La Figlia del Reggimento” di Donizetti alla Fenice. E c’è anche la Laurito che canta “Arrivano i nostri”. E ci sta bene

Nella foto: Marisa Laurito (in centro)

VENEZIA, sabato 15 ottobre (di Carla Maria Casanova)Quando arrivò sulle scene dell’Opéra Comique (1840), “La Fille du Régiment”, prima opera francese di Donizetti data a Parigi, non suscitò entusiasmo esagerato. Ma recuperò alla grande.
Fu l’unico titolo ad aver totalizzato (in un po’ di anni, d’accordo) le mille rappresentazioni. E sì che l’elenco delle opere di Donizetti nei cartelloni della capitale francese era sterminato: e comprendeva già, tra l’altro, Lucia di Lammermoor e L’elisir d’amore. La “Fille”, fu composta velocemente. Si cercò un soggetto che piacesse al pubblico francese e la stesura tenne in gran conto il genere dell’opéra comique, quindi anche con dialoghi parlati.
La storia, si sa, è un po’ cretina. Marie, trovatella, è stata adottata da un reggimento, del quale si sente parte integrale. Quando arriva una zia marchesa (in realtà sua madre) per destinarla a un matrimonio altolocato, la povera Marie è disperata in quanto ama uno squattrinato che per amore di lei “si fè soldato” (vedi Elisir d’amore). Ovviamente tutto si sistema.
La Fille, diciamolo, non è tra le opere donizettiane che siano rimaste più in circolo. Resta però una edizione storica con una Joan Sutherland sublime, anche se più di una “figlia” pareva un granatiere. L’opera va comunque ricordata per il record dei nove do del tenore. Celebri quelli di Pavarotti, Alfredo Kraus, e ora Juan Diego Florez, che li ha sbancati tutti. “La Fille du Régiment” (in francese originale, ovviamente) è andata in scena ieri venerdì alla Fenice. Lo spettacolo ha la particolarità dell’allestimento affidato alla premiata coppia Barbe e Doucet, che oggi fa tendenza, e la curiosità del nome, nel cast, di Marisa Laurito, popolarissima soubrette negli anni Ottanta dello show televisivo “Quelli della notte” di Renzo Arbore.
La cifra personale di B&D (da non confondersi con una sigla di bed and breakfast) sta nell’aver ideato una sorta di revival, un omaggio alla memoria, che si materializza nell’introduzione di un filmato in bianco nero ove campeggia l’immagine di una vecchia donna (nella realtà è la nonna di Doucet, di 99 anni!) la quale, infermiera durante la Seconda guerra mondiale ed ora in casa di riposo, ricorda il suo passato mentre attende la visita dei nipotini. Anche l’ambiente che la circonda trasuda ricordi dell’epoca: l’orologio a cucù (siamo in Tirolo), un ritratto d’epoca, un piccolo busto di un militare, un carillon… Poi le immagini dello schermo, non invasive, lasciano spazio al palcoscenico, ambiente disegnato senza sofisticazioni, come per un libro di scuola. È tutto godibile, genuino, onesto.
Musicalmente l’opera ha il pregio di riuscire a coniugare l’ironico spirito francese (in certi momenti potrebbe essere Offenbach) e il piglio militaresco con la melodia di schietta impronta italiana. Momenti salienti i famosi 9 do del tenore e il duetto soprano-tenore nel primo atto; l’energia di tutto il secondo, con la stupenda scena della lezione di musica e la grande aria patetica del mezzosoprano: colpo di scena inaspettato (quasi un giallo) in tutto quel garrulo andamento.
A Venezia gli interpreti sono: Maria Grazia Schiavo (protagonista) voce non grande ma molto ben educata, davvero ottima nella sua aria “Il faut partir”; l’americano John Osborn, tenore internazionale bravo bravissimo senza arrivare al carisma; Natasha Petrinsky (la zia marchesa) bene vocalmente e con coinvolgimento di attrice consumata; l’argentino Armando Noguera (Sulpice). Infine, nei panni della duchessa di Krakenthorp, Marisa Laurito, la quale compare poco, parla poco ma canta, in italiano, un outside molto apprezzato: “Arrivano i nostri!” canzoncina militaresca degli anni Cinquanta – epoca in cui è trasportata l’azione – che fu colonna sonora dell’omonimo film di Mario Mattioli (1951).
Applausi a non finire, bis. L’abito della Laurito, (come tutti i costumi) è talmente ben disegnato da farla sembrare un figurino. Tutti gli interpreti, eccetto Osborne, sono debuttanti nel loro ruolo. Stefano Ranzani sul podio dell’Orchestra e Coro della Fenice, a volte un po’ precipitoso (ma se… arrivano i nostri, si può perdonare!) ha condotto ogni cosa in porto. Gran successo.

