Come prendere per i fondelli il gran teatro della vita e, senza prendersi troppo sul serio, uscir di scena con un’ultima beffa

collage teatropolis(di Piero Lotito) «Nel dimenticato Paese dei Mamelucchi, su un poggio della Toscana interna, da un pezzo oramai non vivevano che tremila anime. Gente di sana ràdica, schietta, sanguigna, giocosa o furiosa secondo il vento di giornata». Comincia così, con questo andamento lento e sornione, il breve romanzo Teatropolis di Pasquale Maffeo, scrittore di lingua raffinatissimo, che lavora di gioia e di bulino. Teatropolis, va da sé, condensa in un luogo ben definito – che sia immaginario, non conta – il gran teatro della vita, con le sue grandezze e le sue ineliminabili bassezze.
Pochi personaggi, una forte caratterizzazione, un dialogo sferzante e argentino (toscaneggiante, basterebbe dire), e, in amalgama, un sentore di malinconica consapevolezza del tempo che fugge vigoroso, a dispetto di ogni vanità che sembra trattenerci tutti – chi sul palcoscenico, chi tra le quinte, chi nella buca del suggeritore –, come il vischio delle trappole. Il romanzo, che segue nella produzione di Maffeo tre raccolte di racconti, altri sei romanzi (ultimo uscito, Il nano di Satana, 2011), biografie (Salvator Rosa, Giorgio La Pira, Federigo Tozzi e Jacopone da Todi), la raccolta di versi Nostra sposa la vita (2010) e alcuni testi teatrali rappresentati o radiotrasmessi in Italia e in Svizzera, onora il titolo con una messinscena di essenziale funzionalità, il cui fondo, informa l’incipit, è il fantomatico Paese dei Mamelucchi – così chiamato in tempi lontani da un reduce della campagna d’Africa –, situato dall’autore in «una terra a mezza via tra Livorno e Siena».
Qui, attraverso la quotidiana frequentazione di due ottantenni di diversa matrice culturale – l’emerito cattedratico e ricco proprietario Teodoro de Vellis e il semplice ma caustico Ranuccio il sellaio –, si dipana il metaforico copione di un angolo di mondo che riproduce tali e quali gli eterni intrighi di un Paese intero, il nostro. Si ritrovano, i due compari, nel salotto dell’emerito e, nello sfavillante idioma toscano, tagliano e cuciono su vicende, quelle dei Mamelucchi, nelle quali traspaiono, belle e rotonde, varie ispirazioni nazionali: dall’affondamento della Concordia, con la circostante, famelica curiosità dei mass media, alla sagra infinita di esibizioni cosiddette culturali, con i festival e i saloni, i premi, i raduni, le sfilate; dal processo sul delitto di Perugia, con sentenze che ora assolvono e ora condannano l’«italiano» e l’«americana», alle bizze del divo calcistico Pallottello, che «affronta da eroe la verifica del dna»; fino alle mirabolanti vicende del Cavaliere, «un razzolatore che in regime di libero arbitrio si sbraccia a dirigere da sovrano assoluto», e alla questione dei vitalizi della «parlamenterìa, che l’è un pappare in compagnia».
I due amici trovano così, nell’amaro e però divertito colloquio quotidiano, una profonda ragion d’essere, il filo sospeso e ballonzolante di un’etica del comportamento che può essere soltanto tentato, saggiato a piedi nudi, e mai percorso fino in fondo. Avanzano intanto gli acciacchi (il professore rischia più volte la vita per un problema al cuore) e le malinconie nel piccolo Paese dei Mamelucchi, i cui scarni personaggi – c’è un parroco egiziano, venuto a coprire il vuoto delle vocazioni locali, e ci sono le donne che accompagnano la vita dei due amici: la fedele Cosima, governante del professore, e Armida, vecchio amore del sellaio, tornato a tarda età a condividerne sfoghi e progetti –, i cui personaggi sono voci di un coro che sembra cantare in un’aula via via fattasi deserta.
I beni, accidenti: a chi lasciarli, quando si è senza eredi? Ancora una volta, i due amici si fanno complici di una beffa, una «presa per i fondelli» che permetterà ai loro nomi – profetizza l’emerito – di passare dalla cronaca alla storia. L’idea è sua: donare il tutto all’Accademia dei Solani, con due vincoli: il primo, di «riservare la mia dimora a periodici soggiorni di suoi luminari e scienziati che quassù potranno lavorare e produrre, serviti con guanti gialli»; il secondo, di «concedere ospitalità – ecco il chiodo che inchioda – soltanto ad accademici che mai, non una volta nella carriera, abbiano in qualche modo recato offesa o fatto torto a persona umana, non importa se bidello o presidente».
E chi potrà mai, dunque, essere ospitato nella splendida dimora? Nessuno. «La morale – commenta il sellaio – la sarebbe che nessun lanternone verrà a soggiornare». Le donne, si sa, hanno mente più concreta, e la «presa per i fondelli» sembra dover essere annacquata, ma il piano del professore è un’alzata di ingegno troppo importante per non andare in porto. Chiude dunque a mo’ di apologo il libello di Pasquale Maffeo, con i suoi chiari personaggi che, uno alla volta, quasi in fretta, escono di scena e abbandonano la vita. Sapendo di averla ben spesa.
Pasquale Maffeo, “Teatropolis”, Caramanica Editore, pp. 125, euro 13.