FIRENZE, mercoledì 25 gennaio ► (di Carla Maria Casanova) – Era il 1767. Già che Mozart si trovava a Vienna con il padre Leopoldo e dava prova di straordinarie doti musicali da tutti riconosciute, Giuseppe II imperatore d’Austria gli commissionò un’opera. Si trattava del dramma giocoso in tre atti “La finta semplice” su libretto di Carlo Goldoni, rielaborato da Marco Coltellini. Mozart prese la commissione molto sul serio e incominciò a comporre. Ci mise dentro tutto quello che sapeva, raggiungendo una lunghezza spropositata: quasi 4 ore.
Dimenticavo: Mozart aveva 12 anni.
Alla notizia di questo incarico al giovanissimo compositore, l’ambiente musicale viennese si inalberò, si offese addirittura. Cos’era, uno scherzo? Tanto si agitarono che l’andata in scena slittò di due anni e avvenne a Salisburgo e non a Vienna. Oramai di anni Mozart ne aveva ben 14.
Oggi, per la prima volta, “La finta semplice” appare a Firenze, in apertura del Carnevale del Maggio ed è ospitata al Teatro Goldoni, incantevole teatrino inaugurato dal Granduca di Lorena nel 1817. È purtroppo poco usato. (Una inaugurazione in tempi moderni avvenne, dopo restauro, nel 1998, con l’Orfeo di Monteverdi. Lo spettacolo, inventato da Luca Ronconi, fu una operazione titanica, ai limiti della follia: la platea venne allagata: circa 40 mila litri d’acqua – non dico i problemi del peso! – per farci sorgere nel mezzo un’isola coperta da un verde prato. Conseguenza: tolta la disponibilità della platea, la capienza del teatro si limitava ai 170 spettatori dei palchi. Le recite furono 8.
“La finta semplice” andata in scena ieri sera (repliche 26, 28, 29 gennaio) ha subìto sostanziosi provvidenziali tagli soprattutto nei recitativi, per la onesta durata complessiva di due ore e 30, compreso un intervallo. L’entusiasmo giovanile di Mozart aveva persino ipotecato tre finali, ed eseguire l’opera integrale sarebbe stato un po’ provante. Invece così è un gioiello. Un piccolo capolavoro? Sia. Intendiamoci, non è ha l’aulica grandiosità di Idomeneo né le astuzie tecniche di Così fan tutte e tanto meno la tragica potenza di Don Giovanni… Però il taglio musicale è di estrema gradevolezza e dà l’ennesima prova della strepitosa genialità di questo ragazzo che, ai limiti dell’adolescenza, già padroneggia con disinvoltura gli stilemi dell’opera buffa italiana, aggiungendo una personale impronta briosa e spumeggiante. Sono note che sorridono, quando non ridono addirittura. Ascoltarla è un godimento.
La storia naturalmente è, perdonate, cretina (ho detto a iosa che l’opera buffa mi dà sui nervi), né merita di soffermarcisi sopra. Il titolo già lascia immaginare la trama, oltre tutto di particolare complicazione. I personaggi sono 7 e, dice a ragione il direttore viennese Theodor Guschlbauer specialista del repertorio mozartiano, si tratta di 7 protagonisti. Forse in nessun’altra opera mozartiana tutti gli interpreti sono così seriamente impegnati. Anche perché cantano spesso insieme – quintetti, “settetti” (si dice?) – offrendo una prova quasi corale. E poiché in questa operazione sono impegnati i giovani dell’Accademia, alcuni addirittura debuttanti, mi sembra doveroso nominarli tutti: Eduardo Martìnez Flores, Lorenzo Martelli, Xenia Tziouvaras, Rosalia Cid, Luca Bernard, Davide Piva, con eccezione e riguardo particolare per Benedetta Torre (Genova 1994), la quale copre il ruolo del titolo, ed è considerata tra le migliori interpreti mozartiane della sua generazione.
L’anziano direttore Theodor Guschlbauer, forte della sua esperienza formatasi sotto la guida di Swarovski, von Matacic, Karajan, e dei successivi prestigiosi incarichi internazionali (nel 2022 ha diretto al Maggio Le nozze di Figaro) ha guidato i 25 elementi dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino regalando una esecuzione lieve eppure grintosa, felice, come se quella musica fosse stata scritta da un consumato professionista.