Repliche domenica 16 ottobre (ore 15.30), martedì 18 e giovedì 20 (ore 19); sabato 22 (ore 19). Lo spettacolo dura circa due ore e 30, con un intervallo.

 

Nuovo Rinascimento Novecento: regie critiche, teatri stabili, avanguardie. E oggi? al Regio perfino la “Macelleria Verdi”

(di Andrea Bisicchia) Alle Arti, in genere, ciò che si chiede è il massimo di libertà, quella che, in politica, viene declinata come il massimo di libertà di espressione. Nell’arte e, in particolare, nel teatro, la libertà creativa è sempre stata concessa alle Avanguardie, il cui compito è stato e sarà sempre quello di chiudere col passato per progettare un futuro all’insegna di una nuova attività compositiva. Il Novecento è stato il secolo che, più di altri, si è caratterizzato per la nascita e le affermazioni delle Avanguardie che hanno trovato, il loro humus, in molte capitali europee. Il Futurismo nacque a Milano, il Surrealismo e il Cubismo a Parigi, il Dada a Zurigo, l’Espressionismo tra Dresda e Berlino.
In tutti questi movimenti, che hanno coinvolto l’attività teatrale, è prosperata l’idea di una libertà creativa che raramente si è trasformata in licenza, grazie alla genialità dei suoi artisti, cosa che è accaduta, nel secondo Novecento, quando sono prosperate le arti concettuali, quelle “povere”, quelle legate alle nuove cosmologie, come lo Spazialismo o l’Astrarte etc.
Un fatto è certo: quando la libertà diventa licenza, si assiste a qualcosa di degenerativo, nello stesso modo in cui l’eguaglianza si trasforma in egualitarismo o la politica in politichese.
È chiaro che, anche il teatro, dopo un lungo periodo aureo, dovuto alla nascita degli Stabili e all’affermazione della irripetibile stagione della regia critica, alla quale dobbiamo spettacoli memorabili e, per i quali, la creatività era stata la fonte principale, la stessa che permise la nascita di un nuovo Rinascimento, rimasto modello insuperabile per epigoni che, con poca fantasia, hanno trasformato la libertà in pura licenza, grazie alla quale, tutto è permesso, anche se non esiste una logica scenica.
Per un regista, che mette in scena un testo, rimane l’obbligo di chiedersi quale rapporto abbia con la realtà e con quali mezzi rappresentarla, pur consapevole che rappresentare sia più difficile che scrivere, dovendo coinvolgere linguaggi diversi, col compito di dare loro una forma unitaria e possibilmente chiara, e dovendo trasformare ciò che è in ciò che sarà, ciò che è fuori in ciò che è dentro, solo che, questa trasfigurazione, non deve sfuggire alle regole della logica che richiedono le forme del ragionare, col compito di rendere esplicito ciò che, in un testo, si presenta  implicito. Quando il regista sfugge a queste regole, finisce per violentare il testo, solo che c’è violenza e violenza, c’è quella dello stupro e c’è quella dell’amore e della passione. Si violenta un testo che si ama, per renderlo sempre più chiaro a chi lo vede in scena, ma se lo si violenta con licenziosità, si parte dal presupposto che, con questa azione, non si ha alcun rispetto dello spettatore che, forse, per costui, addirittura non esiste.
Per raggiungere simili risultati, il regista violentatore esibisce gli strumenti che ha utilizzato, provenienti dalle più svariate tecnologie che, a loro volta, hanno finito per uniformarsi, tanto che, negli ultimi tempi, chi va a teatro, crede di vedere sempre lo stesso spettacolo, con grandi schermi dove si proietta di tutto e di più, un  fenomeno che ha coinvolto, recentemente, il teatro lirico (a dire il vero, svecchiandolo), come è accaduto, per esempio, al Regio di Parma, in occasione del “Simon Boccanegra”, ottobre di quest’anno, col pubblico inferocito, perché la regista Valentina Carrasco, per dare il senso della violenza implicita nell’Opera, ha usato carcasse di bue squartate (v. foto in alto) con una immagine, non del tutto nuova, perché l’ha ripresa dalla pittura espressionista, la quale, a sua volta, si era rifatta al bue squartato di Rembrandt.
Il teatro, fra tanti altri, ha un compito ben preciso che è quello di educare allo spirito critico, a formare delle menti che lo sappiano fare, a creare delle attitudini al bello, anche per far meglio capire le complessità e le inquietudini dei propri tempi.

