C’è qualcosa che ci trascende. Fin da Euripide. Se non si vive l’«oltre» come fede, il destino di chi lo nega è la follia

(di Andrea Bisicchia) La domanda che sta alla base del volume di Salvatore Natoli “Libertà e destino nella tragedia greca”, Morcelliana Editrice, a cura di Gabriella Caramore, è la seguente: fino a che punto è lecito supporre l’esistenza di un pensiero del divino comune nel mondo greco e in quello giudaico e, nello stesso tempo, fino a che punto è possibile pensare all’esistenza del tragico senza alcun rapporto col divino?
Fu già Euripide ad indicarci una risposta, quando affermava che esiste qualcosa che ci trascende, alludendo alla percezione di un dio che sta al di sopra di noi, percezione frequente nel pensiero greco, ma anche in quello giudaico. Salvatore Natoli esplora le origini del tragico proponendosi, a sua volta, alcune domande estreme sul rapporto umano-divino e, in particolare, sul rapporto libertà e destino; lo fa ripercorrendo la storia di Edipo, Oreste, Antigone, Clitemnestra, Prometeo, Filottete, cercando, nel loro agire, il filo che conduce a certe analogie col tragico contemporaneo.
Sono storie che, in un modo e nell’altro, hanno a che fare con le divinità dell’Olimpo, e, in particolare, con Apollo e Dioniso, che corrispondono alle categorie di armonia e disarmonia, di felicità e dolore e che stanno alla base di ogni forma di divenire, anzi è proprio il dolore, a cui Natoli ha dedicato una complessa monografia, pubblicata da Feltrinelli, che segna il cammino della conoscenza, che è anche conseguenza di un destino avverso, contro il quale, non esiste alcun rimedio, non dico di una scelta, bensì di un’ineluttabilità. Il destino, a sua volta, convive con la divinità tanto che, spesso, ne esaudisce i desideri, altre volte li ostacola, spesso ha fede in lei, altre volte la nega, sostenendo che chi nega il dio è colpito dalla follia, come accade nelle Baccanti, dove viene rappresentato l’imporsi della dismisura e dove è messa in discussione la stessa libertà di agire, non essendo l’uomo completamente libero di scontrarsi col divino che governa la nostra vita, essendo impregnato sempre di colpa, conseguenza della fragilità umana e delle insanabili contraddizioni che la caratterizzano.
La tragedia greca non concede speranza, al contrario di quella giudaica, il cui orizzonte è quello di un “oltre” vissuto come speranza, molto simile alla speranza cristiana, secondo la quale, la morte di Cristo è concepita come un grande esempio di tragico.
Il concetto di speranza è legato anche a quello dell’attesa, che è, soprattutto, attesa della salvezza.
Sull’attesa, Beckett ha costruito i suoi capolavori. Natoli, esaminando “Finale di partita”, vi scorge la sopravvivenza del tragico nel conflitto tra fatalità e decisione, tra libertà e necessità.
Salvatore Natoli, “Libertà e destino nella tragedia greca”, a cura di Gabriella Caramore, Ed. Morcelliana 2002, pp 144, €12.