(di Andrea Bisicchia) Perché il cinema è un’arte complessa? La risposta è molto semplice: perché utilizza linguaggi diversi che debbono mettere d’accordo l’arte con la tecnica, il prodotto estetico con quello commerciale, lo star-sistem con l’attore preso dalla strada, la realtà sociale con quella immaginaria, la creatività con le esigenze del pubblico.
In un volume appena uscito da Cortina, “Sul cinema. Un’arte della complessità”, a cura di Monique Peyrière e Chiara Simonigh, Edgar Morin si pone una simile domanda e, in cinque capitoli, offre al lettore non solo un metodo di lettura, ma anche un panorama del cinema francese e italiano, in particolare, con incursioni in quello svedese di Bergman e in quello russo di Ejzenstejn, nel periodo che va tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
L’autore alterna brevi saggi con l’analisi non solo estetica, ma anche sociologica di film come “L’amante di Lady Chatterly”, “Hiroshima mon amour”, “Ivan il terribile”, “Il grido”, “Alle soglie della vita”, tutti film di grandi registi, che sono da ritenere anche autori, grazie alla loro capacità di trattare quelli che sono gli archetipi dell’essere umano e di porre delle domande sui grandi problemi della nostra esistenza, attraverso una continua interrogazione sulle difficoltà che riguardano la nostra vita.
Grazie a questo tipo di indagine, il cinema entra di diritto in un rapporto contiguo con le scienze sociali, perché, attento a raccontare, soprattutto, i rapporti umani, con le loro fragilità, le dinamiche di gruppo, la repressione del potere, il ruolo delle donne, quello delle religioni, le influenze interpersonali, lo fa col suo mezzo, quello tecnico, determinato però nell’arrivare al cuore dello spettatore con una intensità e una velocità che supera la dimensione di qualsiasi intervento critico, il cui compito è proprio quello di dare ordine al disordine dell’immaginario con cui vengono costruite le trame.
I complessi immaginari hanno a che fare con i nostri processi di proiezione e di transfert, in quanto noi siamo soliti proiettare i nostri desideri e persino i nostri sentimenti, durante la visione di un film. A dire il vero, ci immedesimiamo di più con un personaggio cinematografico che teatrale, altra arte complessa, solo che se il cinema crea eroi positivi e negativi, il teatro crea processi morali e sociali, nei quali lo spettatore si riconosce.
C’è da dire che il processo di identificazione crea, a sua volta, un processo immaginativo e, pertanto, di proiezione che, in molti casi, diventa, come detto, un vero e proprio transfert, capace di coinvolge i nostri sentimenti, spesso confusi e sempre in cerca di un equilibrio e di una attestazione.
Anche il cinema, per Morin, si presenta come una “totalità confusa”, che si sperimenta durante le riprese e che non è molto diversa da quella teatrale che si percepisce durante le prove di uno spettacolo.
Morin dedica un breve capitolo al rapporto cinema-teatro, ritenendo, quella dell’Ottocento, l’epoca d’oro del teatro che, lungo il Novecento, ha dovuto fare i conti col cinema, convinto, però, che la salvezza del teatro sia da ricercare nella sua specificità e nella creatività dei suoi registi.
È possibile ricavare un metodo da questi suoi interventi? Certamente sì, il metodo consisterebbe nello studiare le correlazioni esistenti tra le varie discipline, con le quali si potrà interrogare la vita nella sua duplice forma, quella reale e quella immaginaria, con i suoi contenuti manifesti o latenti, per i quali, l’intervento estetico, non è sempre sufficiente.
Il volume contiene due brevi saggi delle curatrici che ci raccontano anche il lavoro svolto nel reperire i testi del noto filosofo e sociologo.
Edgar Morin, “Sul cinema. Un’arte della complessità” – Raffaello Cortina Editore 2021, pp. 270, € 23.
www.raffaellocortina.it