Grande Orsini al Piccolo Teatro. Fa i conti con i Karamazov. In un’angosciante ambientazione alla “Blade Runner”

MILANO, mercoledì 5 ottobre (di Paolo A. Paganini)Io ne ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi…”. Così, verso la fine, si conclude “Blade Runner”, di Ridley Scott (1982), un film capolavoro, fra androidi, in una piovosa e sovrappopolata Los Angeles, tra piogge acide, macerie e distruzioni, bar fumosi, con una povera umanità scalcinata, in una eterna notte senza sole…
Il film ha da sempre occupato la nostra fantasia, quasi una preveggenza, nel caos tossico e malato delle nostre città.
E tutto ciò ci è venuto in mente, al Piccolo Teatro di Via Rovello, al levar del velario. La scena: un fatiscente tribunale, abbandonato e distrutto, tra l’altro scranno del giudice, vecchie sedie, faldoni di documenti tra lacere scartoffie. È una giornata, anche qui, senza sole. E improvvise folate di vento cosmico, di tanto in tanto, alzano cartacce e sollevano nuvole di polvere.
Qui, in mezzo, come un sopravvissuto, Umberto Orsini (88 anni) rivendica un conto in sospeso con Fedor Dostoevskij e con I fratelli Karamazov, dopo 53 anni, dopo quel 1969, quando Sandro Bolchi fece l’omonimo sceneggiato tv, tratto da uno dei più importanti romanzi della letteratura europea della seconda metà del XIX secolo. Il trentacinquenne Umberto Orsini, biondo ossigenato, allora rappresentava il raffinato allucinato e gelido ragionatore Ivan, uno dei tre fratelli Karamazov, tra le follie sessuali di una famiglia strampalata, come tante, con un padre ricco avaro e libertino e un fratellastro, Smerdjakov, mezzo scemo e trattato come un servo.
Nella famiglia si consuma un parricidio. Il fratellastro uccide il padre. Ma viene incolpato Dmitrij, il maggiore dei fratelli. In realtà il vero colpevole, da un punto di vista morale, è Ivan, che aveva sobillato e convinto il debole Smerdjakov a uccidere il padre, e poco dopo si ucciderà anche quel povero fratellastro.
Ivan non ha la coscienza del pentimento. Ma crede nella Verità. Non in Dio. “Il cuore umano non è un campo di battaglia in cui lottano Dio e il Diavolo”.
Ma di tutto ciò Orsini non se n’è mai eccessivamente occupato. Invece s’è portato dentro, in tutti questi anni, l’incomprensibile mancanza di conclusione del famoso romanzo. Alla verità mancava dunque un tassello. Ordunque, in questa solitaria e desertica Blade Runner del vecchio e cadente tribunale, a rivendicare la ricostruzione della Verità su quel tremendo parricidio. Tra ciniche disquisizioni morali e teologiche, razionali e allucinate divagazioni su miracoli, misteri e autorità, viene quindi svelata al vento della storia la terribile verità. Ma ormai Ivan è un vecchio stanco e confuso. E non si rende conto di quel suo mondo finito alla Ridley Scott, e ancor peggio.
In 80 minuti senza intervallo, al Piccolo, Umberto Orsini, solo in scena, in un sottofondo di basso continuo (con accompagnamento dello sferragliare della MM, che si connaturava con giusta naturalezza al dramma raccontato da Ivan/Orsini), all’inizio ci è parso concitato, posseduto da una eccessiva nevrosi da Verità incompiuta. Ma nella seconda parte, fino alla conclusione dell’opera, Orsini ridiventa il grande e sofferto ragionatore che conosciamo, il raffinato attore che ha conquistato una platea esaurita.
E grazie anche al drammaturgo e regista Luca Micheletti, che, con rigore e suggestiva incisività, ha creduto in questa difficile, generosa e intensa presenza di Orsini.
E alla fine un interminabile e commovente applauso di dieci minuti. E tutti in piedi.

“LE MEMORIE DI IVAN KARAMAZOV”, dal romanzo I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij – PRIMA NAZIONALE – drammaturgia Umberto Orsini e Luca Micheletti – Con Umberto Orsini – Regia Luca Micheletti – Piccolo Teatro Grassi (Via Rovello, 2 – Milano – Repliche fino a domenica 16 ottobre.

www.piccoloteatro.org

TOURNÉE
MILANO – Piccolo Teatro Grassi – dal 4 al 16 ottobre 2022
CARPI – Teatro Comunale – 22 e 23 ottobre
CASALPUSTERLENGO – Teatro Comunale – 10 novembre
PAVULLO – Teatro Mac Mazzieri – 22 novembre
POGGIBONSI – Teatro Politeama – 24 novembre
FIRENZE – Teatro Puccini – 25 e 26 novembre
RIMINI – Teatro Amintore Galli – 7 dicembre
SONDRIO – Teatro Sociale – 12 gennaio 2023
FIORENZUOLA – Teatro Verdi – 14 gennaio
TORINO – Teatro Astra – dal 17 al 22 gennaio

