Catherine Vs Catherine. Due donne, due vite, due grandi attrici. E un camionista filosofo che più francese non si può

(di Patrizia Pedrazzini) Claire era poco più che ragazzina quando trovò, in casa, il cadavere del padre, morto suicida dopo che Béatrice, la sua frivola amante, un po’ per egoismo, un po’ per paura, lo aveva lasciato. Ora è una donna di 49 anni, fa l’ostetrica, ha un figlio che studia Medicina. È sola, e la casa, quando rientra, la attende quasi sempre vuota. Ma i turni di lavoro la assorbono molto, anche se in ospedale tira aria di crisi: il reparto di Maternità rischia di chiudere. Un giorno il telefono squilla. È Béatrice, trent’anni dopo, che la vuole incontrare. Ovvio che Claire non abbia la minima voglia né di vederla, né di parlarle. Ma la vedrà, e le parlerà, con rabbia e a fatica all’inizio, poi con sempre minore durezza.
Con “Quello che so di lei” (“Sage femme”), il francese Martin Provost mette mano alla “favola antica”, della cicala e della formica, e la rielabora nella storia di due donne che, da profondamente diverse quali sono, riusciranno, non tanto a diventare amiche (sarebbe banale), ma ad accettarsi, a rispettarsi, a dare ognuna una parte di sé all’altra, a comprendersi. Perché sì, Béatrice ha un tumore al cervello e ha bisogno di poter contare su qualcuno, e fa tanto la strafottente, ma è terrorizzata. Però neanche Claire sta bene, e le si legge in faccia quanto le pesi un’esistenza fatta solo di doveri e senza amore.
Una storia per certi aspetti già vista, ma qui affidata a due interpreti di indiscusso talento. Dove Béatrice ha il volto e il fisico (coraggiosamente appesantito) di Catherine Deneuve, signora del cinema senza tempo, mentre Claire è la non meno all’altezza Catherine Frot (“La cena dei cretini”, “Lezioni di felicità”, “La cuoca del presidente”). Ed è una bella gara. Appagante e piacevole. Perché la prima, sedicente principessa ungherese di sangue russo stravagante, bugiarda e fuori di testa, non ha la minima intenzione di rinunciare a morire come ha sempre vissuto. Per cui va avanti a omelette, patatine fritte e maionese, beve a tutte le ore del giorno e della notte, fuma come una turca, e non si fa neanche mezzo problema a frequentare bische clandestine non propriamente chic per tirare a campare (e magari restituire qualche prestito), visto che in vita sua non ha mai lavorato. Ma è buona, generosa e fragile. E Claire, e il suo semplice mondo, le faranno un gran bene. Mentre quest’ultima, pacata e responsabile, salutista e astemia, nonché perennemente fasciata in un impermeabilino beige (che proprio, come dice Béatrice, “non si può guardare”), quando non lavora passa il tempo occupandosi in tutta solitudine di un orticello che ha sulle rive della Senna, poco fuori Parigi. In attesa che il figlio la passi a trovare. Ma anche lei, sotto sotto, è buona e generosa. E Béatrice, e la sua follia, le faranno un gran bene.
E poi c’è lui. Paul (Olivier Gourmet, “Il figlio”, “Due giorni, una notte”, “Mister Chocolat”, e quasi tutti i film dei fratelli Dardenne), il camionista un po’ poeta un po’ filosofo, buono e gentile, semplice ma non sciocco, ottimista ma non superficiale, che fa il camionista per sentirsi libero, che ha un orticello vicino a quello di Claire, che è sempre pronto, con discrezione e simpatia, a dare una mano. Con quella faccia un po’ così, da camionista francese. Fin quando Claire si accorgerà di lui, e di se stessa. Riacquistando la propria personale libertà, facendo la sua piccola, grande rivoluzione. E realizzando che non fa poi così male, alla fine, un buon bicchiere di rosso.
Il tutto diretto da Provost con mano delicata e leggera, per cui, nonostante sulla vicenda aleggi il fantasma della morte, i dialoghi e le situazioni non diventano mai dramma, lasciando spazio al sorriso, all’ironia, alle pungenti battute delle due protagoniste. “Va bene, allora quando sarò morta puoi mettermi in un sacco e buttarmi nella Senna”. “È vietato per legge. Ti segnalo che la Senna sta tornando pulita”.