Checché se ne dica, “Il pipistrello”, nonostante l’impianto teatrale e l’importanza delle voci, è pur sempre un’operetta

MILANO, sabato 20 gennaio (di Carla Maria Casanova) Successo entusiastico, meritato, per “Die Fledermaus” (Il pipistrello) di Johann Strauss jr, approdato per la prima volta alla Scala per volere del sovrintendente viennese Alexander Pereira, che proclama a gran voce: “È opera, non operetta!”.
Mi permetto di dissentire: nonostante l’importanza dell’impianto teatrale e della musica che, specie sul versante delle voci, impegna cantanti d’opera, a partire dalla storia, costruita su un rocambolesco guazzabuglio di travestimenti e scambi di persone (potrebbe essere assimilata a un banale vaudeville), alla struttura del lavoro, al molto parlato (in tutte le lingue), tutto, senza onta, pone irrimediabilmente “Il pipistrello” nella categoria operetta.
È, anzi, la prima vera operetta viennese.
Il genere veniva dalla Francia (Offenbach) al cui spirito spumeggiante tanto si addiceva ma, poi ci fu, appunto, quel colpo di genio di Johann Strauss jr (il re del valzer) che aggiudicò  per sempre la palma a Vienna.
In Italia, eccezion fatta per Trieste e Palermo, l’operetta non ha mai avuto un gran seguito. Ben diversamente all’estero. Basti dire che nel solo 2017 “Il pipistrello” è stato rappresentato nel mondo 348 volte, in 95 produzioni diverse. Ma noi non siamo l’estero. Noi abbiamo l’opera, e di quella teniamo il primato, checché se ne dica.
Un niente di storia del pipistrello: “Die Fledermaus” apparve sulle scene a Vienna nel 1874, ed ebbe accoglienze tiepide, ma la ripresa a Berlino fu trionfale e da allora è incluso nei repertori come il capolavoro di Johann Strauss jr. Sarà utile ricordare che nel 1873 Vienna si trovava in piena crisi politica e finanziaria per lo storico crollo della borsa, cui si era aggiunta una epidemia di colera. Max Steiner, condirettore del Teatro an der Wien, pensò allora di tirar su un po’ il morale alla gente proponendo uno spettacolo brillante, dove tutti potessero avere l’illusione, o la speranza, di essere qualcun altro. Johann Strauss si impegnò ad accontentarlo, componendo la partitura in 42 giorni.
La vicenda ha tutti gli ingredienti del genere (“Vedova allegra”, per intenderci). Inizia con il solito qui pro quo, poi c’è una gran festa alla quale il protagonista è invitato da un “amico” che vuole in realtà vendicarsi per essere stato da lui precedentemente sbeffeggiato. Seguono i soliti scambi di personaggi, i corteggiamenti accettati o respinti, persino un arresto (della persona sbagliata, beninteso), e ci scappa anche la prigione. Finisce tutto in gloria. Come da copione.
Nello spettacolo scaligero l’azione è ambientata in una stazione termale, con montagne innevate all’orizzonte, soluzione più che accettabile (il libretto, per la prima scena indica “stanza con porte al centro e porte laterali” che più generico non si potrebbe). La festa del secondo atto è in un lussureggiante salone, forse d’albergo; il carcere del terzo atto, articolato su due piani, con sfondo di cielo stellato, ha un taglio sorprendente. L’epoca è spostata un po’ in avanti (anni Cinquanta?) che vanno di moda adesso. Funziona. La regìa di Cornelius  Obonya (co-regista Carolin Pienkos, scene e costumi di Heike Scheele) si innesta su un contesto teatralmente ineccepibile, ricco, bello da vedere, azionato con grande maestria. Si sa che far ridere (a teatro e altrove) è ben più arduo che far piangere, ma qui a volte si ride davvero. Le coreografie animano con gusto sopraffino (bella forza, le firma Heinz Spoerli, ma anche i grandi nomi non sempre azzeccano). Johan Strauss jr, re del valzer, nel Pipistrello mette anche polke e czarde e tutto è puntualmente ossequiato. È noto che nell’operetta si usano gli incisi parlati riguardanti attualità e riferimenti locali; nel Pipistrello fanno addirittura testo e qui si sprecano citazioni da opere liriche (addirittura stralci di romanze note, cantate a squarciagola dal tenore) e battute su malcostume e politica italiani, un reale pezzo di bravura di Paolo Rossi, il popolare cabarettista e artista di genere, così come fa prodezze l’inimitabile Coro della Scala.
Gli interpreti, di prima qualità, specialisti di questo genere musicale, sono rigorosamente stranieri, tranne la protagonista Rosalinde, la italiana Eva Mei, soprano lirico-di-agilità  tra i più quotati. Ha a suo attivo, la Mei, anche la lingua tedesca e la pratica di sport e danza. È bella, alta, figura da pin up. Non per niente Pereira ha ammesso “era la sola che potesse impersonare questo ruolo”. Gli altri, perfetti nelle rispettive parti, sono Peter Sonn (Eisenstein), Markus Werba (Falke), Daniela Fally (Adele), Michael Kraus (Frank), Anna Doris Capitelli (Ida). Il principe Orlofsky, spregiudicato miliardario che offre la festa, ha voce di mezzosoprano e viene di solito interpretato da una cantante en travesti cioè in panni maschili. Ottima qui la scelta di averla lasciata in (si fa per dire) gonnella, versione tra l’altro più consona al personaggio spregiudicato e anticonformista, tipico di certe donne (vedi tenutaria di casino di alto bordo). È Elena Maximova che copre con disinvoltura la parte.
Sul podio c’è Cornelius Meister. Pare poco più di un ragazzo, in verità ha già diretto “Fledermaus” più di 50 volte. Ce ne ha fatto assaporare i dettagli con entusiasmo e sapienza.

“Die Fledermaus”, di Johann Strauss jr. Repliche 21, 23, 28, 31 gennaio. 2, 4, 11 febbraio