia dei Gelosi che, condannati a morte, grazie al loro estro di saltimbanchi, fanno di tutto per procrastinare l’esecuzione.
Alessandro Albertin è il protagonista di “Perlasca il coraggio di dire no”, sulla figura, ormai leggendaria di colui che ha salvato migliaia di ebrei, pur vivendo una vita normalissima.
Il tema della bomba atomica, oggi così attuale, è portato in scena da Roberto Mercadini, con lo spettacolo “Little Boy, storia incredibile e vera della bomba atomica”, a cui, negli anni Sessanta/Settanta erano stati dedicati due spettacoli al Piccolo Teatro di Milano: “Sul caso Oppenheimer” di Kipphardt e “Duecentomila e uno” di Salvato Cappelli.
La scelta di Nunzia Antonino e Marco Gossi è stata indirizzata verso una grande stilista del primo Novecento: Elsa Schiaparelli, tanto che il titolo del loro spettacolo è “Schiaparelli Life “che ha per protagonista una donna che è stata collaboratrice di Daly, Ray, Cocteau, e che ha vestito Greta Garbo, Marlene Dietrich etc.
Filippo Nigro con “Every brillant thing” propone, sulla scena, una lista delle cose per cui vale la pena vivere, mentre “Il delirio che si fa sogno” è l’argomento dello spettacolo proposto dal Teatro delle Albe/Luigi Dadina, che è anche autore e regista di “Mille anni o giù di lì”, storia di un uomo che scopre, dentro di sé, un nomadismo che lo conduce ad attraversare una dimensione profonda della sua esistenza, mosso da parole che hanno a che fare con la poesia.
TEATRI D’INVERNO si conclude a maggio con “Spettacolo divertentissimo che non finisce assolutamente con un suicidio” di Lido Guenzi che ne è anche interprete, la cui trama rimanda alla vita di tante persone che consiste nel sopravvivere lasciandosi dietro tanta miseria.
Gli spettacoli elencati sono delle novità che, però, Accademia Perduta non abbandona a loro stessi, avendo creato una RETE per proteggerli, inserendoli in una programmazione fatta solo di testi contemporanei, portati in scena da notissimi attrici e attori, si va da Valeria Solarino a Elisabetta Pozzi, Marisa Laurito, Ascanio Celestini, Valerio Binasco, Silvio Orlando, Claudio Casadio, Cochi Ponzoni etc.
La RETE è formata, oltre che dal Piccolo e dal Teatro Diego Fabbri di Forlì, anche dal Teatro Masini di Faenza e dal Teatro Goldoni di Bagnacavallo, la cui programmazione sta già registrando gli esauriti, per quanto riguarda gli abbonamenti.
Intanto la Stagione Ufficiale inizia stasera venerdì 21 al Teatro Masini di Faenza, con “Servo di scena”, protagonisti Geppy Gleijeses, Maurizio Micheli e Lucia Poli, che rimarrà in cartellone fino a domenica 23.
Mai stato a Firenze un simile trionfo. Cecilia Bartoli col raffreddore? Macché. Pubblico scatenato per quattro ore
FIRENZE, mercoledì 19 ottobre ► (di Carla Maria Casanova)
Un successo così Firenze se lo sognava da tempi remoti. Pereira stesso era inquieto, ansioso. Alcina di Haendel, chi la conosce? Quattro ore di spettacolo. E la regìa di Michieletto, che è sempre un terno al lotto. E l’azzardo di aver tentato per la protagonista (storico cavallo di battaglia della inarrivabile Joan Sutherland) il mezzosoprano Cecilia Bartoli la quale, va bene che è diventata donna di grande potere, direttrice artistica del Festival di Pentecoste di Salisburgo, ma non canta più da tempo ruoli così impegnativi (tanto meno in un registro vocale come questo) ed ha anche a suo attivo parecchie rinunce dell’ultimo momento, come puntualmente stava per verificarsi ieri sera, con Pereira che è dovuto presentarsi al pubblico prima dell’inizio con il microfono in mano “Cecilia Bartoli…” cosa cui ci aveva tanto abituati la sublime Montserrat Caballè. Qui il seguito del comunicato è stato meno tragico: “Cecilia ha preso il raffreddore, ma forte com’è riuscirà a vincere la sua battaglia… se la incoraggiate con il vostro calore…” Forse è stato proprio questo annuncio a decretare l’atmosfera della serata, subito iniziata con un applauso fragoroso, ripetuto con forza per ogni aria di ognuno dei cantanti. Mai sentito a Firenze. Sarà anche stata la claque – come insinuano certe malelingue – (la Bartoli conta con sostanziosa compagine di fans scatenati) comunque ha funzionato senza isterismi. E bisogna dire che tutti gli interpreti sono stati sontuosi, l’unica un po’ in défaillance proprio la Bartoli (specie nel primo atto) ma con il raffreddore come si può giudicare? Applaudiamo per incoraggiare. E già al secondo atto e poi al terzo anche la Bartoli, in forza della sua strepitosa tecnica vocale, ha dato prova di eccellenza.
