(di Paolo Calcagno) ll regista turco Nuri Bilge Ceylan, 55 anni, è un predestinato che aveva un appuntamento certo con la Palma d’Oro di Cannes, puntualmente arrivata, la primavera scorsa, per “Il Regno D’Inverno/Winter Sleep”, e con la gloria: la critica più senile ed emozionabile lo ha definitivamente consacrato nell’Olimpo dei Maestri del Cinema contemporaneo e diversi temerari hanno, persino, scomodato l’irripetibile Ingmar Bergman lanciandosi senza rete nel pericoloso (quanto ridicolo) balzo di un improbabile paragone. Il legame di Ceylan con il Festival di Cannes risale al 1995, quando il suo cortometraggio d’esordio “Koza” viene selezionato e salutato come il primo “corto” turco accolto alla prestigiosa rassegna della Croisette. Nel 2003, con il suo terzo lungometraggio “Uzak”, il regista di Istanbul viene gratificato con il Grand Prix e il Premio per la migliore interpretazione maschile che va ai due protagonisti del film. Otto anni fa, aumenta il crescendo dei suoi successivi lavori, tutti premiati al Festival di Cannes: nel 2006, “Il Piacere e L’Amore” vince il Premio Fipresci della critica internazionale; nel 2008, “Le Tre Scimmie” ottiene il Premio per la Miglior Regia; nel 2011, “C’Era Una Volta In Anatolia” consegue nuovamente il Grand Prix. Infine, quest’anno, il cerchio dorato si è chiuso con l’attesa Palma d’Oro, cui va aggiunto un altro “Fipresci”.
“Il Regno D’Inverno” è un’opus magna di 196 minuti ispirata dai racconti di Anton Checov e dalla terra madre del regista, la Turchia, da sempre sospesa tra la tradizione e la modernità. Tre i personaggi principali che al calduccio di un privilegiato benessere affrontano l’evidenza della crisi dei loro rapporti: il maturo Aydin un ex attore che ritiratosi nell’albergo di famiglia, nel cuore della Cappadocia, da lui battezzato “Otello” e gestito dalla giovane moglie Nihal che, frustrata dal passivo ruolo di “dolce compagna” in cui l’ha imbalsamata il marito, tenta di dare spazio al suo ego in nobili attività benefiche, dalle quali tiene puntigliosamente a distanza Aydin. Questi è ben felice di disinteressarsi di quanto gli accade intorno per dedicarsi a una rubrica di vita vissuta su un foglio locale e per progettare (e rimandare continuamente) un libro sulla storia del Teatro turco. Nell’albergo di famiglia vive anche Necla, sorella di Aydin, una donna dai sentimenti inaciditi e dalla lingua tagliente che sta ancora elaborando il lutto di un recente divorzio. L’intenso Haluk Bilginer, di casa nei teatri londinesi e in certe espressioni impressionante per la sua somiglianza a Enrico Maria Salerno, l’affascinante e dolente Melisa Sozen, la star della commedia turca Demet Akbag, riempiono lo schermo con le loro straordinarie interpretazioni.
Fra le montagne della Cappadocia l’inverno arriva presto e la neve ammanta la sconfinata steppa. In questa stagione i turisti sono rari e l’albergo si trasforma in un rifugio non soltanto per la locazione ma, addirittura, esistenziale. In lunghe, interminabili (ma talvolta insopportabili) sequenze di campo e controcampo i personaggi principali del film si affrontano (specie nella prima parte) rinfacciandosi moderatamente, senza graffi, i torti reciproci e i rispettivi difetti che li hanno trasformati in presenze sgradevoli gli uni agli occhi degli altri. In queste circostanze Ceylan dà ottima prova del suo talento nella gestione di un Cinema al servizio delle parole, che si limita a illustrare il testo sferzante della sceneggiatura che dà luogo a un’interessante, quanto sfibrante, disputa sull’etica secondo i ritmi e i toni cechoviani, ben lontani dalle deflagrazioni e dalle penetrazioni profonde dell’inconscio che hanno distinto le opere di Bergman. Intorno ai protagonisti si incontrano vari personaggi che rafforzano la celebre citazione di John Lennon, secondo cui “La vita è ciò che ti capita mentre stai preparando un progetto”: un imam dall’illuminante umiltà, un ragazzino che ha lanciato una pietra contro l’auto di Aydin, spezzando la calma torbida dello stagno familiare, un galeotto alcolizzato che irrompe nelle atmosfere checoviane con un fulminante guizzo da contrappunto dostoevskiano dell’utopia. Nella seconda parte del film, Ceylan tocca i bordi del capolavoro immergendoci nelle ammalianti riprese della steppa sconfinata, facendoci sobbalzare sulle pietre della dura montagna di Cappadocia, trasferendo le riprese negli interni miserabili e fieri della casa dell’imam e demolendo la corazza esterna dell’esistenza di Aydin nella godibilissima scena di una lunga bevuta che interrompe la sua fuga a Istanbul e gli strappa la maschera del padrone-saggio. Ceylan spiega la catarsi del protagonista sostenendo che “è necessario che Aydin sia del tutto distrutto affinché possa ricominciare a fare qualcosa, come spesso capita nella vita”. E in una simbolica scena della liberazione di un cavallo selvaggio, acquistato precedentemente, l’ex attore ritrova la fierezza imprigionata nel marmo della sua programmata dimensione conformista. Una fierezza che gli dà la consapevolezza della sua dipendenza dalla giovane compagna e la forza di tornare indietro, verso l’ipotesi di una riconciliazione che è disposto a favorire anche in un rapporto basato su ruoli diversi da quelli vissuti prima in una malintesa modalità. Aydin, dunque, è pronto per una nuova vita mentre i tasti del computer battono l’inizio della sua “Storia del Teatro turco”.
“Il Regno d’Inverno/Winter Sleep”, regia di Nuri Bilge Ceylan, con Haluk Bilginer, Melisa Sozen, Demet Akbag. Turchia 2013.
Cechov in Cappadocia nello scontento di un “Inverno” che segna la scelta di una vita diversa
10 Ottobre 2014 by