C’è una gatta sul tetto che scotta. Ma non ci sono più le unghiate del poeta della perversione Tennessee Williams

11.2.16 gattaMILANO, venerdì 12 febbraio(di Paolo A. Paganini) – C’è la bella amicizia di due ex sportivi, talmente bella da sembrare sospetta, tanto che, nel virile ambiente puritano dell’America Anni 50, venne facile sussurrare la parola maledetta: omosessuali. Tennessee Wlilliams (1914-1982), che di omosessualità e di moralistici tabù s’intendeva (la rivista Playboy, in un’intervista rimasta famosa, citando la gamma di tutti i vizi e di tutte le depravazioni, descritte nelle sue commedie, lo definì “il nostro poeta nazionale della perversione”), intorno alla vicenda dei due ex atleti costruì la scabrosa commedia “La gatta sul tetto che scotta”, rappresentata nel ’55 a New York con la regia di Elia Kazan, tagliata e modificata per intervento della censura, ma ugualmente destinata a uno stupefacente successo, anche per le successive versioni cinematografiche con Elizabeth Taylor e Paul Newman (1958), con Robert Wagner, Laurence Olivier, Natalie Wood (1976) e con Tommy Lee Jones e Jessica Lang (1985). In Italia, nella versione edulcorata, venne portata sulle scene (1958) da Lea Padovani, Paolo Stoppa e Gabriele Ferzetti; e, nell’85, recuperata la cruda versione originale, da Carla Gravina, Roberto Alpi e Mario Carotenuto, regia di Giancarlo Sbragia.
Dunque, la “bella” amicizia dei due ex sportivi diventa l’elemento scatenante di un dramma avvenuto tempo prima. Uno dei due, schiacciato – per quei tempi – dall’infamante sospetto, muore di droga e di alcool. L’altro, Brick, distrutto dal dolore, diventa schizzato, impotente e alcolizzato. Sua moglie, Maggie, la “gatta” in questione, innamorata del marito ma in crisi d’astinenza sessuale, fa di tutto per riportarlo ai doveri coniugali. Niente da fare. E intanto, laggiù, nel profondo Sud, nella casa di un ricco possidente terriero, si preparano i festeggiamenti per i 65 anni di Papà. Tutto diventerà un gioco al massacro. Papà è malato di cancro, lui sospetta ma ancora non sa, anzi per garantirgli un giorno sereno in occasione del suo compleanno gli viene comunicato un falso esame clinico negativo, che rende euforico l’anziano genitore. Ma tutti sanno la verità. E tutti si sono precipitati a fargli festa, guardando alla prossima eredità. Ma papà ha capito le manfrine, e se ne frega. Il figlio tormentato e alcolizzato, tra una bottiglia di whisky e l’altra, ha altro a cui pensare, al diavolo le seduzioni della moglie in fregola, all’inferno anche l’eredità. L’altro figlio, intanto, avido avvocato, con prolifica moglie, tenta raggiri e velenosi discrediti. La moglie di Papà, ottusa e spendereccia, non si rende conto di niente, lei ama l’adorato Brick e neanche si accorge dell’odio del marito, che non la sopporta più, e che ora, anzi, credendosi sano e guarito, intende rifarsi con qualche giovane pollastrella…
Il testo di Tennessee Williams è fra i più viperini, tossici, crudi, laceranti della sua pur tormentata produzione drammaturgica. I tre atti della commedia, che tuttavia si conclude con un raggio di speranza, sono lo sviluppo di un unica azione scenica nel corso di una giornata.
L’edizione dell’85, con Carla Gravina, i tre atti erano ragionevolmente distributi, secondo copione, 40, 53 e 37 minuti.
Ora, quest’altra edizione, in scena al Manzoni, regia di Arturo Cirillo, con Vittoria Puccini (Maggie), Vinicio Marchioni (Brick) e Paolo Musio (Papà) dura un’ora e cinquanta in un’azione continua senza intervalli e con qualche giustificato e razionale taglio (manca la famosa invettiva di Papà sull’Europa, bella ma inutile, e i bimbi della prolifica coppia per fortuna non appaiono. Una curiosità: nel testo originale, con traduzione di Gerardo Guerrieri, i bambini-sono cinque più uno in arrivo, perché qui sono ora diventati quattro più uno in arrivo? Poco male.
Quello che ci pare più discutibile, sul piano dell’impostazione registica, è una sterilizzata riduzione dell’insita passionalità che pervade questo testo, violento, brutale, provocatorio, crudele, ma anche sensuale, realistico, erotico. Maggie, nella diligente e contenuta interpretazione di Vittoria Puccini, dirà: “La gelosia mi consuma e il desiderio mi mangia… Io sono una gatta su un tetto che brucia…” Mah, detto da un’educanda avrebbe fatto maggior effetto.
Quello che invece è decisamente troppo è l’agitata turbolenza recitativa alla napoletana imposta da Arturo Cirillo. Il Papà di Paolo Musio ha gesti plateali da melodramma ottocentesco. E Brick, per avere una voce impastata dall’alcool, la tira fuori con foga areniana. La “gatta” è spesso a quattro zampe, felinamente muovendosi anche verso la patta dell’indifferente marito, ma tutto finisce lì. Le sberle che volano, invece, mi sembrano abbastanza realistiche. E, per farla breve, la scena di Dario Gessati, tutta costruita nella camera da letto di Maggie e Brick, ha un fondale che si apre, a seconda delle bisogna, su un muro di fogliame decisamente brutto. Impossibile da risolvere diversamente con una impostazione a scena fissa. È piaciuta invece la segaligna presenza della cognata Mae, una specie di strega cattiva, interpretata da Carlotta Mangione. Almeno citeremo, in gara di generosità interpretativa, gli altri compagni di scena: Francesco Petruzzelli, Franca Penone e Salvatore Caruso. Per il resto, ultima considerazione, l’operazione, sul piano contestuale, ci è sembrata abbastanza inutile. A meno che la latente omosessualità del testo, visti i tempi attuali, non abbia inteso aprire un impossibile dibattito.
Cordiali applausi alla fine per tutti. Si replica fino a domenica 28.