Cina-USA insieme per conquistare il pubblico globale. Ne esce un pop-corn movie da sabato sera. Ma c’è una logica

(di Marisa Marzelli) Ogni film ha alle spalle una genesi particolare, che ne condiziona il risultato. Inutile, quindi, sbeffeggiare – dall’alto di una vera o presunta sensibilità cinefila – The Great Wall, ad oggi la più costosa coproduzione tra Cina e Stati Uniti. Diretta da Zhang Yimou, in Occidente il più noto e rispettato regista cinese, che per la prima volta gira in inglese e dirige un cast capitanato dal divo americano Matt Damon, a fianco di Willem Dafoe, Pedro Pascal (attore di origine cilena famoso per la partecipazione a serie tv americane di successo), la star di Hong Kong Andy Lau e alcune giovani pop star asiatiche da noi sconosciute.
Capitali americani e cinesi hanno unito le forze per sfornare un kolossal fantasy in 3D, con l’intenzione di conquistare il pubblico globale. Visto l’obiettivo, è inevitabile che il film sia frutto di molti compromessi. È il destino più o meno di tutte le coproduzioni internazionali: chi ci mette i soldi comanda e vuole in fretta risultati tangibili e monetizzabili. Se vogliamo fare un esempio, anni fa le reti televisive pubbliche europee si misero insieme per produrre fiction poliziesche (ognuna avrebbe realizzato una puntata con protagonista un suo commissario) da diffondere in tutto il continente. Fu un fiasco, il poliziotto meridionale e indisciplinato non piaceva al nord e il sud non simpatizzava per lo sbirro tutto ordine e regolamenti dell’Europa centrale.
Il caso di The Great Wall è solo un po’ diverso. Cina e USA ci mettono della loro cultura cinematografica però ne esce – almeno per noi – un prodotto annacquato, vecchiotto e semplicistico. Dove i personaggi hanno caratteri schematici e il maggiore sforzo si concentra sulla creazione di effetti speciali digitali di grande impatto. Insomma, un pop-corn movie da sabato sera.
D’altra parte, una logica che giustifichi l’operazione c’è, eccome. Mentre il mercato cinematografico cinese è in forte espansione e il pubblico è affamato di novità, l’industria americana può mettere a disposizione i mezzi tecnici più avanzati. In Cina (dove è stato distribuito in dicembre) The Great  Wall ha già incassato 170 milioni di dollari; più tiepida l’accoglienza negli Stati Uniti: nel weekend di debutto si è piazzato solo al terzo posto del botteghino. A determinare il successo o l’insuccesso commerciale saranno gli spettatori europei.
Ambientato in un XII secolo avvolto nella leggenda, con la Grande Muraglia come interprete non di secondo piano, il film racconta di due mercenari europei arrivati in Cina per procurarsi la polvere nera (antenata della polvere da sparo). S’imbattono invece in un misterioso e aggressivo mostro verde, tra il lucertolone e i dinosauri da vecchio B-movie, riuscendo a tagliargli una zampa. Poi vengono catturati da una guarnigione d’élite che difende la Grande Muraglia. L’esercito è l’ultima difesa prima che i Tao Tei, famelici mostri guerrieri scaturiti dalle viscere della terra, raggiungano la capitale. I Tao Tei hanno la capacità di rigenerarsi e si risvegliano ogni 60 anni. Al prossimo attacco, Pascal intende scappare, mentre Matt Damon – eroe dapprima riluttante a prendere posizione – si unisce ai difensori della Muraglia. Seguiranno scontri con i mostri sempre più numerosi e famelici, squadre di guerriere dalle eleganti armature azzurre che fanno jumping saltando dagli spalti della Muraglia per infilzare con le lance i nemici ed enormi lanterne bianche che volano come mongolfiere.
Narrativamente non mancano le ingenuità. Ad esempio, per giustificare perché i capi militari cinesi parlino inglese, si spiega che tengono prigioniero da anni un occidentale (Willem Dafoe) che ha insegnato loro la lingua. In un altro momento, Pedro Pascal cerca di catturare un bestione sventolandogli davanti uno straccio rosso, come un torero. Nell’insieme, per chi volesse soffermarsi sulla forma e non solo sugli effetti digitali, si assiste ad un’interessante commistione di generi. Il regista Zhang Yimou confeziona un wuxia (i film cinesi di cappa e spada), non stilizzato come i suoi precedenti Hero o La foresta dei pugnali volanti, ma di alto impatto estetico, soprattutto nelle coreografie e nelle composizioni cromatiche. Potenti alcune scene di battaglia. Dal punto di vista occidentale, la trama offre un mix tra i western classici – dove l’eroe arriva non si sa bene da dove, aiuta la gente del posto a risolvere una situazione d’emergenza e riparte – e la guerra agli alieni dei vecchi film di fantascienza.
Per concludere, si potrebbe cercare anche un significato vagamente politico in questa complessa operazione commerciale all’insegna della distensione tra grandi potenze. Chissà che un domani non ci si ritrovi a interpretare The Great Wall –  cosa che a volte capita decodificando a posteriori i film di mostri e alieni – come una metafora della paura inconscia degli umani, anche di differenti ideologie, di doversi alleare per combattere non mostri verdi ma robot intelligenti capaci di automigliorarsi, intenzionati a distruggerci levandoci il lavoro.