Lo spettacolo è portato in scena dalla regista tedesca Claudia Bersch – debuttante a Firenze – che ne ha fatto una sorta di pot-pourri, con tre personaggi storici fissi (Mozart bambino e genitori) e il resto del cast in abiti attuali. Si muovono tutti sulla costruzione scenica degli studenti del Triennio di Scenografia NABA, Nuova Accademia di Belle Arti guidata da Margherita Palli (per intenderci, la storica collaboratrice di Ronconi). E la mano della Palli esce qua e là, a garantire la estrosa provenienza del gruppo. Per esempio nella trovata del finale (foto sopra), con la protagonista che se ne va in carrozza, dove a rappresentare il calesse è una cornice che inquadra la dama con un movimento ondulatorio a simulare l’andatura del veicolo mentre i due sposi-mancati (i fratelli – gentiluomini sciocchi -) tramutati da asini dalle lunghe orecchie, sono al traino della carrozza stessa, imbrigliati dalle redini della trionfante Finta semplice.
Lo spettacolo piace. Vigorosi applausi per tutti.
“La finta semplice” di Mozart dodicenne. Durava 4 ore. Ora è un gioiello di due ore e mezzo. Un impagabile godimento
Uno spettacolo al Teatro Studio, in onore del “maledetto” Baudelaire. In buona compagnia con Dante e con i Greci
MILANO, giovedì 12 gennaio ► (di Paolo A. Paganini) – Charles Baudelaire, autore dell’unico e fondamentale libro di poesie, “Fleurs du mal” (1857), è fra le più alte espressioni della poesia europea di tutti i tempi. Ebbe il trascinante e suggestivo fascino di involontario caposcuola in una confraternita di “maledetti”, da Verlaine a Mallarmé, a Rimbaud.
Lui, Charles, il “maledetto” per antonomasia, tanto che il suo libro dovette subire un processo per immoralità. Che ne aumentò la fama.
La maledizione, che Baudelaire si portava addosso, nasceva dalla sua ripugnanza per la vita borghese, con il suo nero seguito di angoscia, disgusto, malinconia. Per la noia, insomma, che Charles aveva coniato dall’inglese “spleen”, “umore nero”. Un termine medico entrato poi nel vocabolario d’uso comune. Alla base di tutto, c’era in Charles il sentimento della caduta, il senso di una battaglia persa, tra la carne e lo spirito, dell’inferno contro il cielo, di Satana contro Dio.
Intravedendo però un’unica via di salvezza nella la bellezza, anelito di speranza, ultimo doloroso rifugio del poeta.
La bellezza eterna e l’arte “che ne è il suo riflesso”, unica arma contro “la realtà ripugnante del tempo”: vero nemico dell’umanità, un mostro che distrugge la forza vitale.
Le droghe, poi, serviranno a fornire un po’ di fiducia, necessaria per sopravvivere: l’oppio, l’hashish, e, soprattutto, il vino. Sempre con controllata moderazione, solo per raggiungere i mistici e meravigliosi “Paradisi artificiali”, perché “là, tout n’est qu’ordre et beauté, calme et volupté”. Eppure, con la sua straordinaria potenza poetica, fatta di verità e di fascinosi simbolismi, Charles, il poeta maledetto, riuscì perfino a immortalare la bellezza del male. Del male di vivere, di ieri e di oggi.
Questa breve introduzione ci consente di entrare in una triade meravigliosa di poesia, com’è creata e recitata al Teatro Studio, da Toni Servillo, con la regia autorale di mostruosa abilità, dello scrittore Giuseppe Montesano, che ha drammaturgicamente cucito insieme: “Tre modi per non morire: Baudelaire, Dante, i Greci”.