Metafisica Norma al Teatro Grande di Brescia. In un cerchio che scende dal cielo. A imprigionare disperate solitudini

BRESCIA. Sabato 1 ottobre ► (di Carla Maria Casanova) Norma di Vincenzo Bellini. Capolavoro. Il fiasco della prima (Scala, 1831) non vuol dire niente. Già alla seconda replica veniva calorosamente applaudita, per arrivare al successo delirante quando venne data a Londra con Maria Malibran protagonista e Bellini stesso sul podio. Da allora non ha più lasciato il suo primato, arrivando al “rilancio” definitivo con l’avvento divampante di Maria Callas che le rese la sua veste di capolavoro assoluto.
Qualche critico, all’epoca dello sfortunato esordio, pensò si trattasse di un difetto di scrittura e venne l’idea di affidare la partitura a Bizet, perché la ristrumentasse (correggendola, ovviamente). Bizet rispose che non era possibile. Era perfetta così. Persino da quella malalingua di Wagner, si sbilanciò definendola opera “di carattere solenne e grandioso con ricca vena melodica… Lavoro di un genio”! Norma è la mia opera preferita. È anche quella che mi rivelò Maria Callas (Scala, dicembre 1954) sigillo che me l’ha marchiata a fuoco. Da allora vado ricercando (praticamente invano) analoghe emozioni. Una sola volta, con la Theodossiou, ci sono inaspettatamente andata vicino. E con Leyla Gencer. Ma non mollo. L’opera in se stessa mi avvince comunque sempre. Avrò visto almeno 50 diverse produzioni di Norma, dalla lignea di Ceruli (Scala) alla neoclassica di Gasparon (Macerata), alla africana di Kara Walker (Venezia, recentemente passata in rai 5). E non mi basta ancor
La produzione dei Teatri Lombardi, circuito riservato ai 5 Teatri di tradizione (Brescia, Bergamo, Cremona, Como, Pavia, con una tappa extraterritoriale a Pisa), che ha esordito ieri sera al Teatro Grande di Brescia, non poteva sfuggirmi. È uno spettacolo che punta soprattutto sull’allestimento, affidato alla regista veneziana Elena Barbalich con l’assistente Costanza Degani e lo scenografo Tommaso Lagattolla, suoi collaboratori abituali. La Barbalich, laureata in Lettere a Ca’ Foscari con il massimo dei voti, passione per la lirica manifestata fin dalla tesi di laurea (Aida dello storico spettacolo scaligero 1963), corsi di arte drammatica, debuttò nella regìa a Milano (1998) nella stagione estiva del Castello Sforzesco.
Di indirizzo intellettuale, la regista ha optato per una chiave metafisica, elegante e sofisticata, articolata in linee luminose. Pochi colori su un impianto prevalentemente bianco e nero. Un finale rosso tutto di fuoco. Alcune intuizioni felici: il grande cerchio di metallo che scende a imprigionare la solitudine dei disperati protagonisti; l’occhio – simbolo dell’utero materno – in cui si annidano immobili i figlioletti di Norma, proiettato durante il drammatico duetto Norma/Adalgisa.
Il cast è dignitoso, alternando cantanti in carriera a giovani leve. Sono già conosciuti in Italia lo svettante tenore Antonio Corianò (Pollione), scoperto da Renata Scotto in una audizione nel 2001; il mezzosoprano turco Asude Karayavuz (Adalgisa), premio Leyla Gencer, debutti a Scala, San Carlo, Arena; il basso Alessandro Spina (Oroveso) attivo anche all’estero. Al giovane soprano russo Lidia Fridman, debuttante due anni fa al Festival della Valle d’Itria, era affidato il ruolo di protagonista da lei risolto in prova generale con risultati soddisfacenti specie sul versante interpretativo. La classica infreddatura, spauracchio dei cantanti, l’ha costretta ad essere sostituita alla prima da Martina Gresia (FOTO in alto), già in cartellone per alcune recite. Romana, 25 anni, vincitrice del Concorso AsLiCo 2022, dotata di voce robusta di timbro molto bello. Da segnalare Benedetta Mazzetto, nella pur piccola parte di Clotilde. Il maestro Alessandro Bonato (Verona 1995) reduce da un felice debutto al Rof di Pesaro, ha guidato con sicurezza l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano e il Coro dell’Opera Lombardia. Molti applausi per tutti.

“Norma” di Vincenzo Bellini. Repliche a Brescia, Teatro Grande (domani domenica ore 15.30); (Cremona Teatro Ponchielli (7-8 ottobre); Como, Teatro Sociale (14-16 ottobre); Pavia Teatro Fraschini (21-23 ottobre).

www.teatrogrande.it