(di Patrizia Pedrazzini) Con buona pace di chi, all’indomani di “Quo vado?”, lo osannava definendolo “il nuovo Alberto Sordi” (ma d’altra parte lui stesso ammette di considerare l’Albertone nazionale il suo “inarrivabile modello”), tutto si può dire di Checco Zalone, all’anagrafe Luca Pasquale Medici, da Bari, tranne che non abbia il polso della situazione: caratteriale, sociale, politica, del Paese in genere. Qualunquismo e scaltrezza, vigliaccheria e opportunismo, superficialità e trasformismo: si assomigliano tutti, i vizi capitali dell’italiano medio. Riuscire a metterli sul grande schermo, insaporiti da una bella manciata di luoghi comuni, è difficile che si riveli un’operazione perdente. Quanto meno, dovrebbe far ridere.
Preceduto da un battage pubblicitario giocato su un sedicente trailer pseudo-razzista (che, si scopre poi, non c’entra niente col film), ecco allora “Tolo Tolo”, ultima fatica del comico pugliese, qui per la prima volta anche in veste di regista. Nel mirino, uno dei temi più scottanti e attuali: l’immigrazione, con il suo strascico di razzismo, politicamente corretto e non, moralismo bacchettone e posizioni radical-chic, destra e sinistra, fascismo, buonismo, accoglienza e barconi. Un calderone di (tanti) vizi e (poche) virtù nel quale Zalone si tuffa e si muove, apparentemente in scioltezza, di fatto senza mai lasciare che il contenuto debordi veramente. Perché un conto sono gli stereotipi, un altro la realtà. E un conto è la comicità, un altro la satira.
Ecco allora Checco, meridionale piccolo borghese che, dopo aver aperto un fallimentare ristorante di sushi in quel di Spinazzola, provincia di Barletta, letteralmente inseguito dal fisco, dai debiti e da una moglie “che è peggio dell’Isis”, fugge alla volta dell’Africa, destinazione le spiagge dorate del Kenya, dove trova lavoro come cameriere in un resort. Salvo poi finire nell’entroterra, sotto le bombe e gli attentati, e decidere di tornare, se non in patria (meglio di no, per via della Tributaria), almeno in zona Mediterraneo, percorrendo le tortuose rotte dei migranti: il viaggio sul pullman stracolmo nel deserto, il campo di raccolta in Libia, la traversata in mare, il naufragio.
Un canovaccio che, nelle mani di Zalone, si trasforma in una vera e propria commedia musicale nella quale il comico la fa da padrone, destreggiandosi fra le immarcescibili canzoni di Toto Cutugno, Nicola di Bari, Mino Reitano (ma non manca, sullo sfondo, il ritornello di “Faccetta nera”), attacchi incontrollabili di fascismo (“lo abbiamo tutti dentro, un po’ come la candida”), battute quali “Come ti chiami? (al bambino di colore), “Dou dou”, “Ah, come il cane di Berlusconi”, dotte citazioni del genere “Il principio di Archimede: galleggia chi ci crede”, assonanti qui pro quo fra l’F16 (nel senso di aereo) e l’F24 (nel senso di denuncia dei redditi), considerazioni del tipo che “qui con mille euro corrompi un ministro, in Italia appena un assessore”.
E luoghi comuni triti e ritriti: sul fatto che, prima di tutto e sopra tutto agli italiani interessa “la gnocca”, o sulle preponderanti dimensioni anatomiche del maschio di colore. Mentre Checco, fanatico dell’acido ialuronico e delle creme antirughe, usa le rifrangenti coperte termiche dei migranti per abbronzarsi. Con i profughi che in mare, a barcone rovesciato dopo la tempesta, cantano danzando nell’acqua come neanche nei film di Esther Williams. Fino alla ridistribuzione dei disperati in diversi Paesi tramite estrazione di bussolotti, tipo Champions League, e al finale (inguardabile) con Checco che, in divisa caki e fazzoletto rosso al collo (come Sordi in “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?”), si erge in mongolfiera sopra un coro esultante di cartoni animati (cicogne).
È un film razzista, “Tolo Tolo”, come paventato dal battage pubblicitario? Certo che no. È politicamente scorretto? Magari. In realtà, trasuda più che altro aria di falso buonismo: di fatto lo schema nel quale Zalone si muove, migranti permettendo, è quello di sempre, giocato intorno alla figura dell’italiano che, al solito, dà la colpa agli altri (al Fisco in primis) delle disgrazie che gli capitano, ma che in fondo è un buon diavolo, incapace di cattiveria. Perché mai dovrebbe prendersela con i neri? Per questo il film non riesce ad andare oltre, a debordare dal calderone, a dissacrare, a spiazzare, a provocare. E il politicamente scorretto, che avrebbe fatto la differenza, rimane lì, ad accontentarsi di una strizzatina d’occhio.
Checco Zalone sulla rotta dei migranti strizza l’occhio al “politicamente scorretto”. Ma del razzismo neanche l’ombra
30 Dicembre 2019 by