In un monologo di 106 minuti senza intervallo, detti da Servillo al leggio. Niente scenografie, solo luci e un misterico, suggestivo e meraviglioso commento musicale, per lasciare così libero campo ed esaltazione solo alla incontrastata maestà della parola, di un fulgore abbacinante, grazie anche e soprattutto al suo interprete, che ha lasciato da parte la sua istrionica ironia, così malinconica e dolorosa della “Grande bellezza”, per riprendersi in un altro eccezionale versante drammaturgico, di una generosità interpretativa di rara potenza e passionalità drammatica.
Delle tre parti del lavoro di Montesano, quella di Baudelaire occupa lo spazio maggiore. Che volete, il verginale ed angelico Dante come può competere con il “maledetto” Baudelaire, poeta imparentato con noi moderni e con il nostro tempo disperato, come fare paragoni fra il peccaminoso Paradiso artificiale di Baudelaire e le mistiche serenità del Paradiso dantesco?
Diciamo che Dante, qui, scivola via.
Ma poi il monologo si rifà potentemente con i Greci, che già duemilacinquecento anni fa inventarono la logica, la filosofia e la cultura, prevedendo fin da allora il fallimento dell’uomo nella sua attuale disperazione di un mondo senza anima, senza creatività, schiavo della dittatura tecnologica, dove il digitale ha preso il posto della libertà, della verità, dei sentimenti, ed ora l’angoscia e il suo spleen hanno scavato una irrimediabile fossa di angoscia, di orrori, di noia. Ed ogni ricerca di bellezza e di libertà è diventata inutile. Pax.
Entusiastici applausi finali, e un’intima soddisfazione, o una speranza, o un’illusione: il teatro ha dimostrato che sa ancora parlare al suo pubblico. Una specie di rinascita?
Si replica fino a domenica 22.
Lettura quasi shakespeariana d’un possente “Boris Godunov” alla Scala. Grandi Riccardo Chailly e Ildar Abdrazakov
MILANO, giovedì 8 dicembre ► (di Carla Maria Casanova)
Boris Godunov alla Scala per l’inaugurazione di stagione 2022-2023. Se ne è parlato da tempo anche perché si è trattato quasi di una inaugurazione del Teatro in senso lato. Per via del Covid, ovviamente. Ma, al contrario di quanto ci si sarebbe aspettato, è subentrata una sorta di parola d’ordine (“Si estinguano le faci e non si offenda, col clamor del trionfo, i prodi estinti”, ordina il Doge nel Simon Boccanegra ). Agire quasi “in sordina”, parola non confacente ad uno spettacolo musicale … Diciamo allora “in austerità”, citando solo la presenza dei nomi della politica (presidente della Repubblica, del Senato, del Consiglio) con l’aggiunta di Ursula von der Leyen. Infatti, una platea con il nero imperante e nessuna divagazione trasgressiva nelle toilettes delle dame. Per la prima volta, l’usata infiorata della sala riguardava esclusivamente il balconcino del palco ex-reale. Gli applausi per gli occupanti di questo palco hanno accumulato minuti 5 (oso dire esagerati). Due gli inni nazionali: Italiano ed europeo.
Lo spettacolo essendo stato proiettato in 32 luoghi dei 9 Municipi milanesi e in tre spazi nell’area metropolitana per un totale all’incirca di 10.000 persone, oltre allo streaming su Rai Uno che deve aver accontentato migliaia di appassionati casalinghi, se qualcuno non ha visto questo Boris è segno che proprio non voleva vederlo. La ormai imperante soluzione dello streaming, indispensabile nei due anni di galera, ha però un inconveniente. Essere un deterrente assoluto per la presenza in teatro del pubblico, che diserta sempre più le sale. Ci sarà un modo per farlo ritornare (il pubblico)? Non so.