Alcina, monumento del repertorio musicale barocco, è apparsa sulle scene a Londra nel 1735. È opera ariostesca (procede dall’Orlando furioso) di incantamenti e di magie. Non per niente Alcina, trasforma i suoi amanti (non in porci come usava la sua collega Circe, ma in bestie feroci). Però succede che anche un suo amante da lei molti amato, le fa le corna. Dopo moltissime complicazioni messe in atto da vari personaggi, tutti rientrano nel dovuto e trovano persino modo di infrangere il potere della Maga, rendono aspetto umano agli uomini da lei irretiti suoi e se ne vanno lasciandola sola e disperata. (Finalmente, una volta tanto!).
Ora, i miei due lettori (spero qualcuno di più) sanno che sono una fervida sostenitrice di Damiano Michieletto fin dal suo primo apparire a Pesaro (2007 se non erro). Qui Michieletto è come sempre intelligente, ha soluzioni teatrali prestigiose: la piattaforma girevole con pareti in plexiglass con cui divide gli spazi consentendo la visibilità di entrambi; le scene nere con gli specchi riflettenti; gli amanti succubi delle arti di Alcina impersonati da una folla miserevole di uomini seminudi che vaga in secondo piano, come in un girone dantesco; lo specchio infranto che vanifica la magìa e, nel finale, gli infiniti frammenti di specchio che calano dall’alto mentre Alcina, oramai larva umana, perde i capelli a ciocche e rimane calva. E tanti altri momenti. Però troppi, da scervellarsi per poterli decifrare. Michieletto cede alla ridda di idee, intuizioni, rischi di cui è sempre stato ricco e li mette tutti in scena. E poi quella mania oramai dilagante di usare dei liquidi (di solito rosso sangue) da spargere sul proprio corpo, sulle mani, sulle vesti. Una schifezza assoluta. Infine, negli amplessi amorosi, mette troppi uomini a torso nudo (molto più sexy fare l’amore con la camicia) allorché gli uomini, e soprattutto i cantanti, a torso nudo, difficilmente sono un bel vedere. Ma passi. Il vero problema è la magìa. Che non c’è. Questa Alcina è totalmente priva di magìa. So benissimo che parlare dei colleghi è quanto mai irritante però quel prodigioso Rinaldo (sempre Haendel) di Pierluigi Pizzi, lo ricordate? E anche Carsen, per moderno che sia, la magìa l’ha sempre ottenuta. Dunque è possibile riprodurla in scena, anche al giorno d’oggi.
E adesso la musica. Innanzi tutto in buca ci sono Le Musiciens du Prince-Monaco, ensemble nato nella primavera 2016 all’Opéra di Montecarlo per iniziativa di Cecilia Bartoli che ne è anche la direttrice artistica. Li dirige il milanese Gianluca Capuano, dal 2019 direttore musicale, esperto nella direzione della musica antica, fondatore nel 2006 del Canto di Orfeo, ensemble dedicato ai capolavori del barocco europeo. Per Alcina, una esecuzione da manuale. Strumenti antichi, estrema accuratezza stilistica, direzione gioiosa sono il pregio numero uno di questo spettacolo.
Gli interpreti, diciamo pure favolosi. Lasciando da parte per un attimo Cecilia Bartoli con il raffreddore, si passa a Carlo Vistoli (Ruggiero) molto aitante controtenore tra i più apprezzati in campo internazionale e con un importante spessore vocale. Qui è passato da una spettacolare baldanza (“Bramo di trionfar”) a una delicatezza incantevole (“Verdi prati”). Lucia Martìn Cortòn (Morgana) studi di canto e violino, ha voce squillante manifestatasi sicurissima nel registro acuto (“Tornami a vagheggiar”); Kristina Hammarström (Bradamante), mezzosoprano svedese, che nella storia è donna facente finta di essere uomo, assolve perfettamente i due ruoli, con grande stile ed espressività; Petr Nekoranec (Oronte) tenore cecoslovacco è elegante e con solida tessitura solida; Riccardo Novaro, baritono specializzato in Mozart e Rossini, si distingue nella pur piccola parte di Melisso. Quanto a Oberto, parte di solito affidata a un sopranino di primo pelo, qui è addirittura un piccolo bambino, solista del Wiltener Sängerknaben di Innsbruck, e canta con sicurezza. Uno di quei talenti precoci che, trecento anni fa, sarebbe stato vittima della truce pratica della castrazione.
E arriviamo –torniamo- a Cecilia Bartoli, figlia di insegnante di canto, si è specializzata nel repertorio antico ed ha bruciato le tappe esibendosi subito nei grandi teatri di tutto il mondo. Si dedica alla ricerca di opere sconosciute, vedi il repertorio di Vivaldi. Ha inciso un numero impressionante di dischi e album. Il suo particolare canto, senza concessione alcuna agli abbellimenti, incontra molto nel mondo dei giovani. La padronanza della voce, e della scena, le permettono di affrontare ruoli impegnativi anche non in condizioni fisiche ottimali, come è successo con questa Alcina dove, in arie come “Di cor mio” o “Ah Ruggiero crudel” ha raggiunto un notevole impatto.
Le scene, con largo uso di proiezioni, sono di Paolo Fantin, i costumi di Agostino Cavalca (per Alcina, in anonimo abitino nero, si poteva trovare una foggia che indicasse meglio il personaggio). Le luci di Alessandro Carletti. Le coreografie di Thomas Wilhelm. Lo spettacolo è dato con sopratitoli in italiano e inglese.
Alla fine un trionfo. Spettatori plaudenti in piedi. Mancava poco che urlassero. Pereira sarà contento.
FIRENZE, Teatro del maggio Musicale Fiorentino, sala Mehta. Repliche: giovedi 20, lunedi 24, mercoledi 26 ottobre ore 19, sabato 22 ore 18.
“Fedora” in giallo (l’assassinio dello Zar, 1881), ambientata alla Magritte, tra fremiti palpiti incanti. Ma addio malinconia
MILANO, domenica 16 ottobre ► (di Carla Maria Casanova) – Ieri sera, alla Scala, “Fedora”, di Umberto Giordano, libretto di Colautti, tratto dal dramma di Victorien Sardou (il quale dramma è un giallo). E a un giallo si è ispirato Mario Martone nel mettere in scena l’opera, la terza di Giordano – dopo Andrea Chenier e La cena delle beffe-, di cui cura la regia alla Scala insieme con la scenografa Margherita Palli e la costumista Ursula Patza, sue collaboratrici storiche.
Alla Scala “Fedora” arrivò nel 1932, dopo aver debuttato a Milano già nel 1898, ma al Teatro Lirico, più ardito nell’affrontare un delicato tema poliziesco e spionistico. Si tratta di una cronaca sconvolgente per l’epoca: il terrorismo e l’assassinio dello Zar Alessandro II, avvenuto nel marzo 1881. Parigi non se ne fece un problema e la rappresentò addirittura un anno dopo, registrando 135 recite che ebbero un forte impatto sulla cultura e sulla vita sociale del tempo. (Il personaggio protagonista era stato tagliato su misura per Sarah Bernhardt, interprete travolgente).
La Scala, in seguito, recuperò Fedora con edizioni storiche, dirette via via da De Sabata, Marinuzzi, Gavazzeni il quale ultimo, nel 1956, ebbe per protagonisti Callas e Corelli. Il carisma e la bellezza di quella coppia non potranno mai più essere eguagliati (lasciate dire a me che le vidi tutte: prova generale più sei recite).
L’attuale produzione scaligera era stata progettata già nel 2019. Martone era andato a San Pietroburgo a parlarne con Gergiev. Poi il Covid. Ora Martone si era domandato se non fosse il caso di rivedere l’intera impostazione, dopo tutto quel trambusto esistenziale generato dalla pandemia. Risolse che Fedora era di per sé una concatenazione di eventi negativi, quasi il gioco di un dio maligno. Concretizzò dunque l’idea di riferirsi a Magritte, pittore del mistero e del silenzio, passato dal surrealismo alla immobilità e incomunicabilità. Non per niente i suoi Amanti hanno entrambi il volto coperto da un velo. Così nell’atto secondo viene riprodotta pari pari la celebre casa de L’impero delle luci, con un doppio piano interno/esterno per la scena del concerto di pianoforte durante il drammatico duetto tra Loris e Fedora. E compaiono ovunque le tristi figure degli sbirri. Va tutto bene. Le scene di Margherita Palli sono belle. Però se Martone è voluto sfuggire di proposito allo “stretto naturalismo imposto dal libretto” è anche sfuggito all’ambiente romantico, malinconico eppur passionale di questa opera, che non è affatto “brutta, senza slanci, momenti magici”, come dichiarano i detrattori. È, al contrario, un’opera piena di fremiti, palpiti, incanti. Gli spettatori abbastanza vecchi (felix senectus!) per aver visto la Fedora del ‘ 56, ricorderanno. Martone, classe 1959, non ha questa fortuna. La sua sigla artistica è quella del teatro di azione, intelligente e colto, ma la “malinconia” di cui parla non c’è. La originale atmosfera era ancora presente nella precedente edizione scaligera del 1993 (ripresa nel 96 e nel 2004), regia di Lamberto Puggelli, scene e costumi di Luisa Spinatelli.
Passiamo agli interpreti: la bulgara Sonya Yoncheva ha timbro vocale che tende al metallico, non sempre gradevolissimo. Poi, d’accordo, oggi anche le aristocratiche non son più quelle di cinquant’anni fa, ma questa scosciata principessa Romazoff può essere tutt’al più una commessa arrampicatasi nella scala sociale (chiaramente è una scelta della regìa). Roberto Alagna, pur conservando la classe del grande, ha voce arrochita. Disperatamente sfuocato (volevo dire cannato) il celebre Amor ti vieta. Nel secondo atto Alagna ha ripreso forza. Forse è un suo handicap: deve scaldarsi la voce. Alla Scala lasciò il teatro durante l’Aida, per aver avuto problemi con Celeste Aida, l’aria di sortita del tenore (a voce fredda). Ma insomma un cantante questo impiccio non se lo può permettere. Il duetto finale con il soprano molto bene. Anche per la Yoncheva. Gli altri sono secondari: Serena Gamberoni (Olga) è sopranino vivace ma esile. La giovanissima Cecilia Menegatti (piccolo Savoiardo), allieva solista del Coro di Voci Bianche dell’Accademia, è ancora acerba. Assai bene George Petean (De Siriex): bel timbro baritonale e dizione perfetta. Sul podio c’è Marco Armiliato, debuttante alla Scala. Collaboratore stabile del Metropolitan di N.Y., Direttore musicale del Festival dell’Arena dal 2022, ha accumulato lunga esperienza accompagnando grandi cantanti. Anche con l’orchestra scaligera ha stabilito presto un buon rapporto, evidenziato nell’intermezzo a sipario chiuso, quando l’orchestra. è protagonista assoluta.
Siccome la Fedora è quello che è (avvincente, a parer mio) molto bene strutturata e riserva un finale drammaticissimo con Fedora che muore tra le braccia dell’amato Loris, e loro due (Yoncheva/ Alagna) si sono comportati da straziati amanti come di dovere, il pubblico è scattato alla fine in un vigoroso applauso. È spettacolo breve: due ore e 30 minuti circa.
- (importante!) Stamattina, su Rai 5, mi sono rivista lo storico Trovatore del 1957. Ettore Bastianini, Leyla Gencer, Mario del Monaco, Fedora Barbieri, direttore Fernando Previtali. In play back tra l’altro nemmeno sincronizzato bene. Spettacolo che pare una comica. Però, signori, le voci! L’opera è questa. Si può rinverdire lo spettacolo. Tanti ci sono riusciti, a cominciare da Visconti. Ma a stravolgerlo non è più melodramma. Come voler ambientare Assassinio sull’Orient Express sullo Shinkansen Tokyo-Osaka. O vestire da Barbie le Marionette. Allora tanto vale dare l’opera in forma di concerto. Poi, siamo sempre lì: e le voci??? Questo Trovatore sarà ritrasmesso su Rai 5 sabato 22 ottobre alle ore 10.30. Accendete il televisore!
Teatro alla Scala. “Fedora” di Umberto Giordano. Repliche: Martedì 18 ottobre, Venerdì 21, Lunedì 24; Giovedì 27 ore 20; Domenica 30 ore 14.30; Giovedì 3 novembre ore 20.