Dunque il Boris. Gigantesco capolavoro dalla lunga e travagliata storia. Modesto Musorgskij incominciò a comporlo, sulla tragedia di Puškin, nel 1868 e nel 69 era bell’e pronto. Ma non piacque alla censura dei Teatri Imperiali che gli impose delle rettifiche, per esempio aggiungere un personaggio femminile nel senso di una storia d’amore (erano previste nell’opera ben quattro donne, ma un po’ defilate). Il musicista aggiunse il famoso “atto polacco”, con il personaggio della bella Marina, niente male se si vuole, ma che non c’entra un granché con il resto dell’opera. Comunque così alla giuria il Boris piace. Purtroppo, nel 1881 Musorgskij, alcolizzato, muore cinquantenne e per il Boris seguono altri rifacimenti, addirittura ri-orchestrazioni, per mano di Rimskij-Korsakov e poi di Šostakovič. Versioni brillanti più “teatrali” con un bel duettone d’amore e gli atti un po’ rimescolati, chiudendo con una scena meno traumatica, per il pubblico, della morte dello zar, finale di grande impatto che per fortuna è toccato a noi ieri sera. Il maestro Riccardo Chailly direttore dell’opera ha infatti scelto la prima edizione originale, 1869. Il “mai data alla Scala” non è però esatto. Anche Gergiev, che diresse il Boris agli Arcimboldi nel 2002, usò l’edizione 1869 (senza atto polacco) ma Chailly ha ripescato una ennesima nuova edizione critica (di Levašev) con qualche battuta in più.
E adesso subito, senza più tergiversare, questo bellissimo Boris Godunov. Regìa di Kasper Holten, scene di Es Devlin, costumi di Ida M. Ellekilde, luci di Jonas Bogh. Cast di cantanti russi. Protagonista Ildar Abdrazakov. Il sipario si apre su una scena nera in cui si immette il coro femminile dai costumi rossi. Bellissimo effetto. Poi ci sarà anche un coro di pellegrini in vesti bianche e, per l’arrivo e incoronazione dello zar, un tripudio di oro. Bello, bello. L’apparizione di Boris al popolo adorante avviene con una immagine da Flauto magico: al centro si apre un corridoio pieno di luce dal quale escono i monaci e i boiari in costumi lucenti e poi lui, lo zar di tutte le Russie, con l’imperio trascendentale del Sarastro mozartiano. Nella successiva scena della cella di Pimen il fondale e il pavimento sono la proiezione di uno scritto: il diario che il monaco sta scrivendo sugli eventi sanguinosi che hanno portato Boris al trono. Lo zar è infatti accusato di aver ordito l’uccisone dello zarevic Dimitri, legittimo successore di Ivan il Terribile (che nel racconto di Puskin viene ricordato come meraviglioso monarca lungimirante). Qui, nella regìa, qualcosa di troppo: l’apparizione del bambino insanguinato, che puzza di gran Guignol. Presenza ripetuta nel finale, quando addirittura i bambini insanguinati sono i due figli di Boris, presentimento di un futuro carico di orrori. È invece molto ben congeniata la fuga del falso Dimitri dal confine con la Lituania, facendolo minacciare con la pistola il doganiere che gli aprirà il cancello. Nella seconda parte del’opera (quattro atti e sette quadri) i personaggi vestono abiti ottocenteschi, portati ad una dimensione umana più accessibile, seguendo il dramma psicologico del regicidio. Boris non muore cadendo dal trono ma dal suo letto, abbracciato ai figli. Sul corpo oramai esanime dello zar plana il sorriso sardonico del falso Dimitri: “È trapassato” (vedi Jago a Otello “Ecco il Leon” o Tosca a Scarpia: “E davanti a lui tremava tutta Roma…”).
Boris Godunov è teatro e soprattutto musica. Musica possente ma anche intimista. Chailly (questa la sua nona inaugurazione di stagione scaligera) affronta la partitura integra di Musorgskij per la prima volta, dopo sporadiche esperienze nel repertorio russo. Entusiasta di questa prima versione, ne ha fatto una lettura “shakespeariana” avvicinando Boris al Macbeth, diretto nella inaugurazione scorsa. I due protagonisti sono uniti nell’ambizione del potere, nel delitto e nelle allucinazioni. E così Chailly li ha descritti, puntando sul versante psicologico, sottolineando l’evidenza drammatica nelle sue sfumature più intime.
Gli interpreti (15, con 6 protagonisti ma con parti minori distribuite perfettamente) sono tutti dei fuoriclasse specialisti di questo repertorio. Protagonista Ildar Abdrazakov, probabilmente oggi il miglior Boris sulla piazza. La storia cita tanti grandi e grandissimi Boris passati dalla Scala, dallo storico Fiodor Chaliapin (il Caruso dei bassi) a Zaleski e Carlo Galeffi diretti da Toscanini, e Tancredi Pasero, Boris Christoff, Nicola Rossi Lemeni, Nicolai Ghiaurov, Nicola Ghiuselev e i nostri Ruggero Raimondi e Ferruccio Furlanetto, tanto per ricordare che non furono solo i russi a spopolare. Su Rossi Lemeni c’è un piccolo prezioso aneddoto. Il basso, nato a Istanbul da padre italiano e madre russa, si chiamava Nicola Rossi. Fu Toscanini a dirgli “Non puoi affrontare un personaggio come Boris Godunov con quel nome, devi aggiungerne un secondo”. Il cantante aggiunse il nome elaborato della madre: Lemeni. Di Boris, Lemeni aveva oltre alla voce e alla figura anche il viso impressionante, che manca ad Abdrazakov il quale, sia pur con imponente statura fisica, ha un viso pacioso da bravo ragazzo, poco confacente all’imperio di uno zar. E che zar. I primi piani televisivi non lo avvantaggiano. È però efficace ed avvincente l’espressione delle sue tormentate allucinazioni. E la voce grande, calda, rivelatasi nel 2000 al Concorso Maria Callas di Parma, gli hanno permesso di costruire un Boris di forte emozione. Cantante oramai internazionale di enorme prestigio, Abdrazakov è alla sua sesta inaugurazione scaligera. Alla Scala tornerà nel marzo 2023 per interpretare i quattro personaggi diabolici nei Contes d’Hoffmann diretti da Frédéric Chaslin.
Nel cast del Boris si evidenziano altri due formidabili bassi: il monaco Pimen e il vagabondo Varlaam, rispettivamente Ain Anger e Stanislav Trofimov (parecchi grandi protagonisti hanno interpretato tutti e tre i ruoli). Sono tenori Grigorjij (Dmitry Golovnin) , il viscido Sujskij (Norbert Ernst) e l’Innocente (Yaroslav Abaimov). È baritono Scelkalov (Alexey Markov). L’ostessa è Maria Barakova. Direi che Ain Anger, nel monologo di Pimen con il falso Dimitri, abbia toccato punte assolute nel tono sussurrato, quasi estatico.
Impegno grandissimo quello del Coro del Teatro alla Scala diretto da Alberto Malazzi con la partecipazione del Coro di Voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni. L’Orchestra della Scala sotto alla bacchetta di Chailly ha dato una ennesima pregevolissima prova.
Lo spettacolo, iniziato alle ore 18,10 (10 minuti di ritardo per via degli applausi alla compagine governativa) dura tre ore e mezza. Mi dicono che i commenti alla TV dei presentatori, durante la mezz’ora di intervallo (anche io ricordo quelli degli anni passati), sono di una pochezza e inesperienza imbarazzanti. Uno spettacolo lirico non è “Ballando con le stelle”. Possibile che Mamma Rai non possa offrire niente di meglio? Magari una sostanziosa carrellata sul pubblico, che tanto sgomita per farsi riprendere dalla potente TV , sarebbe la soluzione migliore (senza far parlare le belle signore, per carità!).
“Boris Godunov” si replica il 10, 13, 16, 20, 23, 29 dicembre alle ore 20
Scienziati nucleari. Salute a rischio anche per le generazioni che verranno, quando si ha a che fare con l’energia atomica
BAGNACAVALLO (RA), venerdì 2 dicembre ► (di Andrea Bisicchia) – Normalmente si è abituati a pensare al teatro come a qualcosa di completamente estraneo alla scienza, non è cosi, perché ormai sono tanti gli esempi che dimostrano il contrario, a cominciare dal “Galileo” di Brecht, per continuare con “I fisici” di Durrenmatt, “Sul caso J. Robert Oppenheimer” di Kipphardt, “Copenaghen” di Frayn, etc, come dire che, sul palcoscenico, abbiamo visto scienziati come Einstein, Bohr, Heisemberg discutere sul rapporto che esista tra scienza ed etica e su chi cadano le colpe nel caso di disastri atomici.
Protagonisti di “The Children”, andato in scena al Teatro Goldoni di Bagnacavallo, con la regia di Andrea Chiodi, sono Elisabetta Pozzi (nella foto), Giovanni Crippa e Francesca Ciocchetti, che interpretano tre ingegneri nucleari andati in pensione, dopo aver lavorato in una centrale atomica, con la consapevolezza del rischio globale, a causa di qualche grave incidente, che mette persino in dubbio l’uso civile di tale energia a causa delle conseguenze che potrà avere sui singoli, come accade in questa pièce che si svolge in un cottage della costa britannica, dove vivono Hazel e Robin, e dove si è abbattuto un terribile disatro ambientale che ha causato molti inconvenienti, a cominciare dall’acqua e dalla elettricità razionate.
La giovane autrice, Lucy Kirkwood, che ha debuttato con “The Children”, a Londra nel 2016, classificato dal Guardian al terzo posto tra le migliori commedie del XXI secolo, non ha scelto il genere documentario, né tanto meno quello della conversazione, in salotto, tra scienziati, bensì quello di una commedia finto-brillante, con quel tanto di comicità, originata da situazioni perlomeno ambigue, che verremo a scoprire, quando nel cottage arriverà, senza alcun preannunzio, la collega e amica Rose a complicare un equilibrio delicato.
Come mai è venuta, dopo anni di silenzio?
Scopriremo che Rose è ammalata di cancro, malattia che ritiene conseguenza del suo lavoro nella centrale nucleare, ma che sia venuta per vedere, per l’ultima volta, Robin di cui è stata, un tempo, innamorata, scoprendo che anche lui ha subito delle conseguenze drammatiche, come dire che la scienza riesce a fare sempre delle vittime che si immolano in nome del progresso. A questa ineluttabilità, però, si oppone Rose perché, a suo avviso, non si possono disconoscere i danni che si abbatteranno sulle nuove generazioni e, pertanto, sui futuri Childrens.
Una simile materia è stata trattata dal regista Andrea Chiodi col ricorso a una sottile leggerezza e con la volontà di trasformare la complessità del dettato in qualcosa di più piacevole, affrontando i conflitti familiari, non certo alla maniera di Ibsen, bensì di Shaw, maestro nel rendere accettabile anche le cose più inaccettabili e di dare, ai sensi di colpa, una parvenza di moralità.
È chiaro che quando si affrontano problemi che riguardano la scienza, ritorna sempre in auge il problema della responsabilità, ovvero se le scoperte, che dovrebbero essere al servizio dell’umanità, alla fine, le si ritorcono contro, come nel nostro caso, in cui il senso di responsabilità è rivolto alle generazioni future, in particolare a quelle che hanno a che fare proprio con le centrali nucleari. Il tema, quindi, diventa come proporsi dinanzi alla vita e alla salute del pianeta.
Andrea Chiodi mette i suoi attori dinanzi a questo dilemma, rende Hazel, interpretata da una straordinaria Elisabetta Pozzi, bravissima nel mostrare i suoi stati d’animo sempre mutevoli, la donna che non rinunzia alla vita, curando il proprio corpo con esercizi ginnici, ai quali non intende affatto rinunziare, trasforma Robin, a cui Giovanni Crippa dà una solida ironia, pur essendo a conoscenza delle sue condizioni di salute, in un marito in fondo felice, mentre richiede a Francesca Ciocchetti una recitazione un po’ distaccata che fa presagire il suo strano rapporto con la morte. I tre personaggi sono legati da fili invisibili, labili, pronti a essere spezzati da un momento all’altro.
Gli spettatori del Goldoni hanno partecipato, con intensità e applaudito con convinzione.
Accademia Perduta/Romagna Teatri
www.accademiaperduta.it
TOURNÉE 3 e 4 dicembre: Teatro Comunale Walter Chiari di Cervia (RA);
6 e 7 dicembre: Teatro Due di Parma;
8 e 9 dicembre: Teatro Sociale di Bellinzona;
10 e 11 dicembre: Teatro Civico di La Spezia;
dal 13 al 18 dicembre: Teatro Gobetti